Massessi (famiglia)

La spiaggia di Porto Corallo

La spiaggia di Porto Corallo

Il transito è obbligato, la sosta no. Può capitare di passare qui davanti per anni, come è successo a me, senza fermarsi. L’idea è che per saltare dalla Sardegna alla Sicilia l’ultimo porto sia Villasimius. Ma non è così.

Porto Corallo conviene. Le miglia da fare verso sud est sono meno. Ma non basta. Le persone del porto sono cortesi, il prezzo è basso (35 euro a notte per una barca di 37 piedi, corrente e acqua a volontà), i moli sono sicuri, l’approdo è ideale. Ma non basta ancora. Di fronte al porto c’è qualcosa di più. La famiglia Massessi. Il loro locale ha il bizzarro nome di Top Sound. E’ ristorante, bar (un  caffé ottimo), bazar, giornalaio (ha anche i giornali stranieri!) e soprattutto la famiglia che lo gestisce è aperta, sincera, simpatica, gioviale. Giulia, soprattutto, è sorridente, invoglia a sedersi per una cena.

Specialità: il porceddu, morbido e croccante, ma anche l’aragosta, fatta in vari modi. Il cibo è ottimo, l’atmosfera è semplice, piacevole. Ogni cosa al suo posto.

Nell’epoca della gente fredda e scostante, incapace di capire quanto sia brutta a fare male quel che fa senza passione, la famiglia Massessi fa bene al cuore. Fa bene soprattutto a chi passa di qui, ignaro di un angolo frequentabile di Mediterraneo. Dove è opportuno venire. Dove è necessario tornare.

Share Button

Mediterraneo

Il pontile sud della baia di S.ta Giulia, Corsica, tre giorni fa.

Il pontile sud della baia di S.ta Giulia, Corsica, tre giorni fa.

Si naviga per molti anni, in quello che qualcuno chiama un “piccolo mare”. Tanto piccolo non è, se Odisseo vi si è perduto senza saper tornare nella sua isola. Non lo è neanche per chi ci naviga dentro, in lungo e in largo, incontrando porti sconosciuti, solo sentiti, dove la prua non ha mai fatto accesso.

La natura di questo mare è assai bizzarra. Si somiglia terribilmente, dovunque. Qualcosa lo trascorre, lo abita, che ci si trovi nei Balcani o in Africa, in Asia minore o nel mare di Alboran, in Medioriente o nell’Egeo. Tracce del suo spirito unitario sono sparse nei suoi fondali, nella fauna ittica, negli elzeviri delle nuvole che lo sfogliano di continuo. Eppure… Eppure nelle Proquerolles si respira il nord, come all’Elba, come nel Golfo del Quarnero. Ma c’è sud qualche miglio dopo, alle Incoronate, a Capraia, a Folegandros, a Cipro. La Corsica sa di Pais Basco, eppure alcune sue baie sono sarde, caraibiche. La Sardegna ha sapore d’Africa e al tempo stesso di Spagna. A Crotone pare di atterrare in un porto Libico, a Tel-Aviv sembra di incontrare l’Europa. E poi la Turchia, ponte, laccio, ormeggio, e la Macedonia, laccio, ormeggio, ponte.

La storia di questo mare non ha che inizi, e tra le sue onde vive uno stormo d’emozioni. Ogni angolo di pontile, ogni riflesso delle sue acque, sono gravidi di incontri, e non lasciano mai soli. Navigare per i porti del  Mediterraneo ha molto a che fare con la cultura, con la riflessione, con le relazioni. Ma più di ogni altra cosa, con l’anima.

Share Button

Porti e divorzi

Apro una bottiglia di vino francese. La apro dopo 320 miglia in tre giorni, prima col vento forte, poi col vento sul muso, verso sud. E la apro per festeggiare.

Per prima cosa festeggio di essere per mare, nel vento, nel sole, per porti sconosciuti, dove trovare se stessi. Poi di essere un uomo che ha fatto un patto onesto coi propri bisogni, e dunque, ormai, si occupa solo di desideri. Poi di avere una dignità, piccola, bislacca, fragile, ma una dignità, mia, che mi pesa e mi solleva. E infine festeggio il mio divorzio. La carta, il pezzo di carta, che è arrivato, finalmente. Cosa ci faccio? Nulla. Solo, ora non ho più legami imposti, vincoli che potevano essere sciolti dal buon senso, dalla dignità appunto, e che invece sono proseguiti fin qui.

Brindo a ogni laccio che si taglia, a questo ultimo laccio che mi collega a una vita che non esiste più, che forse non è mai esistita visto come sono andate le cose. Un uomo deve gioire quando capisce che qualcosa c’è, ma soprattutto quando capisce ciò che non c’è. Quel giorno, quell’uomo, fa sempre un passo avanti verso la sua vita.

Brindo alla libertà di essere vivi, di essere consapevoli, di sapere dove sta il nord, di averlo sempre saputo, di aver capito che non si può comunicare, ma di aver accettato di non farlo se non per un ottimo motivo. Brindo a me, a quanto ho patito del disincanto, della dimenticanza, dell’irriconoscenza. A quanto non ne patisco più da molto tempo. Tempo che è servito solo ad attendere un inutile pezzo di carta. Dove c’è scritto molto.

Share Button

Lacci

19032005 I lacci non sono alberi. Quelli sono i lecci. Ma fanno ombra ugualmente, anche di più. Impediscono al sole di scaldare la pelle, la fanno impallidire. I lacci non sono legami, anzi, intervengono dove due cose sono sciolte, dove, diversamente, ogni parte andrebbe per la sua strada. Tengono unito, i lacci, ciò che dovrebbe starsene per conto suo. A volte sono buoni, come quando si chiamano cime e tengono irretita una barca all’approdo. Ma anche quei lacci vengono sciolti, prima o poi, perché li ha disposti chi può slegare i nodi. Dunque lacci veri non sono. I veri lacci li ordisce chi trattiene, mai chi è trattenuto. I lacci hanno sempre un tempo. Prima o poi vengono tagliati. Sempre.

Nella nostra epoca, nel moderno occidente, la libertà è materiale che scotta. Non ci vuole liberi il capitale, che intende stringerci a sé con i suoi strumenti finanziari, i suoi mutui, i suoi prestiti, i suoi consumi “necessari”. Non ci vuole liberi la politica, che ci chiede 1.500 firme da cinque regioni d’Italia per presentarci alle primarie del PD, che ricorre al voto di fiducia sul maxiemendamento per evitare l’iter parlamentare, che ci chiede di spendere per sostenere il Paese (il loro…). Non ci vuole liberi il bisogno, che contraddistingue ogni azione della gran parte di noi, in cui non c’è traccia di desiderio, di scelta volontaria, di passione, ma solo di necessità, costrizione, limite. Non ci vuole liberi l’informazione, che pensa di selezionare per noi notizie irrlevanti, truccate, costringendoci sempre più a fare a meno dei giornali, che pure sarebbe così bello leggere se fossero scritti da gente che pensa in modo autonomo. Non ci vogliono liberi le ex mogli, che ci costringno a divorziare, fare cause, lottare per avere quel che di diritto dovremmo avere, e cioé la facoltà di andare, finito l’amore, capito l’errore, capita la miseria.

I lacci. Ecco l’icona del nostro tempo. Il network è un insieme di lacci. Il blackberry, il telefonino, l’e-mail, se usati male, sono lacci. Facebook, LinkedIn, Twitter, sono lacci. Il lavoro tutti i giorni, sempre uguale, alla stessa ora, nella stessa scrivania è un laccio. E la solitudine? E la vita (“tutto il resto non è vita, ma tempo” diceva Seneca)? Non si sa… Come facciamo a vivere sapendo che teniamo qualcuno allacciato, che senza quei lacci volerebbe via, che altrimenti, se sciogliessimo il nodo alla bitta, non lo vedremmo più? Ma non capiamo che quel laccio ci fa perdere ogni cosa di colui che leghiamo? Ho provato a spiegarlo, un giorno, a spiegare che se non venivo sciolto subito sarei andato via per sempre. Non erano che parole al vento. E infatti sono andato via.

Io salpo. Sciolgo la cima. Ma prima di salpare lancio un appello. Lo strumento più rivoluzionario del momento, signori miei, è anche il più antico. Il primo uomo prese una pietra e la scheggiò, vide che da un lato, sul filo, tagliava. Nacque il primo coltello. E’ lui l’eroe del nostro tempo. Il coltello per tagliare, per segare, per liberare. Il coltello da usare contro di noi, non sul nostro corpo, ma sui nostri lacci, che ci stringono, che ci limitano, che ci segano i polsi. Pensateci, liberi, sani, vuol dire senza lacci. Alzatevi, prendete un coltello, tagliate tutto. E poi mettetevi in marcia. Il mondo senza lacci è tutta un’altra cosa. Morirete a novant’anni, come avverrebbe comunque. Non rischiate niente. Anche il rischio, la paura che nasconde, è un laccio. E allora, non abbiate paura. E’ un buon inizio.

Share Button

mia che indico per blogIo sono un po’ come Ismaele, il personaggio narrante di Moby Dick, che nella prima pagina del capolavoro di Melville dice che ogni tanto, dopo un po’ di vita a terra, capisce che deve rapidamente prendere il mare. Lo capisce da uno strano ronzio, quasi un malessere psicologico, che lo induce a scendere per strada, ad accodarsi ai funerali, con l’insana tentazione di seguire le persone e di fargli volare via il cappello con una manata… Io sono un po’ così, sento fremere i neuroni, immagino tempeste, tento di rassicurarmi… Per questo tra qualche giorno filo le cime a poppa e salpo.

Come sempre accade, poco prima di partire, la mota portata dal fiume raggiunge le chiuse. Tutto si accavalla, si mescola, si sovrappone. Mulinelli tumultuosi.  E’ l’ultimo grido della mainland, la terraferma, che invoca il suo tributo, urla che non puoi partire, non ancora, hai molto da fare. Ci sono le bozze del libro da correggere (che vuoi pubblicare un libro senza aver rivisto la ventiduesima bozza??), ci sono i lavori di manutenzione della barca (che vuoi prendere il mare senza mille revisioni, manutenzioni, prove?), ci sono i lavori alla casa (vergognati, hai patito il freddo per la legna verde, l’inverno scorso, e ora non hai ancora fatto legna nel bosco??), c’è il divorzio che non arriva, l’avvocato da pagare, la gente a cui dare retta, i giornali, le notizie, il blog, il blog di antonio, sergio da chiamare, francesco che sta un po’ giù, alessandro, roberto…

Queste scene le ho già viste. Poi tutto finirà, si compirà per la precisione, nel buio ancora non schiarito dall’alba, nel rumore della cima loffia che cade in acqua, nel mare tra le dita che la recuperano, nel lento rumore del motore che spinge fuori dal porto. Tutto finirà così, com’è iniziato, con un ronzio. Servirà ancora una volta a ricordarmi che siamo qui per pensare, per ascoltare, per viaggiare, per godere della notte, di quel suo particolare momento d’incertezza prima del giorno, quando pare che il tempo si sia fermato e poi t’accorgi che ti sei perduto il minuto esatto del passaggio, come ti ridestassi dopo un breve sonno. Sarà mare per quasi 3.000 miglia, porti, gente da incontrare, momenti da gustare sotto le palme dei piedi, dure finalmente, sulla pelle salata, negli occhi rossi dal sole, nel Mediterraneo. La nemesi. Sarò ancora una volta in mare, e tutto parrà non essersi mai mosso di lì.

Share Button

Tra uno e l’altro

 Ho scoperto che tantissime persone non conoscono George Simenon o, se lo conoscono, hanno letto solo qualcuno dei suoi Maigret. Sembra incredibile, visto che era un autentico genio, tra i più prolifici di sempre, in grado di scrivere fino a ottanta pagine al giorno. Ha scritto centinaia di romanzi e racconti, ha tirato oltre settecento milioni di copie (!) ed è il quindicesimo autore più tradotto di sempre.

Simenon nasce a Liegi il 12 febbraio del 1903 e muore a Losanna per un tumore al cervello nel 1989. Tra queste due date la sua vita è un bazar di viaggi (alcuni anche su barche da lavoro e a vela), mogli e amanti (Simenon era un vero appassionato di donne, per dirla così…), lavoro febbrile. La sua fama fu prima ignorata (il mondo della critica mal digerisce che uno scrittore sia prolifico), poi relegata alle avventure di Maigret (che non sono affatto le sue opere migliori: Calasso e Fellini dividevano la sua produzione in due: i romanzi gialli di Maigret erano per loro i “Simenon”, il resto della sua produzione erano i “Simenon-Simenon”), infine riconosciuta e celebrata anche grazie al lavoro di molti traduttori ed editori (grazie Adelphi).

Romanzi come Cargo, I Pitard, La Camera Azzurra, L’uomo che vedeva passare i treni, Betty etc… sono molto belli. Io li leggo generalmente tra un grande romanzo e l’altro, cioé tra due letture che mi abbiano molto impegnato. E’ come affidarmi a un luogo sicuro, un ritorno a casa dopo un lungo viaggio e in attesa del nuovo. La sua sensualità, l’intensità emotiva dei suoi personaggi, l’apparente semplicità delle storie (condite in realtà di puro genio narrativo) sono tali da far provare al lettore la sua mancanza, se da troppo tempo non lo si frequenta.

Ultimo letto, in un pomeriggio, La Camera Azzurra. Romanzo breve, perfetto, di angoscia progressiva e finale asfissia, di sensualità e stordimento, di tragedia e follia. Vi consiglio di portarlo in borsa questa estate, che voi navighiate nel sud del Mediterraneo o che stiate sdraiati sulla spiaggia.

Share Button

Ribelli

main_jpg[1]Un recente numero di “D”, il settimanale di Repubblica, riportava in copertina la foto di due noti personaggi: Giovanni Allevi e Carolina Kostner, uno musicista, l’altra pattinatrice, intitolando: “Vi raccontiamo il nostro futuro di angeli ribelli“. La cosa mi ha colpito, anche perché sto ragionando da giorni sul concetto di accettazione e di ribellione.
Secondo le normali regole dalla comunicazione giornalistica, quel che si mette in copertina può essere giusto o sbagliato, bello o brutto, ma deve certamente attrarre. Deve dunque riunire in un breve sintagma un concetto che chiunque possa comprendere, che vada incontro al sapere comune in modo accattivante. Evidentemente a Repubblica devono aver pensato che due giovani artisti/sportivi di successo e il concetto di ribellione fossero un messaggio appealing e condiviso.
L’editore Chiarelettere con cui sto discutendo i particolari del libro che andrà in stampa a settimane, mi ha stimolato a cercare un titolo in questa direzione. Alzarsi, muoversi, alzare la testa, ribellarsi, cambiare andando in contrasto col flusso generale. Il libro, va detto, racconta la mia scelta di smettere di lavorare, dire addio alla carriera, ai soldi, al “potere”, per cambiare vita, e offre al lettore una mappa da seguire per fare altrettanto.
Uno dei titoli che ho pensato è infatti “Stand Up! – Alzare la testa, lasciare il lavoro e cambiare vita. Filosofia e strategia di chi ce l’ha fatta” (vi piace? Piccolo sondaggio..). Dopo l’epoca delle grandi rivoluzioni (gli ultimi due secoli), che hanno prodotto molte cose ma certo grande dolore, morte, guerra civile e poi restaurazione, mi pare infatti che la strategia per battere il sistema che opprime e avvilisce sia un altro: smettere di accettare le regole individualmente. Se ognuno si assume la responsabilità di reagire, di non accettare le obbligazioni subdole del materialismo, del consumismo, della produttività a tutti i costi, può avvenire ben altra e ben più duratura rivoluzione, incruenta e doverosa, che può forse contribuire a fare un passetto in avanti. Insomma, ribellarsi oggi mi pare necessario, ma solo come individui, assumendo su di sé ogni costo dell’azione, agendo da esseri maturi, non aderendo ad alcuna ideologia che non sia la propria coscienza di uomini e donne in equilibrio.
L’epoca è decadente, i ribelli mi sembrano sopiti. Perfino Repubblica individua cenni di ribellione in due milionari super acclamati. Ma cosa volete che si ribellino quei due lì, bravissimi, stimabilissimi, ma certo non proprio l’icona della rivolta…
Share Button

Simpatico

 Non so se, schifati dal caos mediatico, avete seguito le ultime discussioni interne alla politica. Soprattutto quelle relative al dibattito precongressuale del PD. Io, super schifato, annoiato, mi ero perso qualcosa, allora sono tornato indietro e ho recuparato qualche informazione. Vi sintetizzo uno degli aspetti, a mio modo di vedere, più interessanti.

C’è una giovanotta che si chiama Debora Serracchiani. Non so molto di lei, però i fatti sono questi: è emersa dalla base, credo sia la segretaria del PD di Udine, o di uno dei circoli di Udine. Ha parlato in modo semplice e chiaro all’assemblea nazionale dei circoli (vedi video). In particolar modo ha detto una cosa semplice: se qui ognuno dice la sua e poi non c’è una sintesi, un pensiero prevalente che diventa la linea del PD, la gente non può seguirci e riconoscersi. Dunque ha affrontato il tema della leadership, aggiungendo che “loro” (il PDL) invece una leadership ce l’hanno. Chiunque di loro parli si riferisce a Berlusconi come leader o al PDL come partito.

Se osservate il video, vedete che tutti sorridono benevolenti a questa ragazza. Sorridono come si sorride a chi, insolente ma simpatico, ci dice qualcosa di forte, che non dovrebbe permettersi di dire, ma lo fa quasi vergognandosene, dunque “bottom-up” come dicono gli americani. Infatti se ci fate caso, la ragazza è decisa, ma scodinzola con ritegno, quasi fosse la prima ad accorgersi di farla fuori dal vaso. A conferma di questo per due volte sorride schermendosi e dichiarando che non riesce “a dare del tu” al Segretario Franceschini.

Ora che si discute di leadership, ora che la ragazza ha addirittura battuto Berlusconi nel suo collegio alle europee, ora quindi che non è più la brillante ragazzetta di bottega insolente e simpatica, bensì una potenziale nuova leader in crescita, la sua simpatia sembra scemare. Soprattutto, la si aspetta al varco. Quando lei ha definito Franceschini “simpatico” e dunque preferibile come leader del partito, tutti hanno gridato alla semplificazione politica, alla banalità rivelatrice di inconsistenza. Tutti o quasi l’hanno censurata.

Bene. I leader politici ignorano che la ragazza ha colto nel segno due volte. La prima sostenendo che il partito non ha sintesi, che la gente chiacchiera scompostamente durante i congressi, che non c’è educazione, rispetto per l’opinione democratica in cui ognuno deve ascoltare, poi dire la sua ma alla fine decidere a maggioranza e accettare che passi una sola linea, CHE TUTTI DEVONO SOSTERE. La seconda quando ha spiegato che il problema è la leadership, e cioé la faccia che sintetizza la molteplicità del partito, che fa da metonimia (una faccia per tante facce), da simbolo. Dicendo che “Franceschini è simpatico”, cosa che io condivido solo parzialmente (non sono affatto un suo convinto sostenitore) ha centrato in modo super sintetico una questione fondamentale: la faccia.

In un’epoca mediatica quel che si vede conta come quel che sta dietro. In un mondo in cui perfino la Latteria Soresina si pone il problema di comunicare in uno spot il tema della fiducia, del non mentire, dell’autenticità per vendere i propri prodotti caseari, la faccia onesta, la simpatia, l’autenticità sono elementi chiave del consenso. In un mondo in cui per governare coscienziosamente occorre dire molti “no”, il volto di chi dice “no” deve essere franco, credibile, simpatico, piacevole, magari anche divertente, far sorridere. Vi fareste dire “no” più volentieri da un simpatico o da un antipatico? Da Occhetto a Prodi, da D’Alema a Veltroni, qualcuno vi ha mai mosso l’emozione semplice, naturale, empatica della simpatia a pelle, della sensazione di fiducia e di propensione amichevoli e dirette? Non credo.

La semplicissima regola della comunicazione che prevede lo sdoppiamento tra ciò che è realmente e ciò che di semplificato occorre comunicare per farsi capire e amare, è ignota al PD, alla sinistra nella sua generalità. Berlusconi è simpatico agli italiani, perché è un puttaniere (come gli italiani) un furbastro (come gli italiani) un casinista (come gli italiani) un paraculo (come gli italiani). Lui ha saputo parlare agli italiani prendendo degli italiani un verso, una piega, come ad esempio il desiderio che gli italiani hanno di farsi dominare, di farsi indicare la via dall’uomo forte, di delegare a lui la complessità della cosa pubblica. Ma gli italiani non sono solo questo, sono anche molto altro (come chiunque, e grazie al cielo). Ed eccola dunque la via: tirare fuori un leader che sappia fare alchimia con tutto il resto, con la parte buona del Paese, con i sentimenti e le emozioni che gli italiani hanno sopite. Se Berlusconi ha colto il lato furbesco del Paese, qualcuno può batterlo toccando sentimenti, pulizia, onestà, orgoglio, simpatia. Elementi capaci di battere il lato oscuro del Paese.

Questo (già vi sento!) non vuol dire cercare una faccia invece di una testa o preferire l’immagine al contenuto. Affatto. D’Alema ha testa, certo, ma è antipatico, arrogante, guarda in diagonale durante le interviste (gesto che la PNL spiega chiaramente come segno di atteggiamento subdolo e calcolatore) e soprattutto era il Presidente della Bicamerale quando barattò con Berlusconi la sua leadrship con il conflitto d’interessi. Intendo dire che la gente (da sempre) va affascinata, va prima colpita, va prima convinta a pelle e poi, certamente, con le idee, con la conseguenza tra emozione e azione, con la sostanza del buon governo. Chi vi sta antipatico, oppure indifferente, potrà mai convincervi di stare dalla sua parte? Potrà mai farsi dare un euro da voi, o un voto, o un bacio? No. Quando andate a un appuntamento in cui dovete chiedere qualcosa a qualcuno (la mano, dei soldi, una promozione) fate attenzione all’alito o no? Fate attenzione all’abito o no? Non fate forse la prova sorriso di fronte allo specchio? Non cercate di prevedere quale possibile battuta fare, qualcosa che piaccia? E questo vuol dire che siete inautentici, che non avete sostanza dietro la pettinatura? Ma certo che no. Solo, vi ponete un logico problema di comunicazione, piacere prima a pelle, al primo sguardo, e poi dire chi siete, cosa volete. Le due cose non confliggono, sono solo un tutt’uno, da che uomo è uomo. Ma lo sanno tutti…

Divisi, con poche idee forti, con la spocchia di bollare una persona vivace come una “giovane inesperta”, ignari di essere brutti e antipatici, di non saperci far muovere il cuore, di non saperci riscaldare e far credere ancora, di essere incapaci a venderci qualunque automobile usata, i vecchi e nuovi leader del PD litigano, si insultano, vanno a rifare quel che hanno già fatto, senza l’umiltà di vedersi per quello che sono, e cioé dei perdenti, gente senza futuro, senza fuoco dentro, senza autenticità, capaci di prendere ab aeterno il solo 24% del consenso degli italiani. Mentre le cose sono così semplici da capire… Per prima cosa, cercate di essere simpatici. ve l’ha detto Debora, la ragazza di bottega.

Share Button

Musica da non perdere

 Ieri, ore 21.00. Concerto del gruppo americano Dave Matthews Band (DMB), per la prima volta in italia, nel quadro del Summer Festival di Lucca. Circa 6.000 persone in piazza Napoleone.

Ha ragione Luca Sofri, probabilmente non sfonderanno mai. Sono bravi da troppo tempo, sono famosi in USA da troppi anni. Qui da noi li conoscono in pochi. Il motivo resta un assoluto mistero… Però costituiscono l’icona vivente del talento, della qualità, della sensibilità artistica, della tecnica musicale e di come, soprattutto, molti dei più bravi artisti (scrittori, pittori, musicisti etc) restino spesso confinati in ambiti inadeguati alla loro maestria. Un gruppo di questo livello dovrebbe essere primo in classifica in qualunque stupido programma musicale dove valletti cinguettanti e ignoranti decantano le doti del cantantino di turno. Invece no, il cinguettio a volte copre la grande musica.

Come fosse una nemesi, ieri il “gruppo spalla” che ha anticipato il concerto era quello di un tale Jury. Pare che sia un cantantino emerso da X-Factor. Il poverino, mandato al macello da qualche produttore di indefinibile ignoranza, è stato fischiato, dileggiato, brutalizzato da un pubblico col palato fino, venuto da ogni dove per ascoltare musica vera. Quel signorino (che mi ha fatto anche tenerezza, se vogliamo) è certamente più noto dei DMB. Pare incredibile, ma è così…

DMB in concerto ieri sera a Lucca

DMB in concerto ieri sera a Lucca

Il gruppo americano però ieri ha dato una lezione di performance dal vivo, una lezione di musica e professionalità artistica, suonando per quasi quattro ore senza interruzioni, scandendo la musica dei brani più famosi (Crash into me, Grave digger, Ants Marching e via andare…) insieme ai brani dell’ultimo disco, ma soprattutto rapendo letteralmente la scena, l’attenzione, l’emozione dei presenti. Chi non c’era farà certamente fatica perfino a immaginare quel che abbiamo visto e ascoltato. La mimica di Dave, la sua eccellenza d’interprete, la sua straordinaria dote di vocalist hanno esaltato i virtuosismi di Bauford, il più talentuoso tra i batteristi in attività, per quel che ne so, e la fantasia di chitarra, violino e fiati.

Vi consiglio vivamente di comprare i loro dischi, o di scaricarli da internet, dove sono tutti disponibili. Lo consiglio perché godiate di questa splendida musica, ma lo faccio anche per tentare, nonostante tutto, di diffondere qualcosa di valore. Resto sempre tenacemente, ferocemente convinto che il valore debba essere propagato, propagandato, e sia destinato ad emergere. Se ognuno di noi dicesse una parola al giorno in favore della persona più dotata che conosce, contrastasteremmo la marea di comunicazione commerciale che porta alla fama i mediocri per pure ragioni di profitto. Se lo facessimo, tutti, ogni giorno, un’onda di qualità invaderebbe il mondo. E lo renderebbe migliore.

Share Button

Ridere, senza malinconia

01[1] Le avete mai sentite? Ma certo che sì, ne sono sicuro. Le ragazze assurte per qualche strana ragione agli onori della cronaca, intervistate in televisione. La domanda di rito cade sempre: “Ma tu, che sei così bella e desiderata, cosa cerchi’ Cosa deve avere un uomo per fare colpo su di te?”. E la risposta, immancabile: “Deve farmi ridere”. Ma ridere di che?

Cos’è avete problemi col buonumore? Siete depresse? Vi hanno prescritto la terapia dell’allegria? Chi è il vostro medico, Boldi? Cosa volete ridere, e poi perché volete ridere così tanto? Ma non vi pare che il riso e l’ascolto, che l’allegria e la contemplazione, dovrebbero essere ingredienti da dosare, da mescolare, da rendere omogenei, come in una salsa ben riuscita? E poi cosa volete, un uomo giullare, che ne sappia sempre una più del diavolo per sradicarvi dal tedio in cui siete precipitate? Ma non vi rendete conto che tutte queste risate sono come scosse di terremoto, che quando si annunciano sono una vibrazione quasi piacevole, un massaggio, ma poi tirano giù ogni cosa con loro? Ridere…

Mi piacerebbe che non venissero più fatte domande cretine, che non venissero più intervistate le persone nulladicenti, nullapensanti. Mi piacerebbe che si avesse ritegno di queste scenette, che chi le fa si ribellasse, per mancanza di senso. Mi piacerebbe, dunque, che il mondo fosse diverso da questo.

Io se voglio faccio ridere. Lo giuro. Me lo dicono. Se sono in vena ne tiro fuori di quelle belle. Ho i tempi, mi si dice. I tempi della rapida comicità. Però ricordo che con una ragazza del Grande Fratello, una di queste bonone tutte pannicolo, deltoide, scafoide, scemoide, ero serissimo. Si chiamava E. e ho visto che è anche diventata una delle protette di Del Noce. Una sera a cena, eravamo in quattro, fui di un’antipatia rara. Parlavo poco, dicevo cose altre, sempre contro, non ridevo alle battute, ero sarcastico, citavo gente che certamente lei non conosceva, libri che non aveva letto, autori inventati per sottolineare la sua ignoranza. Sì lo so, non è bello, è come si dice? Circonvenzione d’incapace. Mi venne così. E lei, una di quelle che voleva che lui la facesse ridere, era molto incuriosita. Mica si risentiva. Pazzesco… Chi è questo che non si mette a quattro zampe di fronte a tanto lombo, tanto controfiletto? Oddio, a me il controfiletto piace, sia chiaro. Mi piace molto, intendo. Facevo anche le mie brave fatiche a fare il vegetariano. Però provavo anche piacere. Ma che diavolo vuol dire ridere, farmi ridere, voler ridere? Non io, mie care, non a comando, non per tappare la vostra falla d’angoscia. Ridete quanto vi pare, but not in my name. Tra il fasciame della vostra sterilità non premo nessuna stoppa….

Chi dice che vuole ridere deve essere maltrattato. Ma non c’è abbastanza da ridere in questa tragicommedia? Mancano i comici, forse, a quest’epoca? Mancano le battute, i copioni d’avanspettacolo? E allora, almeno non ditelo. Fate finta di niente. Vedrete che basta che vi guardiate intorno, o allo specchio, e motivi d’ilarità ne troverete a sufficienza. Vogliono ridere. Ma pensa te…

Share Button