L’ultimo

Faamu-Sami in navigazione con un docile maestrale

Tutte le volte che qualcuno dice, o scrive: “bisogna vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo” io mi interrogo. Se fosse il mio ultimo giorno, cosa farei?

L’elenco è piuttosto lungo. Scriverei alcune lettere, per spiegare a qualcuno cosa penso, cosa ho vissuto, com’è andata. Non potrei mai morire senza essere sicuro di essermi spiegato. Non a tutti, però. Avrei molti grazie da dire, ma non perderei tempo a mandare a quel paese chi dovrei. Non l’ho fatto durante la vita, figuriamoci all’ultimo. Tutti quelli che non mi hanno più sentito possono essere certi, da soli, che non si è trattato di dimenticanza. Poi vorrei organizzare un bel pranzo, invitare una decina di persone e festeggiare con loro tutto quel che è stato. Vorrei averli accanto, stare io accanto a loro, fino all’ultimo. Il menù prevedrebbe molte buone cose, cucina di mare, piatti intorno a cui giro da una vita, modificandoli, studiandone natura e ispirazione. Vorrei anche fare l’amore come piace a me, rileggere alcune pagine immortali, vedere un paio di film, stare un po’ da solo, fare qualche bordo a vela nel maestrale (il mio ultimo giorno, naturalmente, sarebbe un giorno di vento da nord ovest).
A metà delle mie fantasticherie però mi accorgo che qualcosa non quadra.

Se ogni giorno dovessi vivere “come se fosse l’ultimo” mi annoierei. Anche gli altri si annoierebbero. Dopo due o tre inviti non verrebbero più, e io stesso non saprei come divertirmi a questo modo. L’ultimo è l’ultimo, e non può essere ripetuto. E’ un giorno singolo, unico. No, non potrebbe funzionare. E’ così che ho provato a capovolgere tutto. Forse bisognerebbe vivere ogni giorno come se fosse il primo.

Il primo giorno mi piace molto. E’ quello in cui si fa un progetto, oppure in cui si mette la prima pietra. Il mio primo giorno lo ricordo, ne ricordo molti, tutti inizi di nuove vite. L’entusiasmo trepidante della prima riga di un romanzo, la lieve inquietudine di quando si mollano le cime per un lungo viaggio in mare. La prima promessa, il primo chilometro di un itinerario. La prima pagina di un buon libro, i primi passi accanto a una persona, il primo boccone di un cibo, il primo contatto con la pelle di una donna da amare, il primo bacio sulle sue labbra ancora sconosciute. Anche il primo giorno c’è maestrale, chissà perché. Tutto è davanti, si scorge all’orizzonte, se ne intuiscono le forme, sinuose come il sogno e incerte come la speranza. Il primo giorno si è più che mai lontani dalla morte, tanto da non vederla, da non sospettare neppure che esista. Che meraviglia.

Se ogni giorno dovessi vivere “come se fosse il primo” però mi annoierei. Ogni giorno dovrei mollare ciò che sto facendo per iniziare qualcos’altro, e io odio le cose lasciate a metà. Non vedere come va a finire mi deprime, come non scrivere mai l’ultima riga di una storia, non dare mai volta alle cime nel porto di destinazione. Cambiare labbra ogni giorno, senza mai coglierne il frutto maturo, è come non averle mai sfiorate. Vivere avendo tutto davanti, senza costruire memoria, è impossibile.

Allora cosa devo fare? Come devo vivere ogni giorno, perché sia un buon giorno, perché abbia senso, perché dia dignità alla mia vita? Me lo chiedo spesso…

Qualche giorno fa mi sono accorto che penso in egual misura al passato e al futuro, ma ho la religione del presente. Per una cosa ricordata ne immagino una a venire. Se mi viene in mente qualcuno che mi stava a cuore gli scrivo, ora, per evitare di perdere l’occasione. Per un momento che vivo ne rivivo alcuni e spero di averne altri di fronte. Se immagino qualcosa che non c’è mi siedo e la progetto, subito, per non perderne l’intuizione. Per una prima riga scritta devo trovarne una che concluda, per un pensiero lanciato dritto me ne serve uno obliquo, per un albero che osservo ho voglia di costruire un muro. Quando scopro un cibo che mi piace ho voglia di prepararlo in mille altri modi; se mi disgusta tendo a ricordarmene per sempre. I miei amici mi sono sempre in mente, ma vorrei incontrarne molti altri. Il disincanto e le speranze mi fanno sempre buona compagnia.

Nel frattempo, però, ho un mucchio di cose da fare, oggi, per utilizzare il tempo che ho. Mescolo cemento che tende ad asciugarsi, occorre che io mi sbrighi. Preparo cibo che ho voglia di mangiare, altrimenti va sprecato. C’è un oggi, per me, in cui non tengo conto né di chi è andato né di chi verrà. C’è il tempo senza tempo da sprecare, in cui non essere, non pensare, non avere memoria né progetti, in cui non fare. Ci sono regole a cui disubbidire, norme di comportamento da rifiutare. L’oggi di oggi, quello di quando scrivo la parola “oggi”, la frazione tra la “o” e la “g” e le frazioni infime al suo interno.

Se oggi fosse “quel giorno” penso che vivrei così, a metà strada tra il primo e l’ultimo, senza sprecare, senza ansia di fare, pieno di progetti mentre mi sforzo di ultimare quello che ho iniziato. Sapere che è l’ultimo non mi impedirebbe di sperare e non potrebbe rendere più vivida la mia memoria. Vivrei godendo come posso, dunque moltissimo, per poi condividere. Vivrei come oggi.

Share Button

La bellezza del somaro

Ho visto “La bellezza del somaro” della coppia Mazzantini-Castellitto. Non ho mai particolarmente amato nessuno dei due, ma questo è un buon film, ricco di spunti. La storia è semplice, una coppia di professionisti 45-50enni, colti, boghesi, sensibili a quasi tutte le icone della cultura di sinistra, un po’ radical-chic, figli diversi della psicanalisi, sensibili all’ambiente, con una figlia adolescente, devono fronteggiare una novità che ha dell’indecente: la loro figlia è una Lolita soft, e porta a casa il suo “fidanzato” settantenne (un poetico Enzo Jannacci). Una sorta di “Indovina chi viene a cena” aggiornato ai nostri giorni, in cui essere nero non è più inaccettato ma essere vecchi è ritenuto culturalmente intollerabile.

La trama è esile, come si vede, e non sta in quella l’interesse del film. La pellicola è, in realtà, un buon affresco della generazione dei baby-boomers nostrani, appunto i 40-50enni, che come dice uno dei personaggi (con una battuta destinata a rimanere alla storia, forse non solo del cinema): “quando eravamo figli noi, i figli non contavano un cazzo. Ora che siamo genitori, i genitori non contano un cazzo”. Sintesi quasi perfetta di una generazione malnata. I due protagonisti (Castellitto – Morante) sono un architetto affermato che viene dal niente e una psicoterapeuta figlia di “un grande lacaniano”. Sono ansiosi, instabili, si fanno dominare dalla colf ucraina, dalla figlia adolescente, da una madre disinibita e snob, da un’amante (di lui) bella e spregiudicata, dai pazienti (di lei) bizzarri e invadenti, perfino dagli amici, coetanei instabili e discutibili, e da un settantenne che li sovrasta perché ha una propria dimensione esistenziale, è sereno, ed è dunque troppo più saldo di loro.

Figli degli anni Ottanta, nipoti di una generazione di ferro, i due protagonisti hanno confuso il benessere economico e sociale con l’armonia esistenziale, rimpiangono la moto che non hanno avuto (o con cui non sono mai andati a fare le vacanze in Corsica, mito inossidabile della generazione malnata), sono costantemente in ansia per questi mostriciattoli aggressivi e sputasentenze che sono i loro figli, per i quali sono eternamente in ansia, preoccupati di parlargli (troppo), di esserne amici (troppo), incapaci di far loro da modelli.

Ottimo quadro di quanto la mia generazione sia mal riuscita, traviata dagli anni Ottanta e Novanta, dallo strapotere della cultura psicanalitica, dal benessere troppo accessibile, dal denaro come falso simbolo dell’evoluzione esistenziale. Un film a metà strada tra “L’Ultimo Bacio” e “Il Grande Freddo”, in cui si ride di più ma ci si amareggia maggiormente, all’insegna dell’ottima, sempreverde, commedia all’italiana. Non mancano le torte in faccia, le immagini da cinema d’autore (il paziente vestito come la morte, con tanto di falce, a dorso di somaro nella bella campagna senese) e un epico schiaffone di padre-Castellitto alla figlia (odiosa) che suscita un meritato applauso spontaneo nella platea. Quello schiaffo è l’unica cosa buona che il protagonista riesce a produrre nel suo ruolo di uomo e genitore. Un po’ poco

Share Button

4 giorni con mio nipote, che occupa l’università

Mio nipote ha 23 anni, e fa politica. Ho trascorso con lui quattro o cinque giorni, tra un’occupazione e l’altra dell’Università di Roma. Abbiamo parlato molto, di Grecia, delle violenze, di consumismo e politica. Insieme abbiamo guardato Annozero e commentato i giornali.
Mi sono reso conto che a mio nipote sfugge la differenza tra rabbia e indignazione.

Chi subisce direttamente un’ingiustizia si sente defraudato, patisce la violenza, misura sulla propria pelle l’entità di un danno e vorrebbe reagire subito, prendersela con qualcuno. Però mio nipote non prova ancora sulla pelle questi problemi, sta ancora studiando. Non è ancora in difficoltà economiche, perché per pagarsi l’università gli basta fare il cameriere o il muratore per un paio di mesi. Per il resto dorme in casa dei genitori, non paga mutui, non è sposato, non ha figli. La rabbia la provano i disoccupati; la rabbia dovrebbero provarla gli anziani senza pensione; la rabbia è dei precari, dei genitori che non arrivano a fine mese, che non sanno come pagare l’affitto. Neppure per loro giustificherei la violenza, ma mio nipote non può neppure invocare la rabbia che la genera. Non lui, non la gran parte degli studenti, che prima e dopo ogni manifestazione hanno una famiglia, una stanza dove dormire. Loro, com’è giusto, devono essere preoccupati, devono partecipare, studiare e agire politicamente. Cosa che fanno, e di cui sono molto orgoglioso.

Ho cercato di spiegare a mio nipote che la sua rabbia è un sentimento che viene da dentro, dunque non ha a che fare con questioni oggettive o problemi politici. E’ lo sfogo di un problema psicologico personale, molto diffuso. Anche io provo rabbia, a volte. La sfogo sempre su qualcosa, la prima che mi capita a tiro. In questo Paese c’è gente che la sfoga sugli immigrati, causa di ogni male, sui gay, sugli handicappati, sulle donne, sugli avversari, sui collaboratori, sui bambini. Alcuni poliziotti sfogano la loro rabbia sugli studenti. Alcuni studenti la sfogano sulle vetrine, sulle auto, sui poliziotti. Non cambia molto, a ben vedere.
Vivere dentro questo sistema, così com’è, fa venire molta rabbia. A molti. Anche a mio nipote. La differenza tra me e lui è che io ho capito che è un problema mio. Come me, come tutti a questo mondo, anche lui dovrà disinnescare dentro di sé la propria guerra. La rabbia non è un linguaggio politico, ma un problema di cui venire a capo individualmente, senza mentirsi sulla sua origine, senza sbagliare desitnatario sulla sua direzione.
Deve capirlo, questo, se vuole almeno tentare di diventare un uomo.

Ho anche provato a spiegargli che di Tienanmen, più dei morti rimasti anonimi, più di ogni altra cosa, ricordiamo un giovane gracile, magro, inerme, dritto davanti a un carro armato, disarmato, pacifico, ma fermo. Ho provato a suggerirgli che migliaia di studenti sdraiati tutti i giorni davanti al Parlamento, per settimane, per mesi, costringendo la polizia a spostarli senza opporre alcuna resistenza, diventando una notizia quotidiana, hanno un potere enorme, simbolico e politico, che la violenza invece azzera, circoscrive, dissolve.
L’ho invitato a constatare che i più violenti tra loro non sono i migliori combattenti. Sono solo i più fragili, i più esasperati. Chissà da cosa, ognuno le sue cause.

Ho cercato soprattutto di spiegargli che un  mondo migliore è una cosa che ha a che fare con l’intelligenza e il progetto, la costanza e la caparbietà. Ognuno di fronte a sé stesso, alla propria vita, diventando forte e saldo, così forte e così saldo da non fare confusione tra rabbia e indignazione, tra la via breve della violenza e la via lunga dell’azione.

Ho avvisato mio nipote che questa posizione è impopolare, che quelli che pensano, che non cedono al ricatto della piazza e restano integri e duri nell’azione di lotta, da sempre, vengono accusati di pavidità, di vigliaccheria, rischiano di perdere ruolo, perché nel caos ha più ruolo chi urla sopra il rumore. Più ruolo ma meno impatto. Per questo la via che lo attende è difficile. Non c’è cosa più dura di fare una battaglia mantenendo alta la guardia delle distinzioni, senza massificare, senza prendere la via laterale che rende di più in termini d’immagine tra simili. Ho cercato di spiegargli che se un uomo prova rabbia deve porsene il problema. Così come devono farsi molte domande quelli che in questa epoca non provano indignazione e non partecipano. Anche loro sono preda di una nevrosi: ignorano il mondo in cui vivranno.
Il Sistema preferisce avversari che non scendono in piazza oppure che spaccano tutto. Sono i più facili da battere, non hanno mai dato fastidio a nessuno.

Ho mostrato a mio nipote che molti “adulti” strizzano l’occhio ai giovani. Si mostrano comprensivi sulla violenza, o non sufficientemente fermi nel condannarla. Quasi tutti hanno tra quaranta e cinquant’anni. Nel 1980 loro, come me, avevano quindici anni. Mi pare che sfoghino oggi, attraverso i figli, la frustrazione di non assersi mai ribellati: figli del consumismo, troppo giovani per il movimento studentesco degli anni ’70, troppo vecchi perfino per la Pantera. Omologati e fuori tempo allora, cattivi genitori e consiglieri immaturi oggi.
Mi fanno paura. Anche questo ho detto a mio nipote, 23 anni, stavolta parlando di me.

Share Button

Aspettando una buona notizia…

Share Button

“Uomini Senza Vento” a Fahrenheit

immagine evento

“Uomini Senza Vento” alla rubrica “Il Libro del Giorno” di Fahrenheit, su Rai Radio 3.

 

Share Button

Il Cambiamento

E’ nato un nuovo portale sul Cambiamento (www.ilcambiamento.it). E’ interessante. Leggetelo. Ci scriverò anche io, di tanto in tanto (gratis…).

Share Button