Vi aspetto

Milano, 3 marzo 2011, ore 19.00, “Festa Avanti Tutta” per inaugurare la doppia personale di scultura e pittura “LiberoMare” mia e di Manuela Manes. Vi aspetto.
Faccio sculture e costruisco pesci fantastici. Lo faccio perché quando unisco legno e pietra, metallo e materiali di risulta… sogno. Quello che mi interessa è riutilizzare, ridare vita a oggetti che hanno viaggiato, soprattutto in mare, e che un giorno sono atterrati su una spiaggia sconosciuta. Da dove vengono? Che rotte hanno percorso? Che segni hanno accumulato sulla loro superficie, geroglifici che raccontano quali storie?
Mi interessano anche i materiali della terraferma, purché siano oggetti di lavoro, legni o pietre nati per un motivo, per una funzione svolta anche per centinaia di anni, da uomini diversi, e che poi sono finiti in un bosco, o in una cantina, dimenticati. Io li “ricordo” perché li riutilizzo, immagino i luoghi dove sono nati, le facce degli artigiani che li hanno utilizzati. Cito la loro storia, li avvicino ad altri legni, marinai, e l’incontro tra gli esseri di terra e di mare mi affascina.
In tutto ciò ritrovo Coloane, Boges, Pessoa, ritrovo i rami dei boschi di Calvino, i paesi fantastici di Marquez. Per recuperarli, per piegarli alla volontà del sogno e della forma, fatico con l’energia di London e di Heminway, viaggio nei mari di Melville e Stevenson. Scrivo spesso su di essi, li utilizzo come carta per comunicare. Per questo le mie parole sono così incerte, i contorni delle lettere sbavati: perché si sovrappongono ad altre parole, ad altre storie, di cui evocano sospiri e premonizioni.
Nelle bande di rame c’è dolcezza e malleabilità. Maggiore durezza nel ferro zincato, purché sia stato una grondaia cento anni fa. Nell’ardesia antica, di un grigio piombo brillante e indefinibile, c’è la migliore delle doti dell’uomo: la durezza senza perdere il languore, la forza senza perdere l’emozione. Nei legni dolci che hanno navigato, nella levigatezza irripetibile delle loro superfici, vedo scorrere bastimenti carichi di buon umore e naufragi al grido della disperazione. A tutto ciò aggiungo pomelli colorati comprati da un rigattiere di Madrid, in un pomeriggio che non dimenticherò mai, o piccoli congegni e strumenti trovati per terra in giorni ormai andati. Nella mia fantasia coesistono ricordi e dimenticanze, perché un uomo si compone di ciò che ha e di ciò che gli manca.
Questi oggetti, che le chiami sculture o pesci, che abbiano o no un nome, li espongo, li mostro, alcuni li vendo. Pratico qui il disagio dell’artista, ignoto a ogni scrittore. Il primo si separa per sempre dalle sue creazioni, mentre lo scrittore moltiplica le sue opere, dunque non le perde mai, ci convive. Separarmi da ognuno di questi oggetti è come perdere il giorno e l’emozione che ho vissuto costruendoli. Ma serve a fare spazio per il futuro.

“Adriatica” – legno vecchio, ardesia antica, rame, acciaio, alluminio

Milano, 3 marzo 2011, ore 19.00, “Festa Avanti Tutta” per inaugurare la doppia personale di scultura e pittura “LiberoMare” mia e di Manuela Manes. Vi aspetto. (Per i più “concreti”: ingresso libero, si beve e si mangia)

Faccio sculture e costruisco pesci fantastici. Lo faccio perché quando unisco legno e pietra, metallo e materiali di risulta… sogno. Quello che mi interessa è riutilizzare, ridare vita a oggetti che hanno viaggiato, soprattutto in mare, e che un giorno sono atterrati su una spiaggia sconosciuta. Da dove vengono? Che rotte hanno percorso? Che segni hanno accumulato sulla loro superficie, geroglifici che raccontano quali storie?

Mi interessano anche i materiali della terraferma, purché siano oggetti di lavoro, legni o pietre nati per un motivo, per una funzione svolta anche per centinaia di anni, da uomini diversi, e che poi sono finiti in un bosco, o in una cantina, dimenticati. Io li “ricordo” perché li riutilizzo, immagino i luoghi dove sono nati, le facce degli artigiani che li hanno utilizzati. Cito la loro storia, li avvicino ad altri legni, marinai, e l’incontro tra gli esseri di terra e di mare mi affascina.

In tutto ciò ritrovo Coloane, Boges, Pessoa, ritrovo i rami dei boschi di Calvino, i paesi fantastici di Marquez. Per recuperarli, per piegarli alla volontà del sogno e della forma, fatico con l’energia di London e di Heminway, viaggio nei mari di Melville e Stevenson. Scrivo spesso su di essi, li utilizzo come carta per comunicare. Per questo le mie parole sono così incerte, i contorni delle lettere sbavati: perché si sovrappongono ad altre parole, ad altre storie, di cui evocano sospiri e premonizioni.

Nelle bande di rame c’è dolcezza e malleabilità. Maggiore durezza nel ferro zincato, purché sia stato una grondaia cento anni fa. Nell’ardesia antica, di un grigio piombo brillante e indefinibile, c’è la migliore delle doti dell’uomo: la durezza senza perdere il languore, la forza senza perdere l’emozione. Nei legni dolci che hanno navigato, nella levigatezza irripetibile delle loro superfici, vedo scorrere bastimenti carichi di buon umore e naufragi al grido della disperazione. A tutto ciò aggiungo pomelli colorati comprati da un rigattiere di Madrid, in un pomeriggio che non dimenticherò mai, o piccoli congegni e strumenti trovati per terra in giorni ormai andati. Nella mia fantasia coesistono ricordi e dimenticanze, perché un uomo si compone di ciò che ha e di ciò che gli manca.

Questi oggetti, che le chiami sculture o pesci, che abbiano o no un nome, li espongo, li mostro, alcuni li vendo. Come farò il 3 marzo a Milano. Pratico qui il disagio dell’artista, ignoto a ogni scrittore. Il primo si separa per sempre dalle sue creazioni, mentre lo scrittore moltiplica le sue opere, dunque non le perde mai, ci convive. Separarmi da ognuno di questi oggetti è come perdere il giorno e l’emozione che ho vissuto costruendoli. Ma serve a fare spazio per il futuro.

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Non altrove

1116° giorno di libertà.

Alba di luce. A terra solo una brezza fresca, ma il sole riscalda già. La bassa pressione di ieri è transitata silenziosa, senza fenomeni importanti, e stamattina il fronte è invisibile, chissà dove a sud est. La valle brilla di riflessi. Quando muoio voglio reincarnarmi in una giornata di maestrale.

Due giorni di mare, a parlare di vela, venti, andature, manovre, sequenze. Due giorni di meditazione, pure colmi di parole, per ricongiungerci con la storia millenaria dei nostri predecessori, tutti marinai, tutti con lo sguardo all’orizzonte mediterraneo. Parlare di vela mi piace. E’ roba nostra, sono parole che accadono da sempre in questi luoghi. “Considero valore sapere in una stanza dov’è il Nord, conoscere il nome dei venti che asciugano le nostre lenzuola stese”. Io considero valore anche sapere come si fa un nodo, come si riduce una vela maestra, con pochi movimenti precisi, come si è sempre fatto quaggiù. Per andare chissà dove, tornare da chissà dove.

Anche sbarcare ieri e oggi togliere le erbacce dall’orto, nell’entroterra, fa parte di noi. E poi scriverne, come adesso. E poi scoprire che è lunedì, stamani, ma io non sono altrove, come è capitato troppo spesso in passato. Sono nel mio (se mai può essere nel suo un marinaio), dove devo essere, senza sprecare, senza avvilire. L’energia che ho addosso oggi è oltre la soglia della parola, non può essere raccontata.

Un solo grazie, almeno: al tempo tutto lungo, come ammoniva Seneca. Tempo tutto per me, “proprio dei grandi uomini”.
Ho già pensato alle parole di una moltitudine cara, stamani: De Luca, Stevenson, e ora Seneca. Gente che ha lambito quella soglia, come cerco di fare io quando mi trovo a tavola con l’inesplicabile. E subito mi torna in mente un altro grande,  che viveva laggiù, nel Ponente:

«Sul mare ci si sente orfani, il navigante si strugge per tutto ciò che ha lasciato e ricompone i conflitti che a terra dividevano il male dal bene. Si scende in una specie di grande valle, si entra in contatto con l’universo e i messaggi che arrivano da terra sembrano quelli di una cattedrale evanescente. Si getta sul mare uno sguardo che ha sempre qualcosa di perduto. L’uomo di terraferma crede che il marinaio sia felice di andare non sa che è intessuto di angoscia e sogni e che gli sembra di percorrere una via che non conduce a nessun luogo. Per questo si affeziona agli strumenti che gli fanno tenere le rotte e lo porteranno da qualche parte. Il marinaio non arriva mai nel suo, non ha possessi, il suo sguardo anche più attento è sempre muto. Parla per farsi compagnia, oppure tace, e quando parla, spesso delira, non vuol convincere nessuno» . Francesco Biamonti

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Vittoria

Nelle pagine finali di Uomini Senza Vento, il mio ultimo romanzo,  immagino una specie di sollevazione popolare della gente di mare. Nel corso di un’azione contro una baleniera, un eco-terrorista legge un comunicato sul canale 16 del VHF (la radio che c’è a bordo delle imbarcazioni) in cui si appella alla legge del mare, ovvero la tradizione non scritta (ma longeva) che prevede il diritto alla difesa in caso di assalto piratesco. La tesi è semplice: c’è un assalto pirata in corso nei mari di tutto il mondo. E’ l’assalto dell’economia, dello sfruttamento delle risorse marine, dell’avidità di imprese e politici, di inquinamento, di tragedie umane e marine dovute all’immigrazione. Occorre fare di tutto per sollecitare la protezione del mare da parte degli organi competenti. Se tuttavia non accade quanto necessario e urgente, chiunque può (e deve) agire direttamente a tutela di uomini, mare, pesci, cioé di un ecosistema che non può difendersi da solo. Nel mio romanzo immagino che queste parole facciano emergere dall’indifferenza migliaia di appassionati che assaltano navi inquinanti, tagliano catene a cargo sospetti, assediano industrie costiere. Tutto per amore del mare.

Ecco perché esulto alla notizia apparsa ieri su tutti i giornali. Il Giappone ha interrotto le operazioni della Nisshin Maru in Antartico a seguito delle pressioni e degli inseguimenti da parte di imbarcazioni di Sea Shepherd. Il piccolo Davide (mica tanto piccolo e ancor meno indifeso…) ha vinto ancora una volta contro Golia. Ha vinto perché ha agito, non perché ha manifestato. Non sono mancati i reclami ufficiali, le ingiunzioni, le denunce, ma Sea Shepherd non si è limitata a questo. Ha preso navi e uomini, ha navigato a lungo, ha intercettato le baleniere che sotto l’egida fasulla della ricerca oceanografica contravvenivano alle norme internazionali che vietano la caccia alle balene, e le ha speronate, infastidite, assaltate, a rischio di uomini e mezzi, pur di interrompere la carneficina.

Ecco gente che mi piace. Gente che prende e va, che non si limita a dire, che non si accontenta di far sapere da che parte sta, ma dimostra, agisce, colpisce dove serve. Oggi è un giorno di festa per la gente di mare, e io mi unisco al coro di chi esulta. Una battaglia vinta, non una guerra. Però vinta, non solo combattuta. Ci sono battaglie che non bisogna limitarsi a combattere.

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Il dubbio

Non so se avete visto questo spot della Mercedes. Molto interessante.

Un uomo vive come un eremita, con un cane come unico compagno,  barba lunga, catapecchia sulla riva di un laghetto di montagna, spacca la legna (d’estate… vabeh! Forse è ora di pranzo e deve cucinare. Però il fuoco è già acceso… Mah!). Sono anni, si desume, che ha lasciato tutto e vive come un solitario.  “Ne avevo abbastanza, volevo ritornare alle cose essenziali, una vita semplice… Pensavo che non sarei mai tornato indietro“. E invece… Il fascino della pelle rasata, dell’abito di sartoria, e soprattutto della nuova Mercedes, lo riattirano verso la civiltà, verso gli agi e il design di una vita brillante. Nella scena finale si vede l’auto (col protagonista dentro, suppongo) che attraversa un ponte verso la città. Payoff finale “The Best or Nothing”.

Molto bene. Così ci vedono dunque… Così vedono chi vuole cambiare vita, chi ne ha abbastanza, chi ha voglia di dire “Adesso Basta” e cercare l’autenticità. Soprattutto, instillano il demone del dubbio “ma poi, se mi rompo, dovrò tornare indietro!”, cioè ci giudicano volubili, incostanti, talmente pirla da lasciare tutto e, fatalmente, accorgerci che abbiamo sbagliato, che siamo costretti a renderci conto che stavamo meglio quando stavamo peggio. Messaggio subliminale: “Non pensare alle stronzate di lasciare tutto. Pensa a spendere i tuoi soldi, a vivere al meglio. Chi lascia, poi, presto o tardi, torna sui suoi passi. Il meglio è qui, e ce l’hai già. Anzi, lo puoi acquisire comprandoti sempre l’ultimo modello. Non esiste un mondo migliore del tuo, cioè di questo che viviamo tutti”.

Bene bene. Se siamo a questo vuol dire che il Sistema è messo maluccio. Quando si smette di dire la propria in positivo e si comincia a spaventare l’avversario denigrando la sua scelta, le sue possibili aspirazioni, vuol dire che il messaggio arriva forte, potente, e fa paura. Guardate, per esperienza… uno spot così non nasce per caso, ci sono dietro costosi studi socioeconomici, demoscopici, psicologici . Ci sono focus group con gente in target, che dice la sua, che approva. Insomma, vuol dire che le aziende si pongono il problema, cercano di cavalcare le mode (come le ritengono loro…). Risolvono la faccenda  facendo fallire virtualmente la fuga prima che inizi, anzi cercano di venderti qualcosa mentre ci pensi.

Vabeh, vuol dire che rispolvererò l’unico abito che ho tenuto e mi comprerò una Mercedes. Sto’ scherzando, dai! Con quello che costa quell’automobile ci campo da uomo libero per quasi una decina d’anni. E senza neanche fare l’eremita!

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Milano

Avanti tutta. Manifesto per una rivoluzione individuale (Reverse)

Oggi, lunedì 7 febbraio, ore 18.30 c/o la libreria Feltrinelli di Corso Buenos Aires 33, Milano, presento “AVANTI TUTTA“. Interviene Paola Pica (Corriere della Sera).

Ci vediamo lì. Ciao!

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Puoi fumarti il pomeriggio…

Le montagne oltre i tetti sono rosse di sole. Fa freddo, l’aria è asciutta. Debole maestrale. Aspetto l’ennesimo treno. Ho indosso un paio di jeans, un maglione caldo, un giaccone che col tempo diventa sempre più bello. E’ solido, non teme l’usura. Tanto meno il viaggio. Con me ho solo una borsa leggera. “Una città per cantare”. Ho in mente questa canzone, stamattina.

Ieri, a centinaia di chilometri da qui, aspettavo un altro treno. Prendevo il sole, accucciato, con la schiena appoggiata sul muro. Pensavo che sono fortunato. Dovevo aspettare un’ora e mezza un treno locale, un po’ in ritardo. Guardavo la gente passare, con gli occhi socchiusi. Non provavo alcuna ansia, non avevo alcuna responsabilità a premere sul cuore, dovevo solo stare lì, al sole, fermo, e aspettare. Era mercoledì, ieri. Pensavo a una persona che non c’è. Qualcuno potrebbe dire che non esiste, ma io so che non è vero.

L’ho scritto: liberare tempo ha molto a che fare col viaggio. Quello che non so scrivere è il sentimento del tempo libero. Di stazione in stazione, sempre sulla strada, una presentazione al giorno, tante facce, tanto calore, ma soprattutto tanto tempo, tanti pensieri. Col sole sulla pelle, gli occhi chiusi sotto gli occhiali scuri, mi sono chiesto: “Come facevo a vivere quando non avevo tutto questo tempo. E dove finivano i pensieri, quando non potevo farli?” La persona c’è eccome. E’ il personaggio di un romanzo che devo scrivere. Mi è parso di vederla appoggiata al muro, anche lei, poco più in là…

Lunga è la strada… puoi fumarti il pomeriggio… Hai davanti un altro viaggio, e una città per cantare… Stasera un’altra città. E domani un altro viaggio. “Quanto è lunga una vita, per tutti i diavoli!” esclama Long John Silver in un passo del libro di Bjorn. Ma non si dice sempre che la vita è breve? Breve se vola via, ma se non la ingoi, se la mastichi, diventa tanta. Libero di andare. Me ne torno verso il mare. A casa.

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