Tornando al ritmo del mio cammino

A marzo 15 presentazioni. Una ogni 48 ore. Più quelle di prima, quelle che seguiranno ancora. Un bell’impegno, che però sfuma, volge al termine. Mi invitano ancora, entusiasmo per i libri ce n’è tanto. Ma se ne riparlerà a settembre, a ottobre, con calma. Libri in uscita non ce ne sono. Si va verso un ritmo nuovamente lento, dopo 14-15 mesi di grande impegno, passione, comunicazione. Giust’appunto, domani mattina sarò su Sky verso le 9.30.

Sento l’odore del ritorno verso la quiete. Non dico l’anonimato, che sarà difficile, ma verso il lento ritmo dei miei pensieri, o le veloci fiammate delle mie idee (troppe…). Comunque un andamento che mi si confà, che solo io decido. Devo prendere una via riguardo i miei romanzi: quello sul pirata del ‘500 nel Mediterraneo, una sorta di Riccardo III corsaro, anarchico ed esistenziale? Oppure il sequel di Uomini Senza Vento, con la vita intensa e metaforica che attende il protagonista, ormai libero? O rilavorare un romanzo scritto diciotto anni fa, una sorta di eroe involontario che prende le redini della sua vita e di quella di altri conducendo una incruenta e creativa rivoluzione? Chissà… Ma ho tempo per far vivere questi progetti dentro di me, attenderne le voci. Sullo sfondo un progetto nautico emozionante, di cui vi parlerò giovedì 7.

Mi torna in mente il monito di molti lettori: “Attento, il successo ti risucchierà!” oppure “Ora riperderai la bussola, tornerai nel gorgo”. Sorrido. Il vento sfavorevole è un’esclusiva di chi non ha rotta. Cosa dovrebbe far vacillare, che percorso dovrebbe deviare, il presunto successo, nella vita di chi ha pensato, progettato, lottato per arrivare qui, a vivere così?! La mia casa, le mie cose, le mie spese, le persone amate, l’equilibrio fragile ma convinto della mia libertà… tutto resta lo stesso, come lo avevo pensato, come lo voglio. Avere centinaia di migliaia di lettori non cambia nulla rispetto a prima. Non sono arrivato su questo cammino per caso. Non sarà per caso (o per… successo) che me ne allontanerò.

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I miei rispetti

Chissà dov’è la piccola Takaco, così timida e pudica. Si dava molto da fare, era l’assistente all’organizzazione del gruppo. Ci portavano in giro, di qua e di là, ragazzi di vent’anni di tanti paesi diversi. Non era facile starci dietro. Per loro, per Takaco, eravamo molto indisciplinati. Non seguivamo il programma alla lettera, gli orari erano tracce, non la Bibbia. Una sera, quando tutti erano andati a dormire, ci trovammo per la prima volta soli, nella hall dell’albergo. Avevamo un po’ bevuto. Takaco era stanca. Mi guardò per la prima volta senza sorridere. Uscimmo a bere qualcosa, passeggiando per le vie strette di Ibaraki, un sobborgo di Osaka, dove vissi per qualche settimana. Rientrammo tardi, e non andammo a dormire. Oggi Ibaraki non esiste più. Chissà dov’è lei.

Chissà dov’è Keiko Morita, la bella ragazza coi tacchi e un tailleur rosa antico, ricamato sulla giacca corta, con le spalle leggermente imbottite. Nel 1986 andava di moda così. Finì col suo nome e cognome in un racconto (“Giappone Addio”, in “Zenzero e Nuvole” Bompiani), e con le sue parole rimase in fondo all’anima. La mia. Mi disse “Resta, sono figlia di un imprenditore molto ricco. Non farai niente, lavorerò io per te”. Me lo disse mentre partivo, alle sei di mattina, all’aeroporto Narita di Tokio. Scoppiò a piangere mentre mi infilavo nel finger, in stato di completa confusione. Le avevo risposto che ci eravamo conosciuti la sera prima, appena. Ma lei obiettò che avevamo fatto insieme più di cento passi. Secondo una tradizione giapponese, se fai cento passi con un uomo gli stai dedicando la tua vita. Chissà dove passeggia adesso.

E chissà dov’è Tadashi, il ragazzo tutto smorfie e grugniti, con gli occhi quasi invisibili e una grande curiosità per noi occidentali. Prese la mia macchina fotografica, la rigirò tra le mani. Emise qualche suono gutturale, che a me parve di disapprovazione. Gli avevo chiesto se sapeva aprirla, che il rullino dentro si era bloccato e avevo paura di perdere le fotografie fatte a Koiasan, il cimitero monumentale all’ombra delle sequoie secolari. Dopo qualche istante d’immobilità Tadashi prese un sacchetto nero, quelli dell’immondizia. Mi chiese di infilarlo intorno alle sue mani e alla macchina, e di chiudere i bordi intorno alle sue braccia. Aveva inventato una camera oscura d’emergenza. Aprì, a tastoni, riavvolse il rullino, richiuse tutto. Quando me la restituì, perfettamente a posto, mi disse “Grazie”. Io lo guardai interdetto. “Mi hai dato l’opportunità di farmi venire un’idea. E un’idea è una cosa preziosa”. Chissà dov’è anche lui, dov’è la sua intelligenza veloce.

Chissà dov’è il comandante della nave carica di gente, inghiottita dalla prima onda anomala. Lo immagino sul ponte di comando, primo ad avvistare la massa nera che avanza. Il Comandante è quello che guarda sempre un po’ più in là, dove nessuno ancora volge lo sguardo. Mi pare di vederlo che tenta di manovrare, motori avanti tutta verso l’onda, e dare l’ordine “avanti piano”, per andarle incontro tenendola esattamente in prua. Già da un centianio di metri, per primo, lo vedo che cambia espressione, capisce che la massa d’acqua è troppo veloce, troppo alta, anche per la sua nave, che è solida e ne ha viste tante, ma che stavolta non ha speranze. Per la prima volta non potrà riportare in porto il ferro, e neppure l’equipaggio, che inizia a capire, o i passeggeri, che non sanno ancora niente. Mi alzo e guardo a levante, verso di lui, dovunque stia riposando ora. I miei rispetti Comandante.

Chissà dove sono le persone morte in Thailandia nel 2004. Morirono in 230.000, ma nessuno parlò della loro dignità. In queste ore sono tutti ammirati per quella dei giapponesi, come se le vittime di una tragedia non fossero tutte uguali, tutte da compatire, che siano giapponesi o thailandesi, o haitiane. Il terzo giorno dopo il terremoto di Port-Au-Prince la notizia era già scivolata al centro del telegiornale. Eppure i morti in Giappone sono 5-10mila, mentre lì furono 222.000. Ci sono uomini che muoiono di più e uomini che muoiono di meno. A volte dipende da quante telecamere ci sono in quel Paese, da quante riprese video possono rendere più accattivante un servizio nel TG. Anche la dignità è un fatto d’immagine.

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