Il passato di tornare

Pensare. Pensare meglio: progettare. Lavorarci, poi partire. Vivere quel che si è pensato (tanti mesi prima). Poi tornare, dopo un paio di mesi, e…

Stamattina la mente va veloce. Provo a semplificare, come quando timono e c’è mare: elimino tutte le funzioni (corporali, psicologiche, logistiche) e mi riduco a solo timone, solo scotta di randa. Ci provo… e viene fuori questa prima riga, poco sopra. Pensare, progettare… tornare. Ma poi?

Poi una lunga stagione. Settembre ancora presentazioni, le ultime. Poi tempo per ricordare, per mettere ogni cosa al suo posto. Per studiare, per scrivere. Devo lavorare al romanzo scritto vent’anni fa. Poi devo scrivere il seguito di Uomini Senza Vento. Poi studiare il mio pirata Dragut, il grande romanzo su cui vivo da anni. Poi viaggiare, andare a Ponza (ogni uomo ha un’isola), a trovare mia madre e mio padre, a trovare gli amici. Stare quanto serve, quanto voglio, poi tornare. Tornare, appunto.

Pensavo che tornare ha a che fare con il futuro, non con il passato. Lo stato d’animo di chi torna non è generato dal recente passato, da ciò che ha vissuto, ma venato da ciò che lo attende. Forse è anche per questo che mi sento bene, nonostante la stanchezza di 6 settimane in mare. Un giorno, era d’inverno, ho pensato, ho comunicato con Marco e Filippo, poi progettato i Nomadi a Vela, poi fatto. Ora torno. Il ciclo positivo di qualcosa che avevo in cuore si è compiuto. Ma torno con tanta vita davanti, tanta scrittura, da solo, col camino acceso. Mi accorgo che quasi mi spiace di non poterlo già accendere. Tornare ha a che fare col prima e col dopo. Come partire.

Taglio l’erba alta del prato, nell’azzurro che quasi mi precipita addosso. Oggi ho la tendenza a fare dell’esistenzialismo, alla Le Clezio. Parto per Vicenza tra poche ore. Quanta vita… Tanta che non si riesce a comprenderla. Penso a qualche anno fa, a quei ritorni carichi di sconcerto. Liberato il tempo, la vita ha fatto irruzione. Sono in suo ostaggio, mi porta sulla sua cresta di schiuma. Niente di meno di tutto.

 

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Li ho trovati…

Erano tutti lì, ecco perché non li trovavo. Le barche, intendo. In Costa Smeralda, uno dei tratti belli ma certo meno affascinanti della Sardegna. Sul lato ovest, sud, in Costa Rey… nessuno. Erano lì. Chissà perché.

Il mare, calmo, era quasi mosso. Non si trattava di un miracolo, di una fattura. Erano i motoscafi. Alzavano onde, ogni barca ballava. Le cale, le solite, tutte piene. Da Capo di Coda Cavallo a Cala Spalmatore, a Porto San Paolo, fino su al Pevero, e via così. Tutti lì, tutti appiccicati, tutti insieme. Non tutti… i più erano ancora nei porti, a lucidare le loro casse da morto. Ma quelli che si erano spinti in mare, erano lì. Nel resto della splendida costa corsa e sarda… solo noi, pochi altri.

Mi sono chiesto il perché. Solo l’affollamento sarebbe stato sufficiente per andare via. Invece ne arrivavano. La sera, naturalmente, solo cinque barche a vela. Tutti scomparsi, a “vivere” nei locali della costa. Soldi da spendere. Gente con cui accalcarsi.

Io amo la gente, stare insieme, fare festa. Adoro ballare. Qui non c’entrano le abitudini e i gusti. Parliamo di chi va per mare. Svegliarsi da soli in una baia, fare un bagno nel silenzio, navigare senza incrociare barche, per poi trovarne una, salutarsi, magari fare due chiacchiere. Ognuno ha i suoi gusti…

Volevo solo dirvi che se cercate gli italiani che vanno in barca, potete trovarli tutti (dico tutti…) in Costa Smeralda. Sono tutti lì, per due settimane all’anno, tutti appiccicati, a mostrar le barche chiare, apparentemente gaudenti, apparentemente marinari. E’ un’informazione utile, per nulla polemica. Se cercate me, basta che non andiate lì.

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Tutti qui

Stamattina c’è brezza da nord a Bosa. I colori brillanti della pressione che sale. Sul piccolo agglomerato alla foce di questa piana valle c’è solo un molo commerciale, riconvertito a ospitare barche a vela. In giro non c’è nessuno, a parte il gestore, con cui bevo un caffé carico di sintonie e riconoscimenti. Ha navigato a lungo su “motoryacht”, come li chiama lui, e ricorda avventure un po’ dovunque, dagli oceani alle tratte per Port Said. “Il Mediterraneo, se vuole, è più duro dell’oceano” mi dice. Lo dico sempre anche io. Sono voci nostre, queste, provate sulla pelle. Dunque hanno valore.

Mentre penso alla trama del seguito di Uomini Senza Vento, il gestore del porticciolo mi racconta che qui a Bosa, anni fa, hanno fermato un veliero carico di armi, bandiera francese e equipaggio libanese. Provo a chiedergli come facessero a sapere di quel carico illegale, anche se conosco già la risposta. “Cosa vuole… siamo tutti collegati”. Gente del Mediterraneo, che si parla da costa a costa.

Siamo tutti collegati”, mi ripeto mentre torno verso la barca. E’ un pensiero forte, che affascina, stupisce, rassicura, preoccupa. Per un anarchico non è una notizia eccellente, per un libertario lo è di più, per un marinaio lo è in modo rassicurante, per un artista è come dire che l’aria di maestrale è asciutta, per un uomo lo è in modo quasi struggente. Noi, cioè l’io che si compone di tutto questo, ragiona tra sé…

Siamo tutti collegati: io che qui faccio il marinaio, io che a settembre riprenderò a scrivere, io che a ottobre starò mettendo insieme legni e ardesia, io che stasera spero di andare a una festa, io che qualche anno fa… Siamo tutti collegati su questo mare, che “ricompone i dissidi che in terra dividono il male dal bene”, che ci rende simili a quest’uomo a cui gli occhi si fanno lucidi al ricordo delle scorribande nei “Seamen” dei porti samoani. Il mare collega, anche quando ti assale e ti fa sentire disperso.

Da oggi, quando mi faranno per l’ennesima volta la domanda: “Perché scrivi spesso che il mare che preferisci è il Mediterraneo?” risponderò così: “Perché qui siamo tutti collegati”. Noi agli altri. Noi ai nostri noi

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