Tutti migliori…

“L’effetto dell’ubriachezza è di abolire gli scrupoli del sentimento“, diceva Alain (Le avventure del cuore, 1945). Non so se avesse ragione. Certo è che io amo l’ebbrezza. Baudelaire, che di limiti superati (e superabili) ne sapeva parecchio, diceva: “per non essere gli straziati martiri del Tempo, ubriacatevi senza posa! Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare” (Lo spleen di Parigi, 1855/64). Straziati del tempo… non vi fa venire la pelle d’oca questa definizione? Nel caso fosse adatta per noi, intendo… Anche George Gordon Byron aveva un’idea in proposito. Nel Don Giovanni scrisse che “l’uomo, giacché è ragionevole, si deve ubriacare: il meglio della vita è l’ebbrezza.” Esagerato…! Oppure no…?!

Frasi celebri a parte, tutta questa sobrietà (intesa come l’essere SEMPRE vigili e presenti), tutto questo controllo, tutta questa salute scaricata come un cumulo di macerie nel campo della razionalità… è deludente. E’ parte del problema. A volte penso che dovrebbe essere approvata una legge che impone l’uso di qualche cosa di allotropo, qualcosa che possa alleggerire il cuore e la mente, al mattino, prima di iniziare le attività del giorno. Vedremmo gente col sorriso che deambula lentamente verso l’ufficio, avvocati che salgono piano del scale del foro, pronti a dar ragione alla controparte, o vigili che scrivono troppo lentamente le loro multe, intrattenendosi a scherzare e ridere con qualche automobilista più allegro di loro. Dall’illuminismo abbiamo ripreso a ragionare, grazie al cielo. Sempre che non l’abbiamo fatto troppo… L’abbiamo fatto troppo?!

Ebbrezza di vino, di pensieri, di sogni. Ebbrezza di sorrisi e d’umore. Ebbrezza di contatto, pelle sulla pelle, mani sulle mani. Ebbrezza d’amore. La storia è che si muore, qualcuno lo dimentica. Morire sobri, dopo una vita sobri, trascorsa a pensare lucidamente e sobriamente a ciò che non possiamo sapere… Che triste epitaffio! Anche qui occorre equilibrio. Quello che fa male… gli eccessi… lo so, LO SO! Ma è un eccesso anche questa sobrietà, questa lucidità, questo eterno sapere, dire, ragionare. Per una sera, questa sera, e per tanti motivi… tutti migliori di ciò che è giusto… Mi sbronzo. Salute!

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Temporanea Mente

Occorre tempo. Quando qualcosa ce lo dice chiaro… non sempre ne abbiamo.

Tempo per ricordare, lasciando che le immagini sorgano senza fretta. Tempo per decidere, senza dover fare qualcosa per forza. Tempo da spendere, caro come costa, tempo da sprecare, poco che ne abbiamo. Tempo per aspettare, senza sbuffare, smaniare. Ci accompagna qualcuno a passo lento, e forza aspettiamolo. Occorre tempo per vivere, ma anche per morire. Tempo per pensare al tempo, quello sprecato, quello che non torna, che ancora resta. Se il tempo fosse tutto-il-tempo, non ne parleremmo, si dice. Ma chi l’ha detto. Forse che qualcuno ne ha esperienza? Il tempo che conosciamo è sempre andato. E’ sempre tardi. A volte troppo. A volte il tempo è proprio nato dopo.

Occorre tempo, comunque. E il tempo non c’è modo di produrlo. Possiamo misurarlo, inconsciamente lo possiamo estendere e comprimere. Su un letto, quel giorno, lo abbiamo perfino fermato, con le tende che vibravano nel pomeriggio estivo, con la sua pelle luminosa accanto.

E poi possiamo perderlo, sprecarlo, accartocciarlo come fosse carta di giornale, gettarlo, neppure differenziarlo, il tempo. Quello che poi, quando ti serve, daresti ciò che hai per un minuto ancora, uno soltanto: “Non andare via, aspetta, un momento soltanto…”

Tempo per dire le parole che, senza tempo, non dirai. Tempo per ascoltare le parole, le frasi che non hai detto ancora, che se non c’è più tempo non pronuncerai mai. Le parole che non hai detto quando c’eri, quelle che poi… quando sei andata via… Quelle che anche se ci fosse stato tempo, non avresti detto mai. Ma allora a che ti serve il tempo? Stavo sperando, e per sperare servono giorni, anni.

Il tempo per pensare al tempo, c’è anche lui. Tempo che sembra sprecato, ma non è così. Il tempo quando pensi si siede per strada, il mento sulle palme delle mani, i gomiti sulle ginocchia. Solo in quel momento è inerte, vinto. Quasi ne gode, per qualche istante anche lui senza tempo, senza appuntamento. Ci sorride. Almeno fino a quando non ci rimettiamo in marcia, e lui dev’essere più veloce, deve precederci sempre. Essere sempre in tempo, far essere sempre noi in ritardo.

Tempo non ce n’è, e quando ce n’è troppo ci innervosiamo. Quando c’è una coda, quando c’è una fila. “Ma dove devi andare?” “Sono in ritardo!” Là davanti c’è solo quell’appuntamento, hai così fretta di arrivarci? “Ah… no… ma….”. Appunto.

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Cabasisi rotanti (ma grati)

 

Il Secolo XIX riporta che l’inaugurazione del centro commerciale le Terrazze, a Spezia, ieri, è stato un successone. 60.000 clienti. La ressa, viabilità intasata. L’ultima volta che a Spezia si è riunita una simile folla è stato, probabilmente, il giorno della Liberazione, quasi settant’anni fa. Nessuno, pare, ha notato l’inquietante similitudine architettonica tra il mega centro commerciale e un mausoleo, una tomba. Comunque, allegri tutti: nel Levante abbiamo una nuova cattedrale. Lo dico per chi, avendo così tanto tempo libero, non sa come officiare la liturgia del consumo al sabato, magari con tutta la famiglia.

Mentre vi scrivo sono al mio quarto treno per raggiungere Ancona da La Spezia. Sei ore e passa per appena 75 euro. Pensare che si vogliono spendere cifre abnormi per risparmiare venti minuti tra Torino e Lione. Secondo me c’è più gente incazzata su questa tratta che su quella. Da bravo ex uomo di marketing, inizierei a spendere soldi per i trasporti seguendo la classifica dell’incazzatura. Farebbe più consenso. Ma si vede che le cose, da quando non lavoro, sono cambiate.

Oggi ho rinnovato l’assicurazione per la mia macchina. Un mucchio di soldi buttati via, a un prezzo immotivato. Per sette anni senza macchina sono dovuto ripartire dalla classe Bonus/Malus 14, e ora sono arrivato a 10. In più la signorina del call center era scontrosa. Le ho chiesto uno sconto e per un pelo non mi scoppia a ridere in faccia.

Cosa c’entrano questi tre eventi, cosa hanno in comune tra loro? Non molto, a parte che sono tre esempi di come il mondo a cui non partecipo più, che tento di evitare, sia ancora in grado di raggiungermi e farmi girare i cabasisi (grazie Montalbano). Ma anche di come mi testimoni, ogni giorno, che ho ragione io a volerne stare più fuori che posso.

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Solo a bordo

Il primo corso dell’anno è andato bene. Molto bene. Gente che ama il mare, che non si era iscritta per caso. Amici, lettori, conoscenti, che però si sono trovati. Con la barca, tra di loro, con me, col mare del Golfo. I corsi che non avrei dovuto fare, con la gente che non si sarebbe dovuta iscrivere, mi pesano. Dico cose che nessuno ascolta, mostro manovre e movimenti che hanno senso solo per me. Chi si interessa alla barca, ma non alla navigazione, mi intristisce. E’ capitato talmente di rado, grazie al cielo, che sono ancora qui. Ma l’equipaggio che è sbarcato due giorni fa aveva molto senso. Come uomini e come marinai. Dunque era giusto che io perdessi la voce a parlare, a fare e rifare le manovre cento volte, a non distrarmi mai su ognuno. E che fossi felice di essere qui, su Faamu-Sami, con loro. L’unica cosa che non può permettersi di fare un uomo libero è vivere nei propri posti, ma con persone che non c’entrano. Non c’entrano con me, sia chiaro.

Ecco perché, forse, poco fa mi sono fermato. Stavo correggendo una pagina del romanzo, che riporto qui sotto. Sono salito in coperta, mi sono affacciato al tambuccio, ho fumato una sigaretta. Nel Golfo dei Poeti c’era scirocchetto, massimo quindici nodi. Era prevista onda e vento, invece le nuvole sfilano via lente, sonnacchiose. Due vele stentano ad ammainare, vogliono fare gli ultimi bordi, prima di rientrare in porto. Domani è lunedì. Tra poco anche loro andranno, e resterò solo, carico di immagini e pensieri. Lavorerò al romanzo tutta la sera, stufetta accesa, qualcosa da mangiare, musica bassa, nel porto deserto.

Ho ripensato ai membri dell’equipaggio che sono appena sbarcati, alle centinaia di uomini e donne che ho portato in mare in tanti anni. Molti sono finiti nei miei libri, smembrati, ricomposti, l’occhio di un ragazzo, quella parola detta da una donna che ricordo, sguardi che non ho dimenticato. Forse la dote principale di uno scrittore è non perdere mai nulla, immagazzinare tutto. Soprattutto quando si tratta di persone. E di mare.

«(…) ho lavorato una settimana a giugno, poi niente fino a fine luglio, quando sono partito per il sud con due sole settimane prenotate, in Tunisia. Ero tutto contento, sono andato giù con calma, tre o quattro tappe. Settecento miglia da solo a bordo, non mi pareva vero. Avevo fatto una bella scorta di cibo e alcol. Appena salpato, ho navigato da qui a Santa Giulia, quasi a Bonifacio, tutta una tirata di bolina larga. Un avvio esaltante… Quella prima sera ero sbarcato, pieno di gioia. Centoquaranta miglia, cioè poco meno di ventiquattr’ore, con due soli bordi a vela. Una cosa che non capita tanto spesso. Se hai un buon maestrale puoi arrivare fino alla Giraglia, poi dalla Finocchiarola lo perdi per il ridosso dell’isola. Stavolta invece il nord ovest era girato a nord, poi a nord est, e io avevo solo dovuto seguire il vento per una mezzora, poi strambare, e avevo ripreso a correre mure a sinistra, al gran lasco, in rotta perfetta. La barca cantava felice, l’attrezzatura era tutta a posto. Un po’ di onda, un metro e mezzo, ma non troppo corta, niente di grave. Makaia adora i venti tra traverso e lasco, quando non sono troppo sostenuti o troppo di poppa. Se dosi bene quanta tela tenere a riva, si calma, sta dritta, plana sulle onde. Avevo passato in rassegna il bel tratto di costa fino a Bastia, poi le plaghe basse e sabbiose dello stagno di Urbino, fino a Porto Vecchio e Santa Giulia. Lì ero entrato in baia, avevo raccolto il genoa, la vela di prua, poi dato àncora a vela, tirando giù la randa dopo aver filato catena a mano. Avevo ammainato il tender, remato fino alla spiaggia, due passi sulla sabbia chiara, l’acqua di cristallo. Santa Giulia è una baia come ce ne sono poche, soprattutto a luglio. Ha tutto il meglio del mare, è protetta dal vento di tre quadranti, è sempre pulita, a parte qualche alga se c’è stato scirocco. Avevo bevuto qualcosa nel primo locale che si incontra passeggiando da sud, quello con i tavoli sotto alla tettoia, piedi nudi nella sabbia, bella musica. Non stavo nella pelle dalla felicità. Ero uno skipper in trasferimento, stavo lavorando in mare, non più in città, non più alla scrivania. Potevo crederci?! Volevo festeggiare. Ero andato a mangiare in uno dei locali appena dietro l’arenile, sul lato nord della baia, dove si respira bene la Francia, l’Italia, l’estate… La notte, un po’ alticcio, un po’ stanco, avevo camminato, camicia bianca aperta sul petto, aria calda e asciutta sulla pelle, bottiglia vuota in mano. Avevo dormito come non mi capitava da parecchio, prima su una sdraio in spiaggia, poi alle quattro mi ero svegliato ed ero tornato a bordo.

“Capisci che bello? Sono ripartito, dritto fino a porto Corallo a mangiare il porceddu, al Top Sound, proprio davanti agli imbarchi, dove mi conoscono e mi trattano come si deve…”

La signora Giulia me lo serve su un vassoio ovale ricoperto di rametti di mirto. Devi andarci digiuno e mangiare solo quello. Se prendi gli antipasti sei spacciato. Le prime due volte che ci sono stato non avevo ancora capito come funziona, e la sera ho vomitato. Il fatto è che è così buono che mangi troppo e ti perdi. A Sidi Bou Said ho trovato posto nel porticciolo turistico, a qualche chilometro dalla capitale, dopo una galoppata che non dimenticherò mai. Solo gennaker a riva, la grande vela asimmetrica di prua, nove nodi costanti di velocità, con punte di dieci, mare rotondo, Makaia che faceva il surf, Funny The Way It Is di Dave Matthews a tutto volume… In navigazione mi ero messo la cintura di sicurezza attaccata a una drizza, piedi puntati sullo specchio di poppa, sospeso sul mare, e mi ero fatto la barba pulendo la lametta nella schiuma della scia. Non ricordo in vita mia una simile sensazione di benessere, libertà, armonia. Bastavo a tutto, ero pieno, sentivo che non potevo esaurire mai più quello stato d’animo. La sera mi sono preso una bella sbronza con un tedesco-iraniano che viaggiava da solo su una barca autocostruita, con la tuga squadrata, una cosa orribile. Che tipo, il sosia di Ben Kingsley, un astrofisico in fuga da un matrimonio finito male.

Ero arrivato a destinazione qualche giorno prima per poter rassettare la barca e fare tutto con calma. Me n’ero andato in giro tra i vicoli di Tunisi, poi a visitare l’antica Cartagine, avevo comprato tre mattonelle antiche per pochi euro nel villaggio sopra al porticciolo, da cui si vede una delle albe più affascinanti che conosca, sul profilo di Capo Bon.

“Insomma, stavo bene, ero pronto. Quando sono arrivati i clienti, sembravano perfino gente a posto. Si sono rivelati un disastro: dialogo zero; tutto sempre già visto; mai un entusiasmo; sprecavano l’acqua dolce; bisticciavano di continuo. Tre coppie di cui due insopportabili. Quando sono sbarcati mi sono preso l’ennesima sbronza, ho dormito due giorni di fila…”»

(Da “L’Equilibrio della farfalla“, Garzanti, in libreria da fine maggio)

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Azione

Meno male che, a un certo punto, si salpa. Come nella nostra vita, quando hai chiacchierato tanto, detto, pensato, ascoltato, ma poi viene il giorno in cui parti. O  resti. E quel giorno, come anche salpare, rimette sempre le cose in fila.

Stamattina sono arrivato a bordo per preparare la barca. Sbarcherò sabato prossimo. Una settimana col Corso Comandanti, i patentati che vogliono imparare tutto quello che gli manca per essere autonomi e governare un’imbarcazione a vela. Staremo in mare, tutto avverrà lì, la teoria e la pratica, soggetti alla legge del vento. Qualunque cosa ci sia capitata, qualunque cosa abbiamo negato o giurato in queste settimane, qualunque amore, qualunque conflitto, ora scenderà tutto di un’ottava: comanda il mare.

Qui ho vissuto momenti che non so, non posso, forse non devo descrivere. Qui ho scritto più di metà de “L’Estate del Disincanto” (Bompiani 2009), e tante parti di altri romanzi e saggi. Qui ho vissuto quando non avevo più (e non ancora) una casa. Qui ho avuto paura, gioito, sperato che la costa si facesse vedere, finalmente, perché ero stanco morto, oppure che non si facesse vedere mai più, perché la barca era in equilibrio e io ero felice e tutto filava a meraviglia. Pochi metri quadrati di legno e vetroresina, con uno straccetto da tirare su per andare a cercare il vento. Tutto qui, ma capace di tanto…

Ci voleva. Ero stanco. Sono cinque mesi che scrivo, che sto seduto al computer, qualche incursione nel bosco, qualche lavoro, ma soprattutto pensieri, emozioni, studio, metodo, scrittura. L’inverno che speravo, che volevo. Esattamente quello. Però io a un certo punto devo andare… Come Ismaele, nell’avvio del grande Moby Dick, anche io, a un certo punto, sento che “è giunto il momento di prendere al più presto il mare”. Ricordo un pomeriggio di tanti anni fa. Parlavo con un mio amico fraterno, che non vedo e non sento ormai da tanto tempo. Gli dissi che pensavo di essere uno scrittore (gli dissi “un poeta”… ma avevamo quindici anni, si può perdonare), ma che mi sentivo anche un “uomo d’azione”. Quel giorno ricordo che scrissi sul mio diario una frase che mi parve definitiva, mi fece quasi paura: “Non è vero che o si vive o si scrive. Al contrario: se non si vive non si scrive”. Anche questa sentenza tagliente va compresa, stavo leggendo Il Mestiere di Vivere di Pavese…

Comunque, il mio amico, non ho mai capito bene perché, scoppiò a ridere, forse mi diede una pacca sulla spalla, forse mi disse “ma vaffanculo và…”, alla romana, come dire ma smettila, non ricordo con precisione. Ma il senso era quello. Ricordo che rimasi sconcertato. Mi sentivo uno che aveva detto qualcosa di gravissimo, che non doveva neppure essere pensato. Uno scrittore, un poeta, un uomo d’azione. Ma io ero un ragazzo, nessuno

Chissà perché mi torna in mente oggi. Oggi che si riprende il mare… Mah! Buon vento a tutti.

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Liste

Lista delle cose da fare

Priority:
Ultimare saggio e romanzo. Consegnare il primo e rilavorare al secondo. Deadline 8 marzo e fine marzo

Poi:
Finire di impostare il progetto Pelagos, la mostra di pittura e scultura con M. che aprirà a fine maggio. Poi devo andare avanti con le sculture, ne ho solo due adesso.
Curare il semenzaio. Ci vanno i gatti, devo trovare una soluzione
Potare gli alberi del bosco. Mi serve legna per il prossimo inverno, e poi stanno crescendo troppo esili e verso l’alto, finisce che il vento li abbatte
Fare pavimentazione in legno del sentiero che va al bosco
Costruire bancone in legno, muratura e marmo per fare le pizze
Costruire cassettone a bordo muro per estendere lo spazio dell’orto

Next:
Corso Comandanti. Monitorare meteo, speriamo di avere tempo favorevole. Preparare la barca.

Devo anche fare il piano delle presentazioni con gli editori, andare a Ponza qualche giorno da Antonio, iniziare a studiare per il raid velico estivo di un paio di mesi.

Ho anche bisogno di tempo. Dunque devo valutare se la rotta da Tromso a Reykjavik dei primi quindici giorni di giugno, che mi è stata proposta da F., me la posso permettere.

Mi viene una domanda: come facevo quando avevo poco tempo? E il tempo, si dilata o si comprime quando faccio molte cose? E la vita, corre troppo forse?

Aggiungere un punto alla lista:
Fare qualcosa in meno.

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