La sacca e il cuore

Diario di viaggio. Aggiungo Il barista che ha alzato il sopracciglio mentre guardava la mia maglietta nera di Sea Shepherd; il ragazzo alto, magro, veloce, che ci ha serviti ieri sera in Slovenia e quando gli abbiamo offerto un bicchiere ci ha risposto “non posso, sono uno sportivo”; la ragazza manager, tailleur grigio giacca e minigonna, che pedalava sulla bici stringendo inutilmente le gambe; la ragazza scura di pelle che mi ha accolto alla reception dell’hotel Entourage stanotte. Anche le case colorate, linde, del centro della città. Aggiungo anche le attese nelle stazioni pettinate dalla brezza estiva, le facce delle persone che aspettano senza accorgersi del lieve sorriso che hanno sul volto, o del dolore che trapela dai loro occhi. Indiscreto, osservo quel che posso delle loro anime.

Nova Gorica. Confine. Ho passato le vacanze d’infanzia su una roulotte, oltre questo limite. Ci penso mentre lo oltrepassiamo in macchina. La guardiola è deserta. La tettoia cadente. La linea non c’è più. I ricordi sì. L’esotico che imparavo da bambino era al di là di questo posto di blocco fatiscente. A cena, ricordo mentre gli altri parlano. Un tempo gli slavi venivano da noi a comprare quello che non avevano. Oggi andiamo noi di là, perché carne, benzina e sigarette costano meno. Lo storia ci prende per la coda, gioca. I calamari fritti sono così buoni nei “balcani”. Perché? Penso a Predrag Matveievic, che forse vedrò a giorni.

Gente entusiasta per lo scollocamento, anche qui. La distanza da questo mondo dilaga, è siderale. Michele, il sociologo, è un uomo che ragiona, che si emoziona. Ho la sensazione che voglia dire qualcosa di più, forse si trattiene. Una ragazza che lavora in Scozia, una che lavora a Trieste, in Università. Dicono due o tre cose che appunto mentalmente. Devo pensarci su. E’ sempre così quando ascolto pensieri ad alta voce su cose che io non ho mai detto neppure in silenzio. Neppure a me.

Viaggio e scrivo i miei appunti. La sacca sulla spalla, il cuore sempre a portata di mano. Un paio di pantaloncini corti, una maglietta. Penso a casa mia, ai miei lavori. Penso al mare del Golfo. Poi mi perdo. Luoghi, persone, ricordi, immaginazione. Se non ci fosse questo, viaggerei così tanto? Ne varrebbe la pena? Ma se è tutta roba che viene da dentro, cosa viaggio a fare?

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L’uomo, il cane, una fotografia

Stamattina lunga passeggiata nei campi. Sole già caldo, neppure una bava d’aria. Un boschetto di amarene, poi il canale d’acqua silenziosa, la vigna, il granturco. Il fruscio di due caccia militari, lontano, poi nulla.

Non sono abituato alla pianura, me la sono gustata tutta. Senza orizzonte, senza una montagna, senza il mare, la terra disorienta. Potresti essere dovunque, dunque non sei in nessun luogo. Svoltato l’angolo di un campo, tornando indietro, non sapevo da dove ero venuto. In pianura non puoi che tenere lo sguardo basso, o ti viene il capogiro. Forse è per questo che il Veneto è così, tutto Dio, voglia d’andare, colpa, denaro.

Mi accompagnava un cane, un bastardino di quelli con le zampe corte, lupoide di muso, pecora d’animo. Mi guardava di sottecchi, col sorriso tipico dei cani d’estate. Mi precedeva a brevi rincorse, alzando punte di colombi e di tortore che pascolavano nell’erba bassa. Poi tornava indietro corricchiando, come avessimo un accordo segreto. Un uomo senza fretta, senza possessi, senza padroni, e un cane libero, sorridente, pecora dentro, condividono il loro breve cammino in silenzio.

Quando sono arrivato al frumento ho ricordato. Un campo al mattino, di giugno, avevo sedici anni, lei diciannove. Il giorno dopo ero tornato con la macchina fotografica, alla stessa ora. Avevo cercato l’orma profonda tra le spighe, scattato un’immagine. Non so dove sia finita, non lei, la foto: forse in quel sacco, a Milano, quel pomeriggio di liberazione, con tutte le immagini della mia prima vita.

Stamani sono entrato nel viaggio, questo lungo giro d’Italia a ritrovare luoghi, come ieri a Villorba, o a incontrarne di nuovi, come al Passo del Tomba o stasera a Gorizia. Nei viaggi non basta partire per entrarci dentro. Un viaggio non lo fa il movimento, semmai le soste, quella porzione d’armonia nei brevi istanti d’immobilità. Serve un giorno così, un sole così, una pianura, un cane, un campo. Serve una fotografia.

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Scelte. Cose decise che diventano vita.

L'equilibrio della farfalla (Narratori moderni)

Il libro va, solo con le sue gambe. Gambe piccole, corte, ma governate da una determinazione caparbia. Un libro convinto di voler dire la sua, di solito, non lo fermi. Vanno anche le presentazioni, una dopo l’altra, tante città d’Italia. Io ancora in salute, ancora pieno d’energia, che poi scemerà, diventerà stanchezza, ma non ancora. Torino ieri. Come sempre la città più sensibile al nuovo, la più viva, la più alternativa. Tanta bella gente. Tanti amici, gente simile a me.

Tra pochi giorni, il 31 maggio, esce il romanzo. La copertina qui sotto, in anteprima. L’ho preso tra le mani ieri, figlio mio. L’ho aperto a caso, ho letto qualche brano, sono trasalito. Un libro è un libro, non è più il tuo dattiloscritto. E’ un oggetto, neppure più tuo. L’emozione dell’autore, quando prende in mano il suo romanzo, è la stessa di un lettore che lo ami, che ci si riconosca: una cosa non mia, che pure parla di me…

E domani, a Milano, la mostra. Opere nate nella solitudine, nel silenzio, in un’emozione di materiali marini, oggetti scossi e sfiancati, rinati alla forma. Le mie mani sono ruvide. La loro pelle è liscia. Il mio cuore vola quando le guardo.

E allora oggi mi è venuta una domanda. Se non fossi andato, se non mi fossi alzato, se non fossi uscito verso un futuro diverso, tutto questo dove sarebbe? Io, l’io di oggi, che sento così tremendamente me, non ci sarebbe mai stato. E voi, quanta vita ci sarà, e quanta non ci sarà, facendo o non facendo le vostre scelte? E sono scelte vostre, le avete ragionate voi? Quello che non avverrà mai, perché non lo state volendo, e quello che avverrà, perché lo scegliete oggi, vi somiglia, siete voi? Ve lo auguro.

 

 

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Pelagos

(La Quiete – Scultura, Simone Perotti – 90×50 cm – quercia antica, abete vecchio, medium density, ferro zincato, rame)

Il 24 maggio, alle 19.00, a Milano, inaugureremo “Pelagos – immagini marine per la memoria”, la mostra d’arte con le mie sculture e i bellissimi quadri di Manuela Manes. Vi aspetto.

Manuela dipinge emozioni mediterranee. Io metto insieme materiali che hanno navigato per chissà quante miglia, e altri che hanno lavorato nell’entroterra. Il mare unisce i nostri lavori come un ponte d’acqua tra coste lontane. Anche per questo abbiamo dedicato le nostre opere ai migranti contemporanei, uomini e donne che tentano la salvezza sfidando il Canale di Sicilia alla penosa ricerca della felicità. La cieca Europa non vede il loro massacro. Sono vittime spesso senza volto, senza identità, come non fossero mai state. A loro, attraverso i pochi nomi che conosciamo, è dedicato il nostro lavoro. Per non dimenticare chi ha sognato, avuto coraggio, tentato. Uomini e donne vere, che fanno impallidire le nostre flebili paure.

 

Dal catalogo della mostra:

“Il Mediterraneo è uno e multiplo. Lo dividiamo in Mare di Alboran, il Mar di Levante, e poi in specchi d’acqua minore, il Tirreno Centrale, Settentrionale, e poi ancora inferiori come il Tirreno Centrale Settore di Levante. Chi abita sulla costa considera il suo specchio d’acqua un mare ulteriore, piccolo ma assai più importante, perché è con esso che si misura per una vita. Gli attribuisce doti uniche, e in esso divide tra lato nord e lato sud del golfo, due ecosistemi diversi, vivi di diversa vita. La cosa sorprendente è che è assai spesso vero.
Visto da lontano il Mediterraneo è un mondo di similitudini, da vicino il luogo delle differenze. Ma le lenti ingannano. Il Mediterraneo è il mare della contaminazione, fatta di diversità e identità.
Atene lo divise in un quadro popolato di miti e fecondato dalla semiotica. Roma lo unificò, rese i fratelli un unico figlio, che crebbe al sole della semantica. Nel Mediterraneo, segno e significato si rincorrono fino a diventare mare.
Oggi i satelliti mostrano ogni particolare, e Google Earth supera le visioni intermedie a grande velocità. Eppure, mai come oggi, il Mediterraneo è sempre più mare di mari, luogo di popoli e differenze. Torna ricca di senso la distinzione greca tra Thalassa e Kolpos, tra Pelagos, Hals e Pontos, i tanti nomi greci del mare. Pelagos, era il luogo dove si compiva il mito, il teatro dell’avvenimento. Era il sipario che cala sulla vita e la morte dello spettacolo umano. Pelagos era la nuova frontiera, in cui si passa o si viene respinti, e la sua natura di filtro è spietata, fatta di divise e burrasche, di follia e speranze.
In Pelagos, noi uomini del Mediterraneo, ci riconosciamo o perdiamo la nostra identità. Ma a perderla non sono i migranti, che anzi rischiano la loro vita per cercarla, che forzano il loro destino, bensì noi europei che non ne comprendiamo la tragedia. Pelagos è il teatro, noi siamo gli attori.
Quello è il nostro spettacolo, più vero della realtà, più tragico di qualunque mito.”

 

Da “L’Equilibrio della farfalla” (Garzanti – in libreria dal 31 maggio 2012)

“Gilda sospira. Poi si scuote, fa no velocemente con la testa, per riprendere coscienza, sorride, come tornasse da chissà quale mondo. Il mondo dei colori, probabilmente, perché il giallo davanti alla prua, che ha sentori di arancio e di rosso, tra non molto dissanguerà l’orizzonte. La lamina satinata della superficie non ha un rilievo, neppure un’onda. Per una pittrice deve essere una specie di orgia, un’overdose.
Ci vuole qualcosa da bere, sì. Scendo sotto coperta e preparo due bicchieri di Americano con fetta d’arancio e ghiaccio. Sabrina dorme.
«Cosa vedi Gilda? Hals, pelagos, thalassa…?»
Si volta verso di me, scala decine di livelli di pensiero per ricollegarsi al mondo reale. Le racconto che i greci hanno teorizzato per primi il mare, gli hanno dato nomi e significati. Jean-Claude Izzo ne parla in un suo romanzo. Il mare inteso come acqua, sale, materia liquida, elemento fisico lo chiamavano hals. Ma il mare è anche molto altro…
«Bello… raccontami storie, mi piacciono le storie sul mare.»
«Poi c’è pelagos…» cioè il palcoscenico, il teatro naturale, lo spettacolo quotidiano della grande distesa, quella delle apparizioni, delle visioni, dell’immaginazione. Ma gli antichi chiamavano il mare anche pontos, cioè quello che unisce, la via di comunicazione. Il mare, fino quasi alla modernità, è stato il modo migliore per muoversi e per incontrare i nostri simili, il ponte appunto. Ma non basta…
Gilda è attenta, quasi rapita. Chi capisce il fascino della parola capisce il senso delle cose oltre la vita.
«C’era anche il termine thalassa…» che è arrivato fino a noi in molte parole composte. Era l’evento, l’avvenimento, l’avventura, lo show. Quasi tutto ciò che avveniva, accadeva sul mare. Anche il mito, che non era reale ma immaginario e religioso, poteva manifestarsi soprattutto in mare, senza testimoni. Ecco perché una delle prime grandi sfide al fato e agli dei avviene in mare, e il suo protagonista è un marinaio: Odisseo.
«E infine kolpos, la riva…» l’anello irregolare che cinge il mare, la baia, il golfo, l’insenatura, il cavo fertile che feconda la terra, la femmina generatrice. Poi vennero i latini, che inventarono una parola nuova, nessuno sa perché. Nella grammatica storica, quando ci sono molti termini per definire una cosa, di solito uno prevale, il più usato, quello dal significato più ampio. Il sostantivo mare è indoeuropeo, ma non è presente né nel sanscrito né nell’armeno e neppure nel greco. Originariamente voleva dire «laguna», «stagno», poi divenne l’unica parola per indicare il Mediterraneo. I romani hanno inventato una parola nuova per ogni cosa, per la baia, per l’insenatura, per il porto, per la costa. Kolpos è diventato «golfo», e via così. Erano precisi, avevano bisogno di chiarezza, di esattezza: una parola per ogni cosa, non tante parole per la stessa. Per i greci era più importante la filosofia della realtà, volevano più spazio per la poesia, la fascinazione. La luce sulla realtà si affievoliva e l’attenzione era per il mito.
Mi viene in mente che quando una donna si fa rapire dalle parole è capace di tutto. Gilda, forse…
«Oppure chissà», mi interrompe, «se la vedi dal verso opposto… i romani avevano bisogno di semplificare. Tutti quei nomi, quei concetti, li disorientavano. Il mare faceva già abbastanza paura per conto suo, ci voleva almeno un sostantivo semplice, che chiudesse le vie, invece che dividerle all’infinito. Un nome breve, una parola di due sillabe. Quando i termini indicano chiaramente
qualcosa, senza alcuna possibile interpretazione, la vita diventa definita, e parlare diventa calcolo, matematica. Tutto perde mistero. È un po’ come nei colori…»
«Cioè?»
Mi spiega che i colori sono teoricamente infiniti, mentre per un pittore sono soltanto quattro: blu, rosso, giallo e bianco, da cui è possibile ottenere tutti gli altri, compreso il nero.
«Il risultato è sconfortante, perché ognuno di noi li vede in modo diverso. Quello che per me è rosso carminio, per te è rosso magenta, il rosso primario, o un rosso senza nome che vedi soltanto tu.»
Pare che sia stato provato scientificamente, e abbia a che fare con la retina o non so cos’altro.
«Ma quel colore», continua Gilda, «a prescindere da me e da te, che rosso è? Per un pittore i colori sono una tortura, e non solo per il pensiero di chi guarderà il suo lavoro. Io non so mai cosa sto dipingendo, per chi, che effetto gli farà. Per un pittore i colori sono i nomi, i verbi, le parole di uno scrittore… Pensa se uno scrittore raccontasse una storia senza sapere che lingua sta usando o quale sia quella del suo lettore. Se una parola scelta con cura, tra migliaia, volesse dire cose diverse, come potrebbe
scrivere?»
Sembra che abbia finito. Ma riprende.
«Ricordo una bella immagine, la scena iniziale di un romanzo: un pittore che dipinge su una grande spiaggia, seduto su uno sgabello davanti a un cavalletto e a una tela. Dipinge il mare, intingendo il pennello in una coppetta d’acqua salata. Se ne sta fermo un giorno intero a dipingere con l’acqua di mare, fino a che la marea, la sera, sale, lo lambisce, e poi perfino lo inonda, quasi lo sommerge. Una piccola barca viene a prenderlo ogni giorno al tramonto quando sta ormai per affogare. La sua tela resta bianca… senza alcun colore, percorsa da mille pennellate bianche come fossero la scia di una lumaca. Quel pittore riesce a dipingere il mare? Io credo di sì, a modo suo…»
«Chi lo sa, Gilda. Mi ha sempre affascinato che per una cosa ci siano molti nomi. Ognuno con una sfumatura diversa. Ogni uomo o donna vede un mare diverso, che separa, che congiunge, che avviene, che mette in scena, che fa scomparire. Cosa vedevi tu, poco fa? Dove ti eri persa?»
Non mi risponde. Sembra sul punto di farlo, poi si volta, resta muta. Guarda verso il niente del mare. Torna alla sua scena.”

 

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Concretamente sarà lei!

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Do-ti

Un membro del blog pone una questione. Che doti ci vogliono? Che è come dire, se sei bravo è perché sei nato così…? Oppure serve qualcosa che se non vuoi non hai…? Oppure: ce la posso fare anche io?

Tema ancestrale, difficile, su cui corrono omertà e inganno. Colgo l’occasione per dire cosa serve (secondo me, ma naturale. E secondo chi altrimenti? Sono io che sto scrivendo… Però se non avessi scritto “secondo me” qualcuno avrebbe arricciato il naso. Dunque il primo punto è: “non arricciate il naso se uno non scrive ‘secondo me‘”).

coscienza di sé (sapere che esisti, dove sei, cosa fai, dove stai andando. Ma esplicitamente, intendo, per iscritto o a voce alta, anche se in modo approssimato. Punto nave per sapere dove sei e rotta stimata per sapere se vai a nord o a sud. Almeno quello).

onestà intellettuale (è vero quello che dico? E’ vero quello che faccio? E’ vero quello che dico di volere? E se non è vero, e se serve per mistificare, nascondere, aggiustare, tatticamente…, lo so che è così? Prendo in giro me, gli altri, per qualche motivo plausibile? e quanto dura questo make up delle intenzioni? per sempre? temporaneamente? serve a qualcosa?)

responsabilità (azioni che nascono dalle mie energie o da quelle di altri? Li ho ringraziati gli altri? sono paraculo con loro? Mi assumo le conseguenze delle azioni e dei pensieri o lancio sassi e nascondo mani? Sono disposto ad alzare la mano se chiedono: ‘chi è stato?’)

sogno (andare là, cioè troppo lontano per i miei mezzi attuali ma abbastanza vicino per i mezzi che avrò se ci lavoro)

progetto (come andarci)

generosità (cosa faccio e come lo faccio quando non si tratta esclusivamente di me. Ho i coglioni per fare qualcosa a rendita zero o quasi zero? Sono consapevole che il cerchio dell’energia parte da me, da questo, e che torna solo ciò che è andato?)

disinteresse (parente della generosità, ma più ‘andante’, più ordinario, quotidiano. Più riferito alle cose che alle persone)

coscienza della mia faccia (chi sono visto da fuori, cosa ci si legge sul mio volto, quanto è diverso da ciò che volevo dire. La faccio finita di pensare che ‘io sono così e basta, se ti va bene bene altrimenti crepa’ che è una gran cazzata inventata da psicologi sfigati? La faccia è quello che decidiamo di essere, e non il contrario. Fa parte del macro-tema dell’identità)

coscienza del bilancio energetico (l’energia che uso finisce, lo so? So che va rigenerata? So qual è il mio benzinaio di fiducia? So come fare, quando farlo, o arrivo in riserva, il motore si spegne sul più bello e devo spingere?)

riconoscenza (troppo demodè ultimamente, ma importantissima. Basta con questo malcostume velenoso e odioso di dimenticare i tanti grazie che dobbiamo agli altri. E’ un pessimo inizio, farlo. E non conta se ci hanno offerto occasioni inconsapevolmente. Es: chi ci ha fatto soffrire. Grazie anche a lui. Onestamente.)

disciplina (Suggerimento di Federico Castelli, che sposo integralmente. La disciplina, come i monaci, dieci minuti al giorno, qualunque cosa si avvera)

A chi avesse la tentazione di dire: “eh, ma questo è un superuomo, e chi mai potrebbe avere tutto ciò?!” rispondo: una lista non serve per capire che si è inadatti rispetto al modello perfetto, ma serve come carta nautica, per capire coste, secche, fondali, fetch, correnti. Una lista è un punto di partenza, anche se sembrerebbe un luogo di destinazione. Prima della lista c’era solo confusione. Già mettersi a discettare se sia troppo, se sia poco, non va. Una carta la si apre, si studia, e si comincia a navigare.

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Passaparola. Ufficio di scollocamento

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Contrazioni. Domani nasce…

Esce domani, il 3 maggio, in tutte le librerie. Un altro figlio, piccolo, sporco, con gli occhi chiusi. Vedremo se resiste, cresce, diventa grande. La mortalità infantile, nell’editoria, è ancora alta. Giornali e televisioni in lieve imbarazzo: finché c’era da parlare di stili di vita, lifestyle e cambiamenti originali… ponti d’oro. Ma parlare di scollocamento… in quest’epoca… Forse cominciamo a esagerare. Mi facevano un po’ snob, un po’ fighetto, pensavano che avrei mollato la presa dopo un po’. I primi giornali hanno già detto di no, che non ne scriveranno. Vedrete che, in generale, ne parleranno poco. Ma non fa niente. Quando qualcuno si imbarazza, allora è il momento di andare a fondo. Vuol dire che qualcosa di valore c’è.

Per i lettori di questo blog, in anteprima, le due pagine iniziali e quella finale tratte da “Ufficio di scollocamento”, scritto con Paolo Ermani, edito da Chiarelettere. Buona lettura. ciao.

Quando sarà tardi, già domani mattina, molti cittadini,
come alcuni malcapitati passeggeri della nave Concordia,
non riusciranno più a farcela. Cosa ha consentito il salvataggio
della gran parte degli uomini e delle donne su quella
nave, se non essersi ammutinati, essersi dati idealmente
da soli i sette fischi più uno, cioè l’ordine del «si salvi chi
può» che non arrivava dal comando? Se avessero atteso
ancora, confidando nel comandante, sarebbero morti. È
per la loro indisciplina che hanno portato a casa la pelle.

 

Questo libro

Nel capolavoro di Ridley Scott Il gladiatore un ufficiale dell’esercito romano impegnato in battaglia contro i barbari dice al generale Massimo Decimo Meridio: «I popoli dovrebbero capire quando sono stati battuti». E lui saggiamente gli risponde: «Tu lo capiresti? Io lo capirei?».
È sempre difficile comprendere ciò che avviene nel proprio mondo, soprattutto per i contemporanei, perché da dentro le cose si vedono male. Anche ammesso che ci si riesca, si fa una terribile fatica a individuare quale sia la via di uscita. E se anche se ne trova una, è proprio allora che iniziano i problemi veri, perché bisogna mettersi a lavorare duro per imboccarla, mentre i più, che non si sono resi conto della situazione, ridono e ti danno del folle, dell’illuso, del visionario. Per non parlare delle difficoltà stesse del  cambiamento, degli inciampi che s’incontrano lungo la strada, del confronto con pensieri e pratiche mai sperimentate prima.
Il tutto senza la certezza che l’analisi, come anche la soluzione, sia giusta, e in più con il peso del rimorso per aver lasciato una via conosciuta.
Oggi non si fa che parlare di articolo diciotto, di disoccupazione, di posto fisso. Parlare di «scollocamento» in piena crisi, dunque, può sembrare assurdo, irriverente e perfino eretico. È anche per questo, credo, che vogliamo farlo. In effetti, finché l’idea di far nascere un Ufficio di scollocamento era rimasta una provocazione relegata all’ultima pagina di un libro (Avanti tutta,  Chiarelettere, Milano 2011), nessuno aveva sollevato obiezioni. Nonostante l’ampio dibattito che il saggio aveva suscitato tra i
lettori e sui media, quell’idea non aveva raccolto critiche. Semmai un coro di plausi e incoraggiamenti. Ma quando, un anno dopo, è uscita la notizia che il primo Ufficio di scollocamento era nato, un brivido ha attraversato la schiena di molti. Disapprovazione ed entusiasmi, mugugni e grida, tanto brusio. Per alcuni la possibilità di avere a disposizione un percorso che agevoli l’uscita dall’attuale sistema per tentarne uno migliore è una grande idea. Per altri è una bestialità da utopisti naïf.È sempre così: le parole volano, l’azione spacca.

O forse si è solo verificato quello che diceva Adriano Olivetti, e cioè che se dici in pubblico che hai avuto un’idea su come cambiare il mondo tutti annuiscono e applaudono. Se sostieni che vorresti tentare concretamente di realizzare quell’idea ti attaccano, soprattutto in certi salotti. Una giornalista mi ha detto: «Sai, non me la sento di scrivere sullo scollocamento. In questo momento, nella situazione in cui versa il paese…». Immagino che, se l’economia marciasse e il paese fosse organizzato bene, non ne dovremmo parlare affatto. Amici che sono stati ad Atene nei giorni in cui concludevamo questo libro ci hanno raccontato scene di desolazione: strade deserte, ristoranti vuoti o chiusi, negozi privi di merci, circolazione sulle strade ridotta al minimo. I giovani
hanno lo sguardo assente e vagano senza meta, gli anziani si disperano e attendono invano che qualcuno si occupi di loro. La pulizia delle strade è discontinua, la nettezza urbana non funziona più, negli ospedali scarseggiano le forniture sanitarie, non c’è lavoro. È tutto molto più triste e drammatico di quanto appare nei servizi di trenta secondi del telegiornale, quasi sempre infarciti di immagini che vengono da Bruxelles o Strasburgo, o da Francia e Germania. La Grecia sta morendo, e quel che sopravvive non appartiene più ai cittadini: è sotto sequestro finanziario. Ma il nostro spread è calato, i principali indicatori hanno ripreso i loro livelli di sicurezza, e noi possiamo guardare la Grecia dall’alto in basso, quasi con sufficienza, senza vederla, senza coglierne la preziosa testimonianza. «Noi non siamo i greci» ci diciamo. «Loro se la sono cercata, dài!».

I popoli dovrebbero capire quando sono stati battuti. O quando il loro sistema ha smesso di funzionare e va cambiato. Tra qualche tempo, quando saremo stati tutti costretti a scollocarci a causa della vera crisi e del crollo dei presupposti su cui è basata la nostra società, o più semplicemente e duramente per la furia della natura e l’estinzione delle risorse, qualcuno ripenserà a oggi con
qualche rimpianto. Potevamo cambiare, prima di essere cambiati. Ma forse sarà tardi per dolersene.
Oggi tuttavia non è ancora quel giorno. Ecco il perché di questo libro.

Simone Perotti
Val di Vara, marzo 2012

Un’ultima immagine

I principi e gli obiettivi su cui si basa la proposta dello scollocamento sono una reazione al lamento assurdo che si leva ovunque, ogni giorno, come un sordo brusio. Questa lagna immotivata è velenosa, invoca salvezza da una crisi che dipende da noi, diffonde e autorizza lacrime finte e vane, fa proliferare il pessimismo inerte e la decadenza della nostra vita. Lo scollocamento, al contrario, è contro il lamento, contro l’unica dottrina mediatica, contro l’omologazione. Lo scollocamento è ottimista, propositivo, non crede
nella crisi economica, semmai gioisce della riduzione dei livelli di spreco e consumo. Lo scollocamento può consentire il  superamento della vera crisi, quella delle coscienze e delle menti, ben più grave e irrimediabile perché impedisce di scegliere e rende schiavi.
Lo scollocato si rimbocca le maniche e prova, insiste, se non trova la soluzione cambia strada, riprova ancora, di certo non si scoraggia né si lascia andare, non chiede bustarelle né si può permettere di darne, non invoca raccomandazioni. Lo scollocato non impreca nei social network, non accusa nessuno se non il sistema egemone che lui stesso ha contribuito a costruire, ma senza l’intenzione di offendere o contrastare chi lo sostiene, semplicemente agendo ora, in prima persona, per modificarne le cause
e gli effetti.
Se lo scollocato non ha soldi si astiene dal consumare e non ne fa un dramma né si rivolge alle banche, agli strozzini o alle mafie. Riduce movimenti e bisogni, ma non è triste per questo. Semmai se ne compiace, esaltando la propria libertà. Lo scollocato pensa che si possa fare molto di più con molto meno, che ci siano mille cose da autoprodurre, e che è molto divertente imparare a farlo.
Lo scollocato non si annoia. Cammina molto, riprende a stancarsi fisicamente, e così facendo forse si scolloca anche dalle malattie di quest’epoca insana, evita il diabete e l’obesità, combatte con l’azione i trigliceridi e il colesterolo.
Lo scollocamento è la cultura di chi vorrebbe arrivare alla fine sapendo che ha tentato una strada diversa, usando la propria testa, facendo quello che è meglio, individualmente o in una comunità di consapevoli. Uomini, sempre, dunque terribili distruttori, unici esseri viventi ad avere coscienza di sé pur incapaci di comprendere la propria stessa vita, ma non schiavi, non a testa bassa, non
oppressi dal senso di colpa di una vicenda umana che li rende tristi, in costante difetto verso la natura. Lo scollocato spera, ma lo fa perché ha fondati motivi di successo, perché pensa, progetta e agisce, perché sa di avere molte doti e le usa.
Lo scollocato un giorno si è detto: «Ma tutta questa fatica, tutta quest’ansia, non varrebbero una vita migliore?». E allora si è alzato dalla sala d’aspetto dell’ennesimo colloquio di lavoro, ha oltrepassato la porta senza una parola, è uscito all’aperto.
E ha ricominciato a vivere.

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