(La Quiete – Scultura, Simone Perotti – 90×50 cm – quercia antica, abete vecchio, medium density, ferro zincato, rame)
Il 24 maggio, alle 19.00, a Milano, inaugureremo “Pelagos – immagini marine per la memoria”, la mostra d’arte con le mie sculture e i bellissimi quadri di Manuela Manes. Vi aspetto.
Manuela dipinge emozioni mediterranee. Io metto insieme materiali che hanno navigato per chissà quante miglia, e altri che hanno lavorato nell’entroterra. Il mare unisce i nostri lavori come un ponte d’acqua tra coste lontane. Anche per questo abbiamo dedicato le nostre opere ai migranti contemporanei, uomini e donne che tentano la salvezza sfidando il Canale di Sicilia alla penosa ricerca della felicità. La cieca Europa non vede il loro massacro. Sono vittime spesso senza volto, senza identità, come non fossero mai state. A loro, attraverso i pochi nomi che conosciamo, è dedicato il nostro lavoro. Per non dimenticare chi ha sognato, avuto coraggio, tentato. Uomini e donne vere, che fanno impallidire le nostre flebili paure.
Dal catalogo della mostra:
“Il Mediterraneo è uno e multiplo. Lo dividiamo in Mare di Alboran, il Mar di Levante, e poi in specchi d’acqua minore, il Tirreno Centrale, Settentrionale, e poi ancora inferiori come il Tirreno Centrale Settore di Levante. Chi abita sulla costa considera il suo specchio d’acqua un mare ulteriore, piccolo ma assai più importante, perché è con esso che si misura per una vita. Gli attribuisce doti uniche, e in esso divide tra lato nord e lato sud del golfo, due ecosistemi diversi, vivi di diversa vita. La cosa sorprendente è che è assai spesso vero.
Visto da lontano il Mediterraneo è un mondo di similitudini, da vicino il luogo delle differenze. Ma le lenti ingannano. Il Mediterraneo è il mare della contaminazione, fatta di diversità e identità.
Atene lo divise in un quadro popolato di miti e fecondato dalla semiotica. Roma lo unificò, rese i fratelli un unico figlio, che crebbe al sole della semantica. Nel Mediterraneo, segno e significato si rincorrono fino a diventare mare.
Oggi i satelliti mostrano ogni particolare, e Google Earth supera le visioni intermedie a grande velocità. Eppure, mai come oggi, il Mediterraneo è sempre più mare di mari, luogo di popoli e differenze. Torna ricca di senso la distinzione greca tra Thalassa e Kolpos, tra Pelagos, Hals e Pontos, i tanti nomi greci del mare. Pelagos, era il luogo dove si compiva il mito, il teatro dell’avvenimento. Era il sipario che cala sulla vita e la morte dello spettacolo umano. Pelagos era la nuova frontiera, in cui si passa o si viene respinti, e la sua natura di filtro è spietata, fatta di divise e burrasche, di follia e speranze.
In Pelagos, noi uomini del Mediterraneo, ci riconosciamo o perdiamo la nostra identità. Ma a perderla non sono i migranti, che anzi rischiano la loro vita per cercarla, che forzano il loro destino, bensì noi europei che non ne comprendiamo la tragedia. Pelagos è il teatro, noi siamo gli attori.
Quello è il nostro spettacolo, più vero della realtà, più tragico di qualunque mito.”
Da “L’Equilibrio della farfalla” (Garzanti – in libreria dal 31 maggio 2012)
“Gilda sospira. Poi si scuote, fa no velocemente con la testa, per riprendere coscienza, sorride, come tornasse da chissà quale mondo. Il mondo dei colori, probabilmente, perché il giallo davanti alla prua, che ha sentori di arancio e di rosso, tra non molto dissanguerà l’orizzonte. La lamina satinata della superficie non ha un rilievo, neppure un’onda. Per una pittrice deve essere una specie di orgia, un’overdose.
Ci vuole qualcosa da bere, sì. Scendo sotto coperta e preparo due bicchieri di Americano con fetta d’arancio e ghiaccio. Sabrina dorme.
«Cosa vedi Gilda? Hals, pelagos, thalassa…?»
Si volta verso di me, scala decine di livelli di pensiero per ricollegarsi al mondo reale. Le racconto che i greci hanno teorizzato per primi il mare, gli hanno dato nomi e significati. Jean-Claude Izzo ne parla in un suo romanzo. Il mare inteso come acqua, sale, materia liquida, elemento fisico lo chiamavano hals. Ma il mare è anche molto altro…
«Bello… raccontami storie, mi piacciono le storie sul mare.»
«Poi c’è pelagos…» cioè il palcoscenico, il teatro naturale, lo spettacolo quotidiano della grande distesa, quella delle apparizioni, delle visioni, dell’immaginazione. Ma gli antichi chiamavano il mare anche pontos, cioè quello che unisce, la via di comunicazione. Il mare, fino quasi alla modernità, è stato il modo migliore per muoversi e per incontrare i nostri simili, il ponte appunto. Ma non basta…
Gilda è attenta, quasi rapita. Chi capisce il fascino della parola capisce il senso delle cose oltre la vita.
«C’era anche il termine thalassa…» che è arrivato fino a noi in molte parole composte. Era l’evento, l’avvenimento, l’avventura, lo show. Quasi tutto ciò che avveniva, accadeva sul mare. Anche il mito, che non era reale ma immaginario e religioso, poteva manifestarsi soprattutto in mare, senza testimoni. Ecco perché una delle prime grandi sfide al fato e agli dei avviene in mare, e il suo protagonista è un marinaio: Odisseo.
«E infine kolpos, la riva…» l’anello irregolare che cinge il mare, la baia, il golfo, l’insenatura, il cavo fertile che feconda la terra, la femmina generatrice. Poi vennero i latini, che inventarono una parola nuova, nessuno sa perché. Nella grammatica storica, quando ci sono molti termini per definire una cosa, di solito uno prevale, il più usato, quello dal significato più ampio. Il sostantivo mare è indoeuropeo, ma non è presente né nel sanscrito né nell’armeno e neppure nel greco. Originariamente voleva dire «laguna», «stagno», poi divenne l’unica parola per indicare il Mediterraneo. I romani hanno inventato una parola nuova per ogni cosa, per la baia, per l’insenatura, per il porto, per la costa. Kolpos è diventato «golfo», e via così. Erano precisi, avevano bisogno di chiarezza, di esattezza: una parola per ogni cosa, non tante parole per la stessa. Per i greci era più importante la filosofia della realtà, volevano più spazio per la poesia, la fascinazione. La luce sulla realtà si affievoliva e l’attenzione era per il mito.
Mi viene in mente che quando una donna si fa rapire dalle parole è capace di tutto. Gilda, forse…
«Oppure chissà», mi interrompe, «se la vedi dal verso opposto… i romani avevano bisogno di semplificare. Tutti quei nomi, quei concetti, li disorientavano. Il mare faceva già abbastanza paura per conto suo, ci voleva almeno un sostantivo semplice, che chiudesse le vie, invece che dividerle all’infinito. Un nome breve, una parola di due sillabe. Quando i termini indicano chiaramente
qualcosa, senza alcuna possibile interpretazione, la vita diventa definita, e parlare diventa calcolo, matematica. Tutto perde mistero. È un po’ come nei colori…»
«Cioè?»
Mi spiega che i colori sono teoricamente infiniti, mentre per un pittore sono soltanto quattro: blu, rosso, giallo e bianco, da cui è possibile ottenere tutti gli altri, compreso il nero.
«Il risultato è sconfortante, perché ognuno di noi li vede in modo diverso. Quello che per me è rosso carminio, per te è rosso magenta, il rosso primario, o un rosso senza nome che vedi soltanto tu.»
Pare che sia stato provato scientificamente, e abbia a che fare con la retina o non so cos’altro.
«Ma quel colore», continua Gilda, «a prescindere da me e da te, che rosso è? Per un pittore i colori sono una tortura, e non solo per il pensiero di chi guarderà il suo lavoro. Io non so mai cosa sto dipingendo, per chi, che effetto gli farà. Per un pittore i colori sono i nomi, i verbi, le parole di uno scrittore… Pensa se uno scrittore raccontasse una storia senza sapere che lingua sta usando o quale sia quella del suo lettore. Se una parola scelta con cura, tra migliaia, volesse dire cose diverse, come potrebbe
scrivere?»
Sembra che abbia finito. Ma riprende.
«Ricordo una bella immagine, la scena iniziale di un romanzo: un pittore che dipinge su una grande spiaggia, seduto su uno sgabello davanti a un cavalletto e a una tela. Dipinge il mare, intingendo il pennello in una coppetta d’acqua salata. Se ne sta fermo un giorno intero a dipingere con l’acqua di mare, fino a che la marea, la sera, sale, lo lambisce, e poi perfino lo inonda, quasi lo sommerge. Una piccola barca viene a prenderlo ogni giorno al tramonto quando sta ormai per affogare. La sua tela resta bianca… senza alcun colore, percorsa da mille pennellate bianche come fossero la scia di una lumaca. Quel pittore riesce a dipingere il mare? Io credo di sì, a modo suo…»
«Chi lo sa, Gilda. Mi ha sempre affascinato che per una cosa ci siano molti nomi. Ognuno con una sfumatura diversa. Ogni uomo o donna vede un mare diverso, che separa, che congiunge, che avviene, che mette in scena, che fa scomparire. Cosa vedevi tu, poco fa? Dove ti eri persa?»
Non mi risponde. Sembra sul punto di farlo, poi si volta, resta muta. Guarda verso il niente del mare. Torna alla sua scena.”