Inchini

1.300 miglia. E ancora 500 davanti. Tanto mare nella scia, insieme a luoghi, colori, storie, risate, parole quiete in pozzetto, come quella sera a Favignana, o a Taormina. L’aria asciutta della notte, la pelle che non tocca niente… Da ricordare ancora: le vie della Valletta, Marzamemi nella notte piena di gioia e musica, Ortigia che tutti dovrebbero vedere, la sera dell’aperitivo a Catania, il canale incazzato e le onde blu di Cariddi, la vela per Lipari, Silvia e l’accoglienza sull’isola. Ma le scie si richiudono, se altro mare attende.

Risalire il Tirreno è sempre una piccola sfida. Il Maestrale potrebbe inchiodarti dovunque. Tante miglia percorse non fanno di me un marinaio distratto. Al contrario. Chiedo a Poseidon l’ultima indifferenza, che si volti verso la sua isola, che mi faccia passare. Chino la testa, sempre, quando passo Scilla, quando rimetto la prua a nord. Nel Tirreno ho preso tante lezioni di vita. E venivano sempre da mare.

Oggi Stromboli, Panarea, i rubini della collana di questo viaggio. In inverno capiremo meglio quali sono state le pietre preziose, le perle, i diamanti. A cosa servono gli inverni, se non alla memoria del mare estivo? Mentre si naviga, naturalmente: freddo e vento. Il ricordo servirà anche a scaldare.

Ieri a Lipari bella presentazione, facce attente. Parlavamo di coraggio, di concentrazione, di tempo che va. Libertà. Quella per cui non lasci mai il timone, non togli gli occhi dal fiocco. Mai visto libertà senza precisione di rotta. Fuori dalla carta nautica non c’è che deriva e naufragio. Le righe, le rette, le accostate. Col sacro rispetto del vento.

Ulisse era già a Itaca, riconosceva già i volti degli amici sulla costa, giunti ad accoglierlo. Fu allora che lasciò il timone, che andò a riposarsi sotto coperta. I suoi compagni d’equipaggio aprirono l’otre dei venti, che Eolo aveva donato per buona rotta. Si sentivano ormai a casa. Ormai al sicuro. Vennero risospinti qui. Non rifarò questo errore. Dalle isole del mito, come sempre, un inchino verso nord.

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Sapere

Ancient Constructions

Marzamemi: mura gialle, un passato, il sud. Tutti gli ingredienti per il fascino. Siamo di qui, anche di qui. E infatti ci sentiamo a casa.

Il locale si chiama Suruq, si danza, si beve qualcosa di buono. Il Dj al microfono saluta i Nomadi a Vela, ci dà il benvenuto. La notte pare regalare rose, come il giovane maghrebino che gira tra i tavoli. “Sono placide le ore che noi perdiamo se nel perderle, come in un vaso, mettiamo fiori“. Penso a questa bella frase di Saramago. Poi ballo.

Risalire la costa siciliana non è bello: è un onore. Siamo marinai fortunati. Il mare che solchiamo ha il profumo del tonno, della bottarga, del pesce spada. La schiuma della nostra scia non scompare, genera ricordi. Chi mi ha fatto innervosire ieri? Cosa aveva detto? Non me ne ricordo più. La scia l’ha coperto, cancellato. Il mare della memoria genera anche oblio.

Mille miglia già percorse in quasi quattro settimane. Di fronte più di 600 ancora. Il viaggio prosegue, si compie. Ho comprato le acciughe e i pomodori di Pachino. Li produce Campisi, che vorrei vedere cavaliere del lavoro, anche se non lo conosco, solo per quello che fa. Ho acquistato questi prodotti siciliani perché d’inverno voglio risentire questi sapori. Non per ricordare. Per sapere meglio.

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Echi lontani

Grampus

35°53.191′ N – 14°31.131′ E – Malta – Fine della terza settimana di navigazione

Partenza da Linosa nel nero senza luna che precede l’aurora. Il calice di Orione sulla prua, avvisaglia astrale del mattino. Quante volte Dragut Rais, il grande ammiraglio, l’anarchico, il pirata, l’eroe, avrà visto la stessa scena? Il mare, contrariamente alla terraferma, è identico a se stesso nei secoli. Quel che vedeva Giovanni dalle Bande nere, il più grande generale coevo, l’ultima immagine vista prima di essere colpito da uno dei primi spari di moschetto della storia, oggi non c’è più. La terra cambia. Andrea Doria, Dragut, Kahir ad Din, vedevano questo mio stesso identico mare. Vedere la stessa scena unisce. Rende simili.

Con le prime luci ho filato la traina, dopo aver cambiato terminale. Mi è dispiaciuto un po’, quel finto calamaro dall’occhio rosso, espressione di attonito stupore, mi ha accompagnato per quasi quattro anni, equidistante dalla poppa, assalito e straziato da qualche splendido e guizzante pelagico del Mediterraneo. Anche per il suo onesto servizio l’ho usato e riusato, ma ormai era a pezzi.

Dopo il sorgere del sole abbiamo incontrato i delfini, due volte, prima isolati, poi un branco. Stenelle dai colori perfetti, ventre chiaro e rosa, livrea scura sul dorso. Di tanto in tanto sono sfilate le grandi tartarughe, a decine. Sono le Caretta Caretta di cui ieri abbiamo visto il rifugio ospedale. Ci hanno guardato col loro occhio bovino, mite, e salutato con le pinne appuntite. Inattesi, ancora… sono arrivati i grampi, mai visti per decenni e decine di migliaia di miglia, e ora incontrati due volte in due giorni, a quaranta miglia di distanza. Le teste tonde, umane, i corpi possenti, quattro metri e mezzo di forza e gioco. Li abbiamo lasciati nel mare serafico, piano, appena ondulato, dopo averli sfidati alle virate più ardite. Da lontano, come per farsi vedere ancora, li vedevamo saltare.

Siamo arrivati a Malta dopo due soste a Gozo e Comino. Baie appena affollate, ma mai troppo. Acque turchesi, smeraldine. Comino sembra la Thailandia, rocce alte e mare che lascia senza fiato. Il Mediterraneo. All’imbocco del porto naturale della Valletta il sole calante colorava ogni cosa di ocra. Gerusalemme, Aleppo, L’Avana, Siracusa… tutto in punto, come avrebbe detto Calvino. Millenni e  immutabilità, fascino e destino. Dragut è morto qui. Sfilo forte Sant’Elmo, guardo lungo la muraglia a nord ovest. Conosco il punto esatto della sua fine. Era “L’unico che avrebbe potuto indossare la corona di Re”. Conosceva da decenni il luogo della sua morte. Aveva sognato che l’ultima terra vista sarebbe stata Malta. Anche per questo se ne teneva alla larga. Fino all’inevitabile. E’ seppellito in un mausoleo dedicato al suo nome, a Tripoli, di cui era il Beylerbey, la sua ultima carica onorifica, ma è morto sotto le mura di Sant’Elmo. Malta fa parte del mio itinerario anche per questo. Sono andato a visitare il piccolo paese della Turchia anatolica dov’è nato. Rivedrò il luogo dove è morto. Quando venni qui l’ultima volta non sapevo nulla di lui.

Scriverò un romanzo su questo personaggio unico. E’ previsto da anni. Anarchico e inafferrabile, solitario eppure a capo di flotte, astuto ma con una profonda ferita nel cuore. Dragut è la sintesi della fragile e impenetrabile natura umana. Uomo del Mediterraneo, efferato e capace di grande generosità, Dragut ci riguarda assai più di Sandokan e della Fortezza Bastiani. Chissà perché lui e gli altri grandi pirati che per secoli hanno animato avventure e speranze nel cuore dell’Europa e dell’Asia Minore non hanno suscitato storie e racconti dai nostri grandi narratori. Io seguo le loro scie da anni. Viaggiare per mare, in questo straordinario mare, serve anche a capirli. Capire da chi proveniamo, perché godiamo tanto su questo mantello azzurro. Sotto di esso c’è il nostro autentico, unico cuore  europeo. L’europa non è quella che ci dicono. L’Europa siamo noi, con i calli ai piedi e alle mani, il sale addosso tutto l’anno, e un cuore solitario che si strugge in cerca di compagnia.

 

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Grampi e tartarughe. Nel cuore.

Linosa's Lighthouse

35°51.278’ N – 12°51.875’ E – Linosa.

Giorni splendidi, di mare e mare. E mare. E basta. Il sale sulla pelle, nel cuore. Abbiamo rimesso prua a nord, dopo Lampedusa. Il punto più meridionale del nostro viaggio è stato doppiato. Fin qui Ponza, Ustica, Favignana, Pantelleria, Lampedusa, e oggi Linosa. Non c’ero mai sbarcato. Colori e Mediterraneo. Quasi stonate sfumature di Caraibi. Ma affascinanti nell’ocra, nero, rosso di Cala Pozzolana.

Ho incontrato Paolo, che ha comprato molte mie sculture. Paolo ha cambiato vita: metà tempo a Venezia, metà a Linosa. Abbiamo parlato della vita, dell’isola. Mi ha accompagnato all’ospedale delle tartarughe, dove Stefano, capelli rasta e accento romano, ci ha illustrato il loro lavoro con un bel sorriso. Grazie Stefano, per quello che fate.

Domattina all’alba salperemo ancora, per Malta. Tra qualche giorno finisce la terza settimana di viaggio. Davanti, altre tre, per risalire ancora. Isole, solo isole. Ogni uomo dovrebbe averne una. Nel cuore.

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Io. Tu. Un’isola

Rays Of Sunshine Through The Clouds, Pantelleria

Il dammuso è ancora lassù, vecchio e scalcinato come allora. Me ne rircordo bene, ci vissi per tre settimane. Ma sono passati oltre ventitré anni, pensavo lo avrei trovato ristrutturato, oppure a pezzi. Le stagioni è come se non lo avessero scalfito, né nuovo né vecchio.
Anche l’isola sembra la stessa, qualche villa più bella, qualche acro di terra persa recuperato a vigna di Passito. Capperi dovunque. “Bent-al-Ryon”, la Figlia del vento, il nome che gli arabi diedero a Pantelleria, semplicemente, se ne frega dei tramonti.

Ho incontrato un uomo, ieri, percorrendo in motorino la litoranea dell’isola. Un uomo-ragazzo, che avevo perduto. Ha ancora la sua Renault 4 rossa, e ricordo che aveva una fidanzata, una ragazzina malinconica e ombrosa che credo abbia sposato l’anno seguente, oltre ventitré anni fa. Ci siamo trovati di fronte, all’angolo della memoria, sull’avenida del ricordo: ci siamo guardati. Io l’ho riconosciuto.
Gli ho offerto una granita alla mandorla, gli ho chiesto qualche informazione. Mi ha squadrato di sottecchi, senza farsi troppo notare. Non gli ricordavo nessuno, mai visti prima, eppure c’era qualcosa in me, un gesto con la mano, un’informazione che gli andavo dicendo, un racconto del mio primo viaggio a Pantelleria, che lo incuriosivano. Possiamo riconoscere l’uomo che non sappiamo di diventare tra vent’anni? Ma questa domanda non ha saputo farsela.

Gli ho domandato chi fosse, che vita avesse fatto, sono stato familiare, cortese, diretto. Gli parlavo come amo che si parli a me. Credo l’abbia gradito. Qualcosa della mia vita mancata l’ho capito. Molto altro non basterà la mia, che ancora rimane, per avvertirlo appena. Di alcune parole che usa ho chiesto il significato. Di altre credo di averlo frainteso. L’uomo che non eravamo stati si guardava allo specchio. Una goletta di fumo che scivola nella nebbia di fronte a un cieco.

Poi ho capito che quell’uomo non ero io. E’ stato un lampo, senza avvisaglie. Mi sono ricordato di un impegno, ho pagato, mi sono congedato col più rapido e accondiscendente dei modi. E’ stato in quel momento che deve aver avuto un dubbio, qualcosa più di un tardivo sospetto. Avevamo la stessa età, nati nello stesso freddo giorno di dicembre. Qualcuno avrebbe potuto notare in noi una curiosa somiglianza, anche se a onor del vero lui è un po’ più curvo e appesantito di me, ma ha assai meno capelli bianchi dei miei. Ha trattenuto la mia mano per qualche istante, come volesse dire qualcosa. “Ma tu…?” “No…, non credo”. Nel 1991 non potevo essere nei suoi pensieri. Me ne ricordo bene. “Il romanzo che volevo tanto scrivere… non l’ho mai scritto. Né sono andato per porti…”. Quel sogno sopito di avventura mi ha lasciato senza fiato, quasi m’ha fatto soffocare. Ho visto scorrere le sue lettere sulla libertà, scritte a qualcuno che avrei dovuto essere io. Non le ho mai ricevute.

Da lontano, quando i muretti a secco coperti di verde smeraldo stavano per cancellarmi dalla sua vista, ha alzato un braccio. Come volesse dire “aspetta… un attimo ancora…”. Ma era tardi. Com’è tardi, sempre, la sera dei ricordi e il giorno dei destini incrociati. Quell’uomo non potevo essere io. Se lo fossi stato, ora non sarei qui, sul porto, in un bar, a scrivere del suo ultimo gesto di saluto.

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Confine

Pantelleria

Pantelleria, 36°49.969’N – 11°56.126’E – Seconda settimana di navigazione

Isola solitaria, alta, aspra, nera, magnetica. Pantelleria, scoglio duro e ruvido del sud Mediterraneo. Siamo qui, al “Porto Nuovo”, un recesso sgangherato la cui unica dote è quella di costituire un riparo. Qualcuno si lamenta, fa caldo, il punto del nostro approdo non è ameno. E’ vero…

Abbiamo navigato per quasi 600 miglia, dal punto più settentrionale del Mediterraneo, per arrivare quaggiù, quasi nel Golfo della Sirte, luogo di confine delle anime salve e delle anime morte, dunque luogo per marinai. Al nostro arrivo era già salito il Maestro, dopo giorni di Ostro. Tempo di trovare un ridosso, proteggerci dalle raffiche in crescita, e il mare ci ha divisi. Due barche hanno fatto rotta per il Porto dietro l’Isola (una piccola rada a sud) e una per Scauri. La notte, senza sapere dove fossimo, abbiamo sopportato il “saluto dell’isola del vento”, con raffiche a 40 nodi, la barca che brandeggiava come un felino in catene, il rischio di “spedare” e trovarci in mare aperto. Notte da marinai, trascorsa sul ponte, senza dormire, come quelle che agitano i miei sogni invernali.

Stamattina in porto, a cercare un posto dove sostare. Domani è previsto molto vento, difficile un’altra notte per le cale minime e senza pietà. Il rosa delle bouganville, il bianco dei dammusi, la pietra nera, hanno stimolato i discorsi a piccoli gruppi, in coperta, mentre guadagnavamo l’imboccatura contro vento. Ora siamo qui. Non è ameno, certo. Ma ci siamo arrivati. Certe isole hanno approdi difficili, perché l’anima hameno bisogno di semplicità del corpo. Non era questo, in fondo, quello che stavamo cercando? Io sì…

Il confine. Oltre tutto cambia, tutto può essere altro. L’oltre e l’altro sono parte del “di qua”. E noi, qui, siamo sul ciglio. Un marinaio in polo e braghette che prende la mia cima all’arrivo, aggiungerebbe qualcosa? Il comodo e lussuoso bar del porto mi farebbe migliore? Il calore, qui quasi parossistico, toglie qualcosa di vero alla mia vita? Altrove, al di qua, sarebbe meglio, più semplice, più interessante? Di fronte a Faamu-Sami c’è una vecchia barca in disarmo, alata sua due trespoli, fuori dall’acqua. Ci vivono due tedeschi, parenti prossimi dei nomadi di terra. Fumano una sigaretta all’ombra, parlano di chissà cosa. Sono qui da quanto tempo? Quanto tempo fa hanno oltrepassato il confine?

Guardo l’isola, che attende un’altra manata del vento. Sembra assorta. I fichi d’india la guarniscono come una collana di spine. Pungono e abbelliscono. L’ameno ha sempre due facce, quella del già noto e quella del semplice. Per chi cerca complessità e sogno, confini da oltrepassare e Mediterraneo, c’è sempre Pantelleria.

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Prima

Spiaggia Selvaggia, Vista Dal Mare

37°55.491 N – 12°21.830 E – Favignana – Prima settimana di navigazione

Faamu-Sami, TPole e Favela Chic, le nostre tre svelte imbarcazioni, due blu e una bianca, danzano nell’Ostro in aumento. Siamo ridossati da sud, qui a Cala Rossa, Favignana, e non c’è mare. Ieri fino al tramonto avevamo un fresco maestrale. Da domani è previsto Scirocco, a tratti teso. Vedremo. Stanotte però abbiamo recuperato il sonno perduto nelle tre notturne e nelle sveglie all’alba di questa bella rotta da Spezia. Nettuno per una notte, Ponza bellissima e amica, Ustica romita e affascinante, e poi le Egadi. 480 miglia, circa, in sei giorni. Umore buono. Qualcuno ha capito, e goduto. Poseidon, che non ci ha tra i suoi nemici, ci ha fatto passare.

Abbiamo visto delfini, pescato, chiacchierato, governato le barche, che a momenti sembravano volare. La rotta tra Ponza e Ustica, per com’è andata, per il vento, il mare, la luce, la luna… è da ricordare tra le cinque più belle traversate della mia vita. Faamu-Sami filava 8,2 nodi, 7,3 di media su 100 miglia. Chi naviga sa che non è poco, non è facile, non accade così spesso. Il vento favorevole e i marinai che hanno una meta.

Domani primo avvicendamento, a Trapani. Vedremo. Giorni sempre difficili per i comandanti. Attenzioni da dare a chi parte, a chi arriva, a tutti tranne che a sé. Si riparte sempre un po’ alieni. Ieri ho scritto un messaggio a Marco, che comanda TPole: “Perché siamo qui? Perché diamo tutto per far stare bene degli sconosciuti? Perché lo facciamo?” Mi ha risposto bene, come chi riprende un filo che non era stato lasciato cadere.

Il sud, che sia Ostro, Scirocco o Libeccio, deciderà i nostri prossimi giorni di rotta. Non sappiamo dove saremo dopodomani. Anche questa incoscienza fa parte di noi. Per chi cerca sempre di sapere dov’è, non conoscere luoghi e destinazioni genera timori ed ebbrezza. Ma cura.

 

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