Via terra

Doelan, il fiordo

Ho fatto fatica, ieri, a ricordare l’ultima volta che avevo preso la macchina ed ero partito per un viaggio. Forse nel 1991, ma non ci giurerei, vado per deduzione. Comunque tanto tempo fa. Da allora ho sempre viaggiato per mare, e qualche volta in aereo, brevi viaggi in una città estera ben precisa, due o tre giorni e via. Ma 1.200 chilometri in automobile e poi qualche centinaio per visitare un luogo…

E’ un bene che questo avvenga con la Bretagna, dove mi trovo ora. Il più marino dei luoghi della terraferma, un pezzo di Mediterraneo finito per errore sull’Atlantico. Un confine, più che un’area. Una linea. Un posto adatto a me.

Da tre giorni, infatti, pullulano le storie nella mia mente. Personaggi, volti, mestieri. Bretagna.

Un uomo che scende le scale all’alba da un appartamento dove una giovane donna dorme semi scoperta nel letto, in una stanza calda, con le pareti di legno, nonostante il gelo esterno. Dove va quell’uomo? Al mercato, vende ostriche, al mattino, e fa il ballerino la sera. Ma al termine della giornata accadrà qualcosa. La sua espressione preoccupata, che ignora l’immediato futuro, ne ha però una viva premonizione.

Piazza del mercato, La Rochelle

– Oppure un parigino che sposa una nera nel comune di La Rochelle, nello Charante, chissà come, chissà perché, chissà per quanto. Il codazzo di ospiti e amici è una scena rumorosa ed eccessiva. Le macchine suonano i clacson, i colletti alzati sotto alle cravatte sono forzati. E’ in quel momento che accade qualcosa….

– O ancora, un pescatore rientra, buon ultimo sull’intera flotta da pesca, con la sua barca malandata e stanca. Rassetta le cime, le reti, porta il pescato alla cooperativa marittima, che sta per chiudere. Ce l’ha fatta, per un pelo. Ma nessuno vuole il suo pesce. Perché? il pescatore resta immobile, con le mani lungo le gambe, la cerata ancora gocciolante, al centro del mercato coperto. Cosa ha fatto quell’uomo, perché la comunità lo emargina? Il pescatore risale a bordo, ricarica le sue cassette di pesce, molla gli ormeggi, riprende il mare nonostante gli avvisi di burrasca. Senza una parola. I concittadini del fiordo di Doelan, sul molo, lo guardano immobili nelle raffiche gelide di ponente.

Storie. Facce, fotogrammi, personaggi. Impressioni di viaggio incontinenti, invadenti, inevitabili, che devono a forza diventare volti e qualche passato da ricordare. Chi è la ragazza rimasta a dormire nell’appartamento di legno sul fronte marino? Cosa le accadrà mentre il venditore di ostriche ballerino è lontano? E cosa sarà del pescatore che riparte nelle ombre notturne, col mare in crescita, reietto e solo? E il parigino, cosa sarà di lui, già domani, al primo risveglio da marito che non ha capito? Come farò a dormire stasera, senza che questi volti tornino a visitarmi, senza alcun riguardo?

Io non so viaggiare che così. Forse è per questa maledizione che non viaggiavo da così tanto. In mare, almeno fino a che non si tocca terra, è diverso. Talvolta, si può riposare.

Granseole reali, o ragni di mare reali, al mercato di La Rochelle

Sulle mura, La Rochelle

 

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Se

Stasera ho visto “The Family Man”, con Nicholas Cage e Téa Leoni (che eleggo a mia donna ideale della settimana). Ebbene, tra le tante provocazioni che ho scritto fino ad oggi, state per leggere una delle maggiori, la più spinta e difficile da spiegare: è un gran bel film. Tutti i cinefili staranno inorridendo, lo sento. Ma vi prego, concedetemi qualche riga.

La storia è semplice:
1987: Jack e Kate sono due studenti universitari, giovani e molto innamorati. Jack vince un internato di un anno in un’università inglese e sta per partire. Kate lo ferma davanti al gate dove sta per imbarcarsi: “non andare, ho paura. Ho un terribile presentimento. Possiamo vivere la nostra vita insieme, non abbiamo bisogno io della mia università per diventare avvocato, tu di questa specializzazione per darti alla finanza. Rimani, non partire”. Jack la rassicura, le dice che la ama. E parte. “Ritornerò presto, vedrai”.

2000: sono trascorsi 13 anni. Jack è un big della finanza, che tratta affari per miliardi di dollari. E’ in palla, ha delle splendide amanti, è su di giri, felice. Una sera però si addormenta nel suo superattico, e quando si sveglia la sua Ferrari è sparita, si ritrova in una casa in un sobborgo di New York, ha due figli, un cane e vende pneumatici al dettaglio nell’azienda del suocero. Ma è lui, è cosciente di come si era addormentato, di essere un boss della finanza. Eppure la sua vita fin lì è scomparsa. Kate è meravigliosa, presta assistenza legale gratuita ai bisognosi, guadagna due lire. I figli sono splendidi, gli amici anche, ma non è la sua vita. Un incubo. Ci vogliono due o tre settimane perché capisca, si renda conto, parli con Kate, fino a iniziare ad amare “quel che sarebbe stata la sua vita” se fosse tornato da lei. Jack, infatti, non era tornato. Aveva scelto.

Il “sogno” dura poco. Jack si risveglia nella sua vera vita, nel suo superattico, a capo del suo impero. Torna nel sobborgo, ma naturalmente la casa e Kate e i bambini non ci sono. La cerca, allora, e la trova in uno splendido loft del centro di Manhattan. E’ splendida come nel sogno, ma non si è mai sposata, non ha figli, è un avvocato di grido. E sta traslocando. Va a vivere a Parigi.
Ultima scena: Jack corre all’aeroporto. Kate è già al gate, sta per imbarcarsi. Stessa situazione di 13 anni prima, ma a ruoli invertiti. Difficile fermarla, Kate lo rassicura “vieni a trovarmi una volta”. Jack sta per cedere, si allontana. Poi torna sui suoi passi, le racconta il suo sogno. “Io ho visto quello che possiamo essere insieme. Ti chiedo solo qualche minuto, una tazza di caffè insieme”.
Sui titoli di coda che scorrono, mentre fuori dalle grandi vetrate del JFK di New York viene giù un’imponente nevicata natalizia, i due chiacchierano seduti al bar dell’aeroporto.

Ora, spiegato così, il film potrebbe sembrare banale. Invece no, qualcosa c’è.

Ho sempre trepidato al pensiero delle sliding doors. Credo di non aver passato un solo giorno della mia vita senza pensare, almeno una volta, a cosa sarei adesso se

se quel giorno fossi stato più concentrato, in quella palestra, a sedici anni; se quel giorno non fossi tornato all’economato della Sapienza di Roma per cambiare facoltà, da Architettura a Lettere, solo quarantotto ore dopo essermi iscritto al primo anno; se quel giorno all’aeroporto Narita di Tokio, avessi preso un caffé con Keiko Morita; se quel giorno non avessi traslocato, da solo, contro ogni senso, pur di trovarmi spaesato, ma vivo, in quell’appartamento, a ventiquattro anni; se quella domenica, sul divano, avessi cambiato argomento, evitando la più sanguinosa delle rivelazioni della mia vita; se quel pomeriggio non fossi tornato a casa prima, da Milano, e non avessi ascoltato quella telefonata; se quel giorno non fossi partito per Milano con mia madre; se quel giorno, all’Hotel del Sole, a piazza del Pantheon, avessi insistito di più; se quel mattino d’ottobre, al telefono, da Milano, avessi detto “aspetta, voglio parlarne meglio, voglio capire, prendo il primo volo e arrivo…”; se quel giorno, a La Rochelle, non l’avessi vista; se quel giorno a bordo non ci fosse stato ancora un posto libero; se quel giorno, mentre guidavo il furgone parlando al telefono con quella persona importante, non avessi voluto far naufragare tutto; se quel giorno il vento fosse girato di novanta gradi verso ovest, da mare invece che da terra; se quel giorno non avessi spedito quella busta con dentro la cosa più preziosa che avevo; se quel giorno avessi detto “d’accordo, è finita”. Se quel giorno. Potrei continuare almeno per due pagine intere.

Cosa sarebbe capitato? Ve lo siete mai chiesti? Immagino di sì. E che risposta vi siete dati? Sarebbe andata meglio? Sarebbe stato un disastro? Ne siete certi? Pensateci. Quella volta, quella volta specifica, non una generica. E non avete mai avuto la tentazione di tornare lì, in quel luogo, da quella persona, per invertire le sorti del vostro piccolo mondo? E perché non lo avete fatto? Come convivete con questo?

Molti anni fa mi trovavo a Le Marin, il porto delle barche da charter di Martinica, con un vecchio marinaio, uno davvero molto saggio e navigato. Eravamo sbarcati entrambi dopo tre settimane tra Santa Lucia e Union Island, ed entrambi avevamo avuto a bordo gente orribile. Eravamo stanchi, stufi, non ne potevamo più. Avevamo passato la sera a parlare e a bere un pessimo vino. A un tratto lui mi disse: “vedi Simone. Ognuno di noi vive sempre la sua miglior vita possibile. Se potesse viverne una migliore, la vivrebbe. Se non lo fa, è solo perché non sarebbe la sua. Perché non può”.
Non potevo capire bene, pensai che non fosse lucido, almeno quanto lo ero io. Non ricordo neppure come riuscimmo a risalire sulle nostre barche, alle quattro di mattina. Non sono mai neanche stato in grado di capire se avesse o meno ragione. Volevo anche chiedergli qualche spiegazione in più, e l’avrei fatto se il giorno dopo non mi fossi svegliato a mezzogiorno, con un grande cerchio alla testa. Un altro “se” della mia vita. Quel vecchio saggio era salpato all’alba. Non l’ho mai più rivisto.

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Dieci

Con e senza fascetta

Siamo in dieci, in famiglia. Dieci libri, con questo. Dal dieci gennaio 2013. Cominciamo a essere una voce larga, un piccolo coro. Ognuno dice la sua, naturalmente. C’è sempre una grande confusione a casa. Ognuno dice almeno una cosa: quello che sono, che penso, che studio, che vedo. Uno scrittore è questo: uno che fiuta, pensa di capire un filo almeno della grande trama, e allora prova a vedere, poi guarda, infine scrive. Dunque comunica. Con che beneficio? Ogni volta uno diverso: informare, far porre domande, oppure emozionare, riconoscersi, sentire. Sentirsi.

Ecco. “Dove sono gli uomini?” è nato oggi. Non è ancora in libreria, ci sarà dal dieci gennaio. Ma c’è, fisicamente. E’ venuto alla luce, uscito dalle rotative. E’ nelle casse, finirà nei pacchi, verrà portato in tutta Italia, e anche altrove. Farà chilometri. Oppure percorrerà veloce le fibre ottiche, l’etere, si farà compresso e poi si dilaterà in qualche lettore di eBook. Coglierà il suo obiettivo? Qualcuno si emozionerà, saprà, inizierà a farsi domande, a tentare flebili risposte? Chissà

Io l’ho scritto dopo anni di interrogativi, di cose che non mi tornavano. E non l’ho scritto io: lo hanno scritto decine di donne tra i 30 e i 50 anni. Io ci ho messo solo cuore, testa e soprattutto penna. Donne single o in compagnia, non fa differenza, perché sono comunque rimaste sole. Sole nel dialogo, nell’azione, nel sesso, nell’emozione, nel progetto, nella quotidianità minuta con cui, forse, ci si accompagna davvero a qualcuno. Sole. Per la prima volta nella storia.

Non c’è mai stata una generazione di donne sole. E’ la prima. Come non c’è mai stata una generazione senza uomini. Le due cose sono collegate, ma come? Il nostro mondo, fatto dagli uomini decenni fa, decàde velocemente, inesorabilmente… Che sia anche per questo?

Per voi, in anteprima, un breve brano del libro. Il dieci gennaio. Ciao.

Un uomo colto che stimo molto, di poco più grande di me, mi ha confidato che per lui trovare un amico con cui passare una serata piacevole non è mai stato facile: «Per quasi due decenni ho sudato sette camicie ad avere amici maschi, e con profonde e memorabili delusioni. Quando penso: “Stasera berrei una birra con un amico parlando di tutto, dal calcio alle donne, dalla vita ai viaggi, dall’economia alla politica, e magari discuterei volentieri un progetto per l’anno in arrivo” vengo colto spesso da una grande tristezza. Mi rendo conto che per una serata così sarebbe meglio un’amica. Sarebbe certamente più divertente, avrei la sensazione di poter dire e ascoltare di tutto, magari riuscirei a buttare sul tavolo una buona idea, a programmare qualcosa che poi, con buona approssimazione, potrei realizzare, coinvolgendo altre persone. Una donna mi parlerebbe di sé e saprebbe riferire storie che altre le hanno raccontato. Potrebbe perfino trascorrere tutta la serata senza lamentarsi mai, o solo lo stretto necessario. Sarebbe quasi certamente informata sui libri appena usciti, avrebbe seguito qualche dibattito sui giornali, facendosene un’opinione personale.
Tra cena e dopocena potremmo avere momenti d’ironia e di serietà, alternando gli argomenti, riuscendo a divertirci e a  commuoverci. Ci saluteremmo grati e senza imbarazzi». Mi è parso, con qualche eccezione, di non potergli dare torto.

Ho chiesto a un’amica cosa ne pensasse di questa situazione. Mi ha guardato con gli occhi sgranati: «A noi lo dici?!». Pare che le donne di oggi tra i 30 e i 50 anni facciano sforzi sovrumani per trovare un normale interlocutore maschio, né genio né somaro, con cui avere un rapporto disinteressato e autentico, di qualsivoglia natura, senza dover fare necessariamente le mamme, le zie o le badanti. Tanto che molte hanno smesso di cercare. «Troppa fatica, troppo lavoro, troppa concorrenza, troppe delusioni.»
Una resa incondizionata.

Ma che succede? Dove sono gli uomini, fisicamente e metaforicamente? Soprattutto, che cosa fanno mentre un esercito di donne li cerca e non li trova? Perché le donne sono tutte in giro, in viaggio, da qualche parte, spesso tra di loro, intente a fare o progettare qualcosa, mentre gli uomini sembra che si siano nascosti e non rispondano alle invocazioni che giungono da ogni parte? Dove sono i protagonisti di sempre della scena sociale, quelli che sono sempre stati al centro della piazza, della spiaggia, del bar, delle storie? Perché sul palcoscenico ora sembra che ci siano soltanto donne?

Nel mio ruolo di osservatore attento e quasi maniacale della società mi pongo spesso domande impossibili. Servirebbero chissà quali strumenti sociologici e psicologici per capire, analizzare, confrontare, decodificare. Ma le domande sono lo scandaglio più democratico e popolare della realtà, e io me le pongo. Anche perché il fenomeno è macroscopico, talmente consolidato da costituire tra le donne argomento corrente, e lascia spazio a un’evidenza: parlare degli uomini, in questa nostra età del mutamento, è assai difficile. Per farlo, oggi più che mai, occorre parlare con le donne, ascoltare le loro storie, farsi raccontare
le loro avventure e disavventure, sfidando le leggi della riservatezza e i limiti della buona educazione e tentando di collegare fatti e circostanze che ogni donna considera isolati, e rispetto ai quali magari prova sentimenti di colpa, ma che invece sono profondamente collegati tra loro e inseriti in una dimensione collettiva. Ne emerge un affresco mai visto, a tratti orribile, profondamente diverso da quello che pensavamo di conoscere. Una «normalità anomala», diversa da qualunque quadro offerto dalla letteratura, dalla cronaca, dall’iconografia e dalle convinzioni. Ecco perché questo libro è fatto soprattutto di racconti. Per comporre il quadro complessivo occorre usare la tecnica del mosaico, posando le tessere le une accanto alle altre e prendendosi la responsabilità di lasciar emergere gradualmente immagini deprimenti, perfino agghiaccianti, capaci di coinvolgere autore e lettori nella visione d’insieme finale.

Nelle storie che racconterò, tutte autentiche (pure se con nomi e circostanze cambiate), raccolte direttamente da me o riportate dalle tante donne che hanno contribuito per anni alla mia ricerca, è possibile trovare qualche risposta e molti nuovi interrogativi. Storie, dati, ricerche, opinioni, tutto concorre a costruire un quadro molto diverso dal passato, e soprattutto a rilanciare una domanda: dove sono gli uomini?

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La felicità umana

Credo che molti conoscano già questo discorso. Lo ha pronunciato il Presidente dell’Uruguay Josè “Pepe” Mujica, e questa è la cosa che conta di più. Gli argomenti del suo discorso, che condivido integralmente, vengono dalle parole di un governante, il capo di un Paese intero. Un politico. Ecco come può (come deve) parlare un politico oggi. Il tema del suo discorso è come sia possibile tornare a occuparci della nostra felicità.

Ma ce qualcosa che ha ancor più valore, e che collego anche ad alcune discussioni recenti su queste pagine. “Pepe” ha 77 anni, ed è noto come “il Presidente più povero del mondo”. Vive in una casa modesta, devolve il 90% del suo stipendio in beneficenza, è un ex partigiano, ha trascorso in carcere 14 anni come oppositore del regime. E’ importante, dunque, quel che dice, perché non ho mai sentito un presidente nazionale esprimersi così. Ma le sue parole risuonano perché sono la conseguenza dei suoi comportamenti. “Pepe”, il Presidente dell’Uruguai Josè “Pepe” Mujica, vive in modo molto simile a quello che dice. L’azione lo nobilita, le parole spiegano l’azione. La sua testimonianza di uomo conta forse di più delle sue affermazioni. O comunque ex aequo.

Come credo tutti sappiano ho scritto e tento di vivere in linea, per quanto so e posso, con questo pensiero. Compromessi ce ne sono, naturalmente, alcuni irrisolvibili, altri in via di soluzione. Nell’ambito in cui può risuonare la mia voce, faccio il rumore che riesco intorno a questi argomenti. Un governante può farne molto, molto di più. Vi invito a guardare questo video fino alla fine. Il fatto che sia un Presidente a pronunciarlo, credo segni indelebilmente il passaggio a una nuova era.

Riparleremo di lui quando ci saranno le nostre elezioni, credo. Devo dire una cosa sulle nostre elezioni, da qualche tempo. Vedremo. Buon ascolto.

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Quello che sta dietro

nella sua casa-museo

Pietro è stato partigiano in Val di Vara. Dai suoi ricordi, dalle foto, abbiamo ricostruito che si è rifugiato nel fienile che ora è casa mia. Gli anziani me l’avevano raccontato che qui c’erano stati i partigiani. Mentre lavoravo alla ristrutturazione ho trovato anche una gamella con inciso sopra il nome di uno di loro, Cap. Magg. Morucci Mario, 22°Reggimento, 11^ Compagnia. Ho fatto una ricerca, non risulta tra i dispersi, grazie a Dio. Pare che siano fuggiti per un rastrellamento, portando via la mucca che avevano al piano di sotto. Più della metà di loro morirono quel giorno, forse dove io parcheggio la macchina, o dove vado per una passeggiata.

Pietro, però, è stato soprattutto un grande maestro d’ascia. Una vita a costruire barche. Ha lavorato a centinaia di esemplari, imbarcazioni e navi, poi a Ca’ di Mare a fare gli aerei, che tanto erano di legno e tra carlinga e ordinate non erano molto diversi da costruire. Poi navi ancora, fino a che ha potuto. Ha insegnato a stuoli di giovani, che naturalmente ora lavorano tutti. Se avessero fatto Scienze della Comunicazione sarebbero a spasso, probabilmente.

Con Corrado e Iole, ieri sera, siamo andati a trovarlo dopo cena, nella deliziosa insenatura delle Grazie. Canocchie e seppia di stagione ci avevano messo nella migliore disposizione d’animo.

il numero dei suoi strumenti è impressionante

 

Casa sua è un museo. Strumenti e attrezzi dei calafati, dei maestri d’opera, incastri, mazzuole, asce, trapani a mano. Li costruivano in base al lavoro che dovevano fare, all’uomo che li faceva, a quanto lunghe aveva le braccia. Ecco cos’erano i maestri d’ascia: gente che per fare un lavoro prima forgiava ferro e piegavano legno per costruirsi l’attrezzo adatto. Lui li ha tenuti tutti. Un’emozione vederli lì, insieme, in un’ordine supremo. Geometrie di un mondo dignitoso e intelligente.

Pietro ci ha raccontato tante cose, si è commosso ricordando la fuga da casa mia, o quando a guerra finita si sentì dire con ironia da un compaesano: “ti sei spaventato quella sera che siamo venuti a prenderti in letto, eh?!”. E lui lo aveva steso con un pugno allo stomaco. Dio come avrei voluto vedere quel momento!

Ci ha anche raccontato di un ragazzo un po’ svitato, una testa calda, renitente a qualunque disciplina, che era finito nella sua bottega. Lavorava come un matto, senza fermarsi mai. Al termine dell’apprendistato aveva fatto gli esami da Maestro d’Ascia, e i maestri esaminatori lo avevano bocciato. A volte chi si presenta male, preceduto dal suo carattere… Ma a Pietro non era andata giù. “Quel ragazzo era il migliore. Lui vedeva la linea tratteggiata…

La linea tratteggiata. Avete presente nei disegni tecnici di una barca, di una casa… La linea continua indica il profilo di ciò che vediamo, la sua forma esteriore, visibile davanti a noi. Quella tratteggiata ci mostra le forme di ciò che non vediamo, quelle di un’ordinata, di un madiero, di una costola sepolta nello scafo. “Quello che sta dietro,” mi ha detto Pietro con gli occhi acuti di chi percepisce la realtà vera, “regge quello che sta davanti”. Il ragazzo aveva fatto bene il suo incastro, la prova d’esame. “Era solida, costruita a regola d’arte. Ma quelli hanno guardato solo il davanti. Quello che conta, nelle barche, sta dietro”. E’ tutto il giorno che ci penso. “Quello che sta dietro regge quello che sta davanti”. Non solo nelle barche. Grazie Pietro.

 

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Ri-solversi

Il cantiere del pontile sul bosco

Sulle difficolta’. E’ da ieri che ci penso, dal messaggio lasciato da Red al mio ultimo brano “Settimane”. Citava il blog di un anziano velista nordico che parlava dei probllemi da risolvere, di come lui ne avesse tanti e della societa’ com’e’ strutturata oggi, che ci chiede di barattare la nostra liberta’ con la garanzia di averli tutti risolti. E’ un grande punto questo. Uno di quelli centrali.

Ci pensavo mentre costruivo il mio pontile nel bosco. Una scaletta, un molo e, in fondo, uno slargo. A picco sul bosco scosceso, invece che sul mare. Tutto di legno. Mi sono accorto, a un certo punto, che erano le tre di pomeriggio. Non avevo preso che due caffè’, verso le sette del mattino. Poi avevo lavorato otto ore senza interruzione, ma anche senza accorgermi del passaggio del tempo. Mi capita quando lavoro manualmente, quando costruisco qualcosa, che siano le mie sculture o una piccola opera per la casa. Anche quando lavoro a bordo va cosi’. E quando scrivo. In ognuno di questi casi sono concentrato, mi perdo nelle prospettive, nei tentativi. Il tempo scompare, come la fame, la sete, la stanchezza.

Anche quando ristrutturavo questa casa andava cosi’. Arrivavo il venerdi’ sera da Milano e in pochi istanti era domenica sera. Dovevo gia’ rientrare. How long is a minute?

“Datemi una vasca da fare a nuoto, una barca da condurre in burrasca, una montagna da scalare” esclamava Jack London nel suo slancio vitalista. Datele anche a me, come anche il freddo quando mi sveglio e fa quasi paura uscire dal letto, come la legna da spaccare quando devi accendere il camino, come la stufa da non usare se non quando e’ proprio necessario, perche’ il pellet costa, come i piatti da lavare a mano, come la casa da pulire perche’ non ho donne a servizio, come cucinare, come fare la spesa, come curare l’orto, come tappare la via d’acqua del tetto, come bordare le vele quando s’alza il Maestrale, come ormeggiare da solo, senza spazio per la manovra, in un porto sconosciuto… Datemi queste difficolta’, che non siano superiori ai miei mezzi, perche’ siano affrontabili con coraggio e determinazione. Datemele perche’ io possa tentare, sorridendo, ma con impeto e ottimismo. Datemele perche’ senza questo, senza piu’ muscoli e tentativi, senza ostacoli superati da guardare con soddisfazione, non saprei piu’ vivere. Datemeli e lasciatemi la liberta’. Non la baratto per quel po’ di fatica che risparmierei. Vale molto, molto di piu’. Ed e’ fatta di fatica buona.

Spunto molto importante, grazie Red.

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Settimana

La prua. Quello che guarda avanti. In una barca, in un certo senso, il futuro.

Programma della settimana: costruire la palizzata di contenimento sotto al muro a secco, prima che la prossima alluvione me lo faccia crollare. Finire il libro di mare che sto leggendo avidamente, poi iniziare “I Cosacchi” di Tolstoj, che sono anni che voglio leggerlo. Mentre parlo con la mia agente per capire cosa fare dei miei romanzi (cambiamenti nelle case editrici impongono riflessioni e programmi), continuo il breve periodo di pulizia della mente: serve spazio e freschezza per iniziare il grande viaggio del romanzo sui pirati del ‘500, che è un viaggio che durerà anni. Pulire a fondo la casa. Ragionare sul progetto di coabitazione e su quello del giro del Mediterraneo a vela in 5 anni che ho in mente da tempo. Tante cose.

Di questo programma di settimana, stimo che realizzerò all’incirca la metà delle cose previste. Sono diventato inefficiente, nella mia nuova vita. L’inefficienza (estemporaneità+occasionalità+lentezza+dettaglio+divagazione) mi guida spesso su particolari o grandi visioni, i due estremi del presente. Una cura, per quelli come me che sono sempre stati attenti in egual modo a efficienza ed efficacia (tempo+risultato). Ammetto che non la contrasto. Anzi, ne godo. L’inefficienza, che consegue all’otium, è balsamica.

Appunto: mandare a Bersani una nota sul Mediterraneo. Lo ha citato quasi in testa al suo discorso di celebrazione della vittoria alle primarie. Mi ha colpito che ne abbia parlato. Occorre (a me) che io gli dica alcune cose essenziali su questo punto. Se non è del tutto fuori di zucca è importante che gli si dicano alcune questioni essenziali. Se non ripartiamo dal Mediterraneo, dove ogni guerra, ogni crisi, ogni salto evolutivo è stato compiuto, lasciando perdere l’Europa per un po’, perdiamo l’ultimo treno ritardatario verso la nostra storia futura. Bel concetto “la storia futura”, devo ragionarci su.

Devo anche ragionare sulla comunicazione. I tanti attacchi e le critiche di questi giorni non possono essere bollate come voci di pazzi. Qualcosa che mi riguarda, forse, dentro, c’è. Senza essere proni, ma pure senza volare di presunzione, occorre riflettere e poi comportarsi. Fa parte di me questo. Da sempre. Non mi è mai sfuggito niente dell’essenziale. Non voglio che accada ora, mai. Se perdo tempo a pensarci, fa niente. Meglio che perdere  qualcosa che dovrei cogliere.

Una settimana senza incombenze inevitabili, senza più il programma tv, senza libri da consegnare. Buon tempo per pensare e fare. Avanti tutta. Saluti.

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