San Vittore

Post lungo, ragazzi. Ma è un decimo di quello che mi verrebbe da scrivere…

Carcere di San Vittore, Milano. Veduta aerea

Scena 1
“Fate sempre così voi. Arrivate qua e avete fretta di entrare…”
Il secondino dopo il primo cancello mi guarda. Non ce l’ha con me, ma dice “voi”. Io lo guardo con espressione vagamente interrogativa e infastidita. Lui mi dice: “ce l’hai un documento?”. Io “Sì”. E lui “Me lo vuoi dare o…”. Io sono sempre più evidentemente infastidito. Lui mi guarda di nuovo, non capisce. Comincio a respirare male.
Poco più in là mi perquisiscono. “Un po’ più indietro”. Faccio mezzo passo indietro anche se intorno abbiamo spazio e non capisco perché. “Aspetta là”. Aspetto là. C’è una bacheca, mi metto a leggere i manifestini e le comunicazioni. “Non si può leggere. E’ roba riservata”. Io lo guardo “Mica tanto, se è esposta su una bacheca…” “E’ riservata a noi”. Io non mi muovo. “Si metta più in là”. E’ passato a darmi del lei. Solo che “più in là c’è un metro e poi, sull’altro muro, un’altra bacheca. Io mi metto a leggere. “Neanche quella può leggere”. Dunque devo guardare per terra, oppure in alto. Decido di stare calmo. Anche se il respiro non va.

Scena 2
Lo stabile è buio, quasi non c’è luce naturale. Neon lividi su una struttura molto bella, quasi un’ex convento. Nella rotonda da dove partono i “Raggi”, una cupola affrescata d’azzurro e figure. Un telo anti-piccioni la occulta a mezz’altezza, non si vede bene. Ogni dieci metri un cancello con sbarre pesanti e un secondino che apre con una chiave enorme. Ne avevo viste di simili solo nei fumetti, o in qualche museo di castello. Io entro nel “Terzo Raggio”. Qui ci sono i “lavoranti”, che fanno opere di manutenzione, perfino retribuiti, anche se non si sa quanto. Sono liberi di girare. Sono privilegiati. Anche per questo ruotano ogni tre o sei mesi con gli altri detenuti. Penso alla manualità, che anche in carcere ti rende libero. Il respiro però è sempre più corto.
Salgo alla biblioteca. Due ragazzi, Iussim (credo) e Francesco (credo). 17.000 titoli, un bel po’ di editoria. Belle facce, occhi vivi, ascoltano. Uno dei due scrive. Parliamo un po’. Gli dico: “Quando scrivi sei libero. Se descrivi l’incontro tra lui e lei a Piazzale Aquileia, qui accanto, sei lì, non sei più qui”. Lui: “Non so com’è lì, però. Dopo un po’ che sei qui non ti ricordi più le cose di fuori. Non so come descriverle”. Per descrivere, dunque, serve ricordare. Ma il ricordo svanisce. “Qui è tutto così” fa un gesto per indicarmi intorno a sé “tutto uguale. C’è sempre gente intorno. Scrivere è difficilissimo. Un racconto si riesce. Un romanzo è impossibile”. Ha vinto già due concorsi letterari, con due racconti. “Hai mandato le tue cose a un editore?” “No”. Abbassa gli occhi. Lo esorto a proseguire, a crederci. “Se non gli mandi niente non sapranno mai di te”.

Scena 3
Sono una ventina. Seduti in una stanza rettangolare, lungo il muro. Due finestre piccole, molto in alto, a tre metri da terra, fanno filtrare un chiarore livido. Luce accesa alle 10 di mattina. Neon. Inizio con gli occhi bassi, non so dove guardare. Respiro male. Vorrei fumare. Devo parlargli di libertà. L’unica cosa che loro non hanno. Provo a spiegargli chi sono, cosa faccio, come vivo, che scelte, che storie, che libri. Si fanno molto attenti. Mi interrompono, chiedono, dicono la loro. Nessuna soggezione, anche se mi danno insistentemente del lei, nonostante io gli chieda di darci del tu. L’opposto delle guardie che mi hanno accolto. Non c’è aggressività in loro, non c’è arroganza. Nessuno ha la faccia di chi vorrebbe dire: “ma che ne sai te, tu non sai cosa viviamo noi”, che pure ci starebbe.
Mentre cerco di spiegargli che fuori da quelle mura c’è un esercito di persone che potrebbe scegliere e non lo fa, e che forse in quel momento non sta onorando la sua condizione di libertà, uno mi interrompe: “E’ così. E’ per mantenere il tenore di vita che la gente diventa schiava”. La frase che, fuori, molto spesso ho atteso invano. Un gesto d’assenso, una profonda comprensione. Quanti uomini non-detenuti mi hanno accusato dicendomi che non è vero, che non si può, che è tutto fuffa, che stavo mentendo…? Qui non me lo dice nessuno.
Parliamo dei loro paesini d’origine, dicono che è vero, che si può, che bisogna tornare a fare. Danno l’idea di voler far questo, appena usciranno. O sono io che lo spero. Chissà…
Uno mi chiede il mio numero di telefono: “Hai un contatto, così magari… fuori di qui…” Glielo do. Poi mi pento. Poi mi vergogno di essermi pentito.

Scena 4
Rilegatoria, piano interrato. Qui, per paradosso, una lunga fila di finestre invadono di sole un ambiente basso e stretto, che per converso sembra ampio e pieno di colori. Il sole cambia tutto. Due detenuti timidi e silenziosi mi mostrano i loro lavori, blocchi, agende, qualche oggetto di cartotecnica grazioso. Uno di loro, alto due metri, centoventi chili, testa rasata, occhio bendato, sta per uscire. “Vado al mercatino di via San Vittore. Abbiamo un banco, vendiamo le nostre cose. Appena arriva la scorta vado”. “Perché la scorta?” “Sono già uscito da solo, due volte. Però il magistrato vuole vedere, capire come mi comporto…”. Lo dice giustificando il magistrato, anche se poi non finisce la frase. Capisce anche lui che è un concetto poco comprensibile. Gli auguro buona uscita, lui mi stringe la mano e sorride. Abbassa l’unico occhio che ha, o che vedo.
Io devo andare via di qui. Mi tremano le gambe. Al cancello nessuno mi rivolge parola. Meglio così. Ho meno autocontrollo di quando sono entrato. Fuori c’è il sole. Cammino. Entro in un bar. Prendo un caffè. Sono di nuovo libero.

Non credevo. Invece ho avuto paura. Quelle sbarre, tutti quei secondini, la mancanza di luce. Le sbarre. Le sbarre. Non potrei mai fare il carcerato. A me la galera era sempre sembrato qualcosa di molto meno. Figuriamoci San Vittore. Non ho capito perché, ma le guardie mi sono sembrate peggio dei carcerati. Forse solo un’impressione. Non deve essere facile neanche per loro, anche se la differenza tra i due si dovrebbe vedere bene, e all’opposto.
I detenuti però mi ascoltavano con grande attenzione. Nessuno ha detto “sì vabbè, tu parli perché… tu dici perché….”. Hanno parlato del merito delle scelte. Delle cose. Meglio di molta gente che fuori ha dato per cattiva la fonte, me…, evitando accuratamente di parlare delle scelte. Ho parlato di libertà con delle persone che avevano voglia di farlo. Nessuno ha ceduto alla tentazione di commiserarsi. Mi hanno spiegato i problemi, in nove in una stanzetta da due, cibo che fa schifo, prezzi allo spaccio interno altissimi, detenzione in attesa di processo… Ma senza piagnucolare. Senza cercare la frase ad effetto per farsi compatire. Mi è venuto in mente chi, spesso, mi ha scritto “Ma se sei un operaio, come fai a cambiare vita…?!” Qui nessuno l’ha detto. Nessun carcerato ha detto quello che mi aspettavo dicessero sulla libertà che non hanno.

La prima cosa che ho pensato quando sono uscito: “io morirei…”. La seconda: “quando parlo di libertà, del tempo che abbiamo, sono troppo tenero. Bisogna dire molto di più, più piatto, senza sconti, senza condizionali. La libertà che abbiamo, in mezzo a un mucchio di parole che vestono soltanto paure, non la onoriamo abbastanza”.

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Chissenefrega

Montepaschi: il patto con Santander e Jp Morgan. E spunta la lettera segreta<br />

Un patto tra acquirente e venditore per truccare i conti e far salire il prezzo di una cosa in vendita. Niente di straordinario. Il business funziona così, anzi, funziona così il commercio, quasi sempre. Era così ad Aleppo, il grande suq, la porta delle spezie, era così a Venezia, tra mercanti giunti da lontano. Con una differenza: il vantaggio o la sòla dell’affare, se riusciva, ricadevano su venditore e acquirente, al massimo su un mediatore consapevole.

Invece, quando il patto non scritto è tra spagnoli e italiani per dividersi la «plusvalenza» di un affare (la vendita di Banca Antonveneta, ad esempio), di mezzo c’è un mucchio di gente. Gente ignara che da quell’impiccio avrà danni remoti, dovuti allo scricchiolio del sistema; danni diretti per il fallimento susseguente di una banca territoriale storica, MPS; danni dovuti a esuberi, licenziamenti, fornitori e consulenti segati via in un colpo, zac! Danni collaterali, come si direbbe in gergo bellico. Ecco la modernità.

Ma ciò che mi colpisce è un’altra cosa. Chi non ha mai lavorato in azienda mi segua con attenzione, gli altri basta che ricordino: immaginatevi, per mesi, un brivido che corre leggero lungo le schiene, qualcosa di impercettibile prima, poi più marcato; riunioni su riunioni, prima segrete, poi solo riservate; gente a passo svelto lungo i corridoi, felpata ma solerte; segretarie che non sanno, oppure sanno, che si guardano con occhio interrogativo da una parte all’altra della stanza; giovanotti incravattati, di primo pelo, che si emozionano come vergini di fronte al primo uomo per gli incarichi riservati che ricevono come fossero la chiamata di Dio; giorni, serate, notti, tabelle, incartamenti, email, tutto da distruggere o da occultare prima o poi; pochi che tramano, comprano azioni, vendono azioni, frodi, illeciti, insider trading, insider dealing, patti sottoscritti violati come se non esistessero; giornalisti conniventi informati, che dicono e non dicono, ma solo quando è il momento. Una marea di cazzate vissute come fossero vere, come fossero vivere, per mesi preziosi, per un mucchio di gente convinta di essere al centro della scena. Esseri perduti che danzano su nuvole di fumo.

Qualcuno di voi potrebbe confermare. Gli altri si limitino a immaginare cosa avviene, cosa c’è dietro questa specie di farsa contemporanea che è l’impresa, che è il business, dove il tempo della vita se ne va via a manciate, dove gente di intelligenza perfino brillante si emoziona perché si sente coinvolta in “cose grosse”, roba di potere, e guarda un suo collega, a cena, col sorrisetto di chi pensa: “eh, beato te che non capisci un cazzo… Se solo sapessi a cosa sto lavorando”, o, peggio, non sa trattenersi e glielo racconta, destando ammirazione e invidia in un esercito di altri omuncoli perduti, gente che darebbe tutto il tempo per tutto il lavoro invece che scambiare vita con qualunque altra ricchezza.

Dove sono gli uomini… Secondo un’indagine di Cosmopolitan USA (2008) intitolata The best places to meet a guy (i posti migliori per incontrare un uomo) di Heather Buono, Harper Reitkopf e Lily Salembier, emerge una mappa del tesoro ad uso esclusivamente femminile per rintracciare un uomo che da più parti viene dato per scomparso. Ebbene, uno dei tre luoghi a più alta concentrazione di uomini (insieme all’Apple Store e alla sala pesi delle palestre) sono le aziende presenti nella Top500 della classifica di «Fortune». Le aziende che contano, piene di gente che vorrebbe starci il più possibile, per contare di più, per fare più soldi, lavorare ad affari come quello di cedere una banca facendo un mucchio di grana. Non importa se generando danni collaterali. Tutto tranne che vivere. Della vita, degli altri, tutto sommato… chissenefrega.

 

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Tortelli e pontili

Qualcuno potrebbe pensare che le cose migliori accadute a me nell’ultima settimana siano state alcune interviste televisive, alcuni articoli su importanti giornali, la soddisfazione per osservare che il mio libro “Dove sono gli uomini” (Chiarelettere) sta suscitando dibattito e interesse. Fuochino…

Ciò che conta di più nella mia vita è scrivere, questo si sa. Lo so io, almeno, talmente bene da aver organizzato la mia vita per questo, soprattutto questo. Un nuovo libro è sfiato, conclusione, relazione, soddisfazione. Con un nuovo libro, il decimo ormai, si compie di una nuova tessera il mosaico che ho in mente (che intravedo…), e quando guardo alla piccola teca dei miei libri provo la soddisfazione (mista a timori, incertezze, speranze e paure) che prova il montanaro guardando a valle, da una cresta montuosa, seguendo il filo sottile del sentiero percorso, e poi a monte, verso la cima invisibile, ancora avvolta nella nebbia, ma lassù…
Figuriamoci dunque se io voglio smentire chi è convinto che l’evento di questa settimana sia stato la pubblicazione del mio ultimo libro…

Tuttavia, se parliamo di piacere viscerale, quello secco, nudo e crudo, quello che ti strizza bene bene di gusto la misera coratella terrestre… ecco, se parliamo di questo piacere, allora devo ammettere che due cose fatte in questa settimana mi hanno offerto il maggior picco di godimento: un pontile e i tortelloni.

pontile in legno di risulta

Il pontile è quello che vedete nella foto. L’ho pensato, immaginato a sbalzo sul bosco, ho trovato un amico compiacente (e complice) che mi ha rimediato il legno (grazie mille Max…), l’ho disegnato, modificato, poi piano piano messo in opera, ancora modificato, poi rifinito… e adesso c’è. Difficile trovare qualcosa di più inebriante che costruire un pontile, camminarci sopra una volta concluso, guardare intorno dicendo (neppure tra sé e sé…) “ehi, questo è il mio pontile!”. Il fascino dei terrazzamenti, degli spazi in piano, della conquista della terra scoscesa alla livella auricolare dell’uomo verticale, sempre in bilico, che gode degli slarghi e delle aree. Spazio che non c’era, costruito, sudato, e che adesso è lì. A che serve? A niente, naturalmente, se non a dimostrarti che siamo qui per disegnare il mondo, realizzarlo e poi sederci con le gambe a penzoloni, sognando.

E poi i tortelloni, o cappellacci, o ravioloni, o agnolotti, come volete chiamarli, ma ripieni di cinghiale fatto andare con una noce di burro e olio d’oliva equivalente, sedano carota e cipolla, sale magico, pepe, poi disossato, sminuzzato, regolato col fondo (per l’umidità) e infilato nella pasta all’uovo fatta in casa, bella liscia e porosa, elastica e turgida. La pasta fatta in casa mentre fuori diluvia, è scuro, e il camino crepita, dà una straordinaria soddisfazione. Ha una sua forma, una sua integrità, e quando cuoce la vedi bene che c’è, soda e docile, ben fatta. Condita a due sapori (burro e salvia e poi fondo di cottura del cinghiale) rende il cibo un’opera d’arte temporanea, destinata a scomparire all’apice della sua bellezza.

tortelloni al cinghiale

Due lavori manuali, dunque. Costo irrisorio. Pontile 75 euro, perché la legna viene dallo smobilizzo di un cantiere; tortelloni qualche centesimo tra uovo e farina, cinghiale cacciato da mio padre. Due lire due, anche meno di due, a riprova che il Buono non richiede Tanto, e il Tanto non genera necessariamente il Buono.

Da ragazzo mi chiedevo: “Sono un uomo di pensiero o d’azione?”. Quanto mi sono arrovellato su questa disputa adolescenziale, tutta letteraria, tutta intellettuale! La risposta era semplice, ma fuori dalla mia portata d’allora: sono entrambe le cose, il più possibile, il più intensamente possibile, il più spesso possibile. Ad ogni pensiero, per rimanere un essere umano, deve seguire una martellata, a ogni strofa un tiro di righello, a ogni virgola una vite, a ogni accento un rivetto. Costruire pensieri e costruire oggetti sono la croce e il taglio del cacciavite con cui regolare l’esistenza, e se i muscoli non fanno male, nessuna idea può sorgere pulita.

Siamo animali intellettuali, o uomini manuali. Se oggi, per caso (solo per fare un esempio…), avessimo usato solo la testa, non sarebbe stata una buona giornata. Come soltanto le nostre mani. Ricordo giorni (molti e sprecati) in cui non ho usato entrambi.

Ecco un passo sulla strada, soprattutto per noi uomini. Torniamo a usare le mani. E già che ci siamo, la testa.

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Non fatelo…

La Rochelle, sul porto, vicino al Joshua di Moitessier

Tre giorni di vita per “Dove sono gli uomini?”, un pargolo, un neonato appena. Eppure intorno a lui avvengono cose grosse, quelle che mi sarei aspettato, in minima parte, più avanti.
Discussioni forti, confronto duro tra persone, tra generi. Quando un libro appena uscito spacca l’opinione l’autore è felice, sente che ha colto un punto, che c’è qualcosa di cui discutere, su cui si agitano le emozioni. E invece no: io sono preoccupato

Mi ha colpito il messaggio di Fly33, su un forum. E’ apparso alle 7.30 del 10, il giorno dell’uscita del libro, a librerie ancora chiuse: “Non è vero, gli uomini ci sono. Sono le donne che non ci sono più, sono distratte, hanno perso la loro femminilità, non ti cagano. Da quando portano i pantaloni non si sa più cosa sono e cosa vogliono. Noi siamo sempre gli stessi, sono loro che sono cambiate”.
Senza aver letto il libro, senza ancora aver sondato di cosa si discuta, senza neppure aver seguito qualche dibattito…. Così, d’impulso: una difesa d’ufficio. Paura.

Nelle ore seguenti ne ho visti tanti di messaggi simili. “Sono tutto intorno a voi, donne, ma non li volete, o fate loro una radiografia e decidere che non fanno per voi perché: uno ha un molare scheggiato, l’altro ha un neo sul pisello, il terzo non ha il giusto colore degli occhi, il quarto non si fa la barba… and so on”. Oppure: “femminilità, classe, eleganza, raffinatezza, il corteggiamento, il portamento, la galanteria, il romanticismo, il pudore…. sono tutti aspetti che si sono persi… I pantaloni sono una bella metafora… la donna ha indossato i panni dell’uomo e l’uomo non sa cosa mettersi…. non può di certo mettersi la gonna! Io mi alzo in piedi e chiedo che le donne tornino a portare la gonna!”. Negare tutto, prima di ogni valutazione, o chiedere all’altro di cambiare lui.
Oppure l’ironia, lo scherzo. Uno scherzo nervoso, di chi la vuole mettere in barzelletta, purché non doverci riflettere, non doversi fermare a pensare, ammettendo qualcosa, confutando altro, stilando un meditato elenco di invocazioni. E poi gli arrabbiati. Commenti durissimi, che rivelano ferite profonde. Dolore che non viene da ieri o dall’anno scorso, ma da molto lontano…

Le donne invece leggono. Qualcuna mi ha scritto alle 10.00: aveva comprato e finito il libro. Pare che l’eBook fosse in vendita su Amazon già dalle 8.00. Lo commentava interessata, questo sì questo no, aveva un’opinione articolata, ci ragionava con me. Qualcuna ci si vedeva. Qualcuna si sofferma sulla lettura che faccio di “Cinquanta sfumature di grigio”. Altre mi raccontano la loro storia, come se potessi ancora inserirla nel libro. Tantissime mi dicono, di qualche capitolo: “è successo anche a me. E’ stato orribile…”.
Molta voglia di discutere, di comunicare. Di capire.

Non fate così, amici miei, uomini sconosciuti che siate. Non perdiamo l’ennesima occasione. E’ troppo tempo che dentro di noi c’è silenzio. E’ troppo tempo che sentiamo la pressione sul cuore, il peso del ruolo, che non ci sentiamo liberi. Qui non c’è da ammettere colpe, questo non è un processo, gli uomini non sono gli imputati. Questa è una riunione, dove si parla, si cerca di capire. Non perdiamo la chance di comprendere che ci manca coraggio e parola, che dobbiamo capire a parlare, invocare le nostre istanze frustrate, le nostre debolezze, che dobbiamo costruire un modello di uomo che ancora non c’è, ma che noi siamo già. Non siamo come gli eroi dei film, non abbiamo la loro durezza, la loro umiltà. E allora cosa siamo?

Quando si diventa qualcosa bisogna dargli un nome, altrimenti è come essere fantasmi: ci siamo ma nessuno ci vede. Ecco, noi, i fantasmi, gli uomini tra trenta e cinquanta di questa epoca in declino, che non abbiamo contestato, che non ci siamo capiti mentre cambiavamo, che non sappiamo neanche chiedere, perché per chiedere occorre avere una domanda, e noi abbiamo solo risposte a domande scadute… noi, cerchiamo di darci un nome, cerchiamo di tornare corporei, di tornare visibili.

Non facciamolo, non neghiamo l’evidenza, non tiriamoci fuori con un “no”. E’ troppo facile. Proviamo a leggere cosa ci dicono le donne, cosa raccontano. Oppure, anche senza il libro, facciamo delle domande alle donne che abbiamo accanto. Possono mentire tutte? Possono essersi sbagliate tutte? Perché mai, com’è possibile? Quello che vedono di noi non ci piace, forse, ma in questo momento della nostra storia è più vero di ciò che vediamo noi da dentro. E soprattutto, costruiamo qualcosa, proviamoci. L’uomo che era nostro padre, nostro nonno, noi non lo siamo più. Non lo siamo mai stati. Ma attenzione: forse nessuno ci sta chiedendo di esserlo.

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“Dove sono gli uomini?”. Esce oggi

 

“I diritti non si ricevono, si conquistano. Nessuno ha offerto alle donne pari opportunità, pari condizioni: hanno dovuto lottare per averle, e lottano ancora oggi, dopo decenni. Hanno dovuto spiegare la loro complessità fino a perdere il fiato e la voce.

Un cammino analogo attende gli uomini, che per primi devono ammettere la loro condizione di spaesamento, il loro bisogno di riscrivere un’identità troppo debole e confusa per funzionare e risultare attuale. Sono gli uomini a doversi analizzare come genere, a dover ammettere il fallimento o almeno l’inattualità del modello, a dover fare pace con la frustrazione professionale, a doversi concedere nuovi sogni e il coraggio per perseguirli.

Se gli uomini non si riconoscono nell’idea di mascolinità e umanità con cui vengono giudicati, lo dicano. Se patiscono le donne per come sono diventate o il lavoro che li imprigiona lo dicano, alzino la voce, elaborino una prospettiva diversa, più adatta ai loro corpi e alle loro anime. Nessuno lo farà per loro. Potranno rivendicare solo ciò che manifestano, ciò che spiegano.

Potranno esigere comprensione solo dopo aver parlato“.

“Le donne del movimento studentesco e femminista degli anni Sessanta e Settanta non sono fallite del tutto. Avranno pure perso la battaglia contro il capitalismo, l’edonismo, la mentalità borghese e consumistica contro cui lottavano, ma possono sempre guardare con dolcezza e compiacimento le proprie figlie, forse invidiarle per la libertà di cui godono, frutto delle loro battaglie, e sicuramente essere loro di aiuto per fronteggiare lo spaesamento tipico di ogni nuova epoca”.

(da “Dove sono gli uomini“, Chiarelettere)

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Buon vento a tutti

Due giorni fa, a Saint Malò, al tramonto, con la bassa marea

Dove finire l’anno. Dove iniziarlo. Importante. Anche se lo è meno di: dove stare per tutto il tempo, per tutto l’anno. L’abitudine di tutti noi (paradossale!) è di “voler stare…” ma di non starci. Perché Mario, Luca, Marina, Francesca… vorrebbero vivere al mare, o in collina, o sulla vetta di un monte… e non lo fanno? Perché vorrebbero vivere tutte le loro giornate con Andreina, Patrizia, Mirko e Gianpaolo… e invece vivono accanto a sconosciuti che neppure stimano? Perché vorrebbero passare il tempo occupandosi di fiori, legname, orti, filatelia, sport o chissà cos’altro, e invece spendono 335 giorni all’anno, per tutta la vita, vendendo prodotti finanziari, o merci scadenti in un supermercato o chissà cos’altro di così diverso dai loro interessi? L’unica risposta che non è credibile è: “perché devono, perché è l’unica cosa che hanno trovato”. E’ l’unica cosa che hanno cercato.

Delle due l’una, dunque: o non vogliono davvero quel che dicono, oppure non cercano davvero quel che vogliono.

Lo so, detta così è forte. Prendetela come una provocazione. Ma ragioniamoci, per favore. Ogni giorno buttato altrove, è come se non fosse mai stato. Almeno, da quell’altrove, ragioniamoci su.

Un mio breve video su questo argomento:

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