Domande non accessorie

 

Messolonghi, Grecia. 31 gradi. Sole pieno.

I miei giorni hanno preso il ritmo lento del mare greco. Sarà che di fronte, all’imbrunire, vedo il profilo di Itaca, isola abituata a scrutare l’orizzonte e alla pazienza delle attese.

A bordo c’è tanto da fare, ma come sempre quando si parla di barche, il lavoro è tanto fisico quanto d’interpretazione. Ci occupassimo della vita con la cura che mettiamo nella preparazione di una barca, saremmo molto oltre. Tuttavia, una metafora è una quota di realtà, e questo mi sembra già molto. Molto greco…

Mentre si naviga, soli nell’ampio bacino del golfo, l’azzurro intenso e il profilo dell’arcipelago stimolano  la nostra mente. Ieri lunga discussione a bordo intorno al Buddismo e al Cristianesimo, alla differenza tra religione e filosofia, tra culto e pratica. Molto interessante. La sera, invece, con troppo rum, abbiamo parlato animatamente di Ingroia e Saviano. La distanza dall’Italia non ci allontana da tutto. Solo, ci scegliamo gli argomenti come si fa in un menù.

Domani a caccia di pezzi per la barca. Poi spesa e lavori a bordo. Essere nel proprio, fare cose adeguate alla propria vita, non rende il lavoro meno faticoso: lo rende sensato. E’ l’insensatezza che affatica, alla fine: fare qualcosa, qualunque cosa, anche utile, che tuttavia non è adatta a noi. Abbiamo anche pensato di mettere sulla murata di Mediterranea una grande scritta: “Noi ci stiamo provando. Tu che fai?” Pro e contro. Immagino già i commenti di alcuni, il consenso di altri.

La domanda, comunque, non è né oziosa né inutilmente provocatoria o tanto meno accessoria. Interessante (per tutti noi) tentare una risposta. Magari adesso. Qui.

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Pato-logici

L'equilibrio, gran bella cosa. Che sia di una farfalla o il nostro, è sempre il motore della potenza della vita.

Pathos e Logos. Secondo i greci si spartivano l’anima: la sofferenza, l’emozione, “la pancia”; il controllo, la ragione, “la testa”. Il sopravvento di uno dei due era considerato squilibrio. Oggi invece no. Vedi il progresso, alle volte…

Osservo però, con un certo antico e reiterato stupore, che i due termini, e gli ambiti esistenziali cui si riferiscono, godono di buona e cattiva stampa. Se parli a qualcuno di istinto, emozione, azione d’impulso, slancio emotivo, scelte fatte di pancia, quello ti guarda, fa sì col mento, e un vago sorriso di approvazione gl’incorona il viso. E’ dalla tua, ti capisce, anche se il gesto fatto di pancia ha prodotto un errore, anche se dovrebbe dirtene quattro per quel che hai fatto.

Se parli di ragione, sforzo di programmare anche le questioni di vita, se cerchi di razionalizzare gli stati d’animo, analizzarli per capirli e disinnescarne le cause, se dimostri di scegliere con la testa, quello che hai davanti di solito ti interrompe: “questo è vero, ma in teoria!” oppure “ma non puoi, è troppo razionale, la vita è un’altra cosa!”

Nel paese del Papa, della metafisica, del romanticismo, in cui mai riuscirono a far breccia il miglior progressismo empirista e razionalista, in cui non abbiamo mai avuto un Voltaire, la ragione se la passa male da sempre. Che tu possa soffrire è cosa accettata, quasi doverosa, nessuno se ne scandalizzerà; ma che tu possa cercare d’illuminare le tenebre della vita, del tuo cuore, con l’ausilio di una luce intelligente, con il balsamo livellatore della ragione, questo è deplorevole, roba da cervellotici, del tutto fuori luogo, inutile.

Il Pathos è caldo, la ragione fredda. Verrebbe da farne un “tiepido” ma non sia mai. Se si deve eccedere, molto meglio farlo dal versante del primo, mai del secondo. I sentimenti hanno a che fare esclusivamente col Pathos, mai con il Logos. “Le cose migliori sono incomunicabili” “ciò che conta di più è invisibile agli occhi”, col risultato che siamo ciechi e muti. Molto affascinante…

La cosa più paradossale è che a fare questi discorsi siamo noi, che viviamo di convenienze, che non muoviamo un dito se non per qualche vantaggio, che temiamo d’impoverirci anche di fronte alla richiesta di una moneta da un mendicante, che per una pensione ben calcolata immoliamo una vita intera. Molto Logos e poco arrosto. Come nelle relazioni d’amore: o anaffettivi o pazzi, o impermeabili o sciolti, o sofferenti o soli. Innamorati tanto, tantissimo, ma anche consapevoli mai: “mica siamo marziani!”. Questo s’era capito.

Che per capire la vita (quella che sarebbe sempre “un’altra cosa” per i groopies del Pathos), i filosofi da Aristotele a Cartesio abbiano sempre applicato “il Metodo della conoscenza” affidato ad analisi e sintesi, poco importa. “ma quelli sono filosofi…!” (detto generalmente espirando, con sufficienza). Che per capire i recessi dell’animo umano nel 1900 sia nata una scienza, la psicologia, che come tutte le scienze scompone e ricompone, smonta e rimonta, cerca, analizza e sintetizza, importa ancor meno. “Strizzacervelli” li chiamano, infatti, non strizzacuori.

A nessuno piace il Logos, perché il pathos è gratis mentre il Logos si paga col lavoro. Tanto meno apprezzata è la sintesi tra di essi, che pure è il senso profondo del nostro essere animali razionali, la quale richiede prima lo sforzo del Logos e poi quello (durissimo) in cui si contemperano gli opposti. A nessuno, soprattutto, piace definirsi in cammino, per la via mancina del Pathos e per quella retta del Logos, in continua allerta nel tentativo di “essere duri, senza perdere la tenerezza” (però quanto ci piace citare Che Guevara!).

Per gli appassionati della statistica: gli aficionados del Pathos sono la stragrande maggioranza. Sconsiglierei dunque esortazioni collettive del tipo “beh, ma dai, che ci sia un po’ di pathos almeno!” Mi pare ce ne sia già troppo. Esempio: il sentimento imperante, quello della paura, è in carico al Pathos e fugge quando vede il Logos. Un po’ di equilibrio, non servirebbe? Troppo freddo anche l’equilibrio?

Chiudo ricordando che l’egemonia assoluta del Pathos porta a osannare i dittatori, assunti acriticamente some salvatori della Patria; induce nell’autodistruzione, quando rimane orfano del suo fratello raziocinante; spinge agli eccessi incontrollati e non all’ebbrezza scelta, che invece genera piacere: produce giocatori d’azzardo e manifestanti manipolabili; è terreno di coltura dell’ignoranza, della superstizione, della religione oppio dei popoli. Ma questo, come si sa, non è grave. Meglio soffrire per amore che capire perché soffriamo.

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ll cieco, la nebbia e il galeone di cenere

La nebbia si dirada e appare il Ponte di Verrazzano. Dopo 3.000 miglia, diciotto giorni, eravamo arrivati a Manhattan

 

Un mio amico ha da poco conosciuto una ragazza che l’ha preso allo stomaco, l’ha colpito. Lei però a tratti c’è, a tratti è evasiva, tra presenza e assenza. Lui non sa che fare. L’altro giorno le ha risposto male. Lei si è irrigidita. “Io voglio conoscerla, capirla, per constatare, vedere se questa storia deve andare avanti! Ma come faccio se lei c’è e non c’è?!”. “Ma tu la stai già conoscendo. Datti (e dalle) tempo. Ma nel frattempo vivi”.

Cerco di spiegare al mio amico che non è lei il problema, che tutto dipende da lui. Può fare due cose: prendere quello che c’è e godersi le sensazioni che ne nascono, osservandola, facendo cose belle che a lui, comunque, piace fare. Poi deciderà se le va a genio; oppure aspettarsi cose, pretenderle, volerle tanto da starci male se non arrivano. Nel primo caso è sereno, dentro, come persona. Nel secondo ha qualcosa che urge, che lo costringe a reagire. La differenza tra il bisogno e il desiderio.

Oltre tutto, questo comunica a lei due sensazioni diametralmente opposte: nel primo caso percepirà la sua serenità, sicurezza, non proverà onnipotenza né possibilità di influire troppo sul suo tempo, sui suoi stati d’animo e sulla sua vita; nel secondo, totale controllo, potere vero, tanto da avere lei le redini del rapporto e avere voglia di giocare col topo. Il che, nel primo caso, significa che si interesserà a lui, curiosa…, lo cercherà (se gli interessa); nel secondo perderà interesse e fuggirà.

Lei, dunque, non c’entra. Tendiamo sempre a dire “è perché lei ha fatto… ha detto…”. Ma non è quella ragazza il punto. “Niente di quello che viene da fuori ci può intossicare” scriveva Matteo, l’evangelista. Io sono ateo, ma quella frase è molto vera.

Ho ripensato a questo ieri, mentre facevo i bagagli. Mi imbarco per molti mesi, troppi. La primavera sta esplodendo, il Fienile dell’Anima è un paradiso. Vorrei restare qui, godermi la quiete, avere programmi più avanti, non adesso. Ma non ci sono riuscito. Il mio entusiasmo, la passione per il mare, il nuovo progetto di Mediterranea, mi hanno travolto. Il mio stato emotivo in perenne condizione entusiastica mi ha giocato un brutto tiro. Non sono stato in equilibrio. E ora ne pago il prezzo. Sarà bellissimo navigare, portare avanti il progetto, ma il prezzo è alto, forse troppo. E il problema è tutto dentro di me. Inutile prendersela con qualcuno. E’ deciso, a settembre mi organizzo bene, cambio vita.

Ieri sera guardavo in TV la gente che inveiva in Piazza Montecitorio. Mi sembrava una scena surreale. Tra quelle immagini, il mio amico innamorato e il mio disagio per la partenza mi è tornato in mente un passaggio di “Dove sono gli uomini?”, il mio ultimo libro, dove cerco di affrontare questo aspetto, che riguarda soprattutto gli uomini, maschi ed eterosessuali, tra 30 e 50 anni, di questa generazione.

Vivere di sé (che come diceva Epicuro “ha come premio la libertà”), consapevolmente, non è semplice. Ma è lì la rotta. E’ lì la soluzione. Il punto è dentro, mai fuori. Quando urliamo qualcosa non a noi stessi siamo come un cieco che scruta nella nebbia un galeone di cenere (Stojan Decu). Noi siamo i comandanti della nostra anima (N. Mandela), noi abbiamo la mano sulla barra del timone. Dimenticarlo fa brutti scherzi. In amore, nella politica… Nella vita.

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La barca e il topo (per non dire del mio amico)

Faamu-Sami che salpa

Un amico, una barca, un topo. Strane triangolazioni, oggi. Con un filo comune: il coraggio. Senza, non c’è niente nelle nostre vite. Piccolo cabotaggio anche passare da qui.

Mattina, ore 12.00: la barca che salpa, doppia il capo delle Grazie, i due fanali dell’entrata del golfo, prende la sua rotta verso sud est. Quante volte è uscita da quel capo, per poi tornare. Stavolta no. Dall’alto della collina ho fumato l’ultima sigaretta con lei. L’ho vista prendere il passo, so a quanti giri motore lo fa, ho immaginato la vibrazione sotto al timone, retaggio di una vecchia saldatura. Ho sentito cosa sarei stato per fare, sul ponte, per prepararmi a issare. La brezza da sud consigliava randa piena e fiocco appena dopo il Tino. Chissà se avrebbe retto l’angolo col vento. Ho scommesso di sì. Ci vuole coraggio per guardare salpare un pezzo di sé.

Prima, verso le 8.30, avevo sentito al telefono il mio caro amico F., il mio migliore amico. “devi ricominciare a vivere, godere dei tuoi giorni…” “Ci vorrebbe un po’ di coraggio…”. Certo, come sempre. Dove però?

E in serata, un topo: il protagonista di Ratatuille. Terza volta che vedo quel film, terza volta che mi commuovo nel finale. Io adoro il talento, non so resistere quando lo vedo. Ma del talento amo particolarmente il motore, le sue vele piene che pompano: il coraggio. Mai visto talento senza coraggio, come anche il contrario. Il topo che volle diventare chef, e quella frase finale del critico cattivo diventato buono: “stupiscimi!”. Di chi ha coraggio si finisce sempre col fidarsi. Più di quanto chi ha coraggio si fidi di sé.

Il foraggio del cuore. La capacità di sentire che si può, che quello che abbiamo in mente ci costerà caro, ma una possibilità c’è. La linea da superare, che al solo pensiero taglia i piedi come una lama, attraversata con la fiducia che non ne moriremo. Il coraggio, l’orizzonte “che il guardo esclude”, che visto da qui spaventa, ma che a mano a mano che andiamo avanti si chiarisce. L’orizzonte avrà bisogno di coraggio anche lui, vedendoci avanzare.

Coraggio: l’idea ferma e cocciuta di superare il limite, la convinzione che la palude può apparire insuperabile, ma non è vero: posso attraversarla se ci provo. Provarci, appunto. Con coraggio.

Il peso che prova F., le lacrime su quella collina, e poi il bistrot aperto dal topo-chef, carico di entusiasmo, gravido di gioia. Che giro del mondo passando per il pericardio! Paura e coraggio, sale e unguento per questa ferita aperta che chiamiamo impropriamente vita.

A un certo punto non l’ho vista più, pure sforzandomi. Nell’umidità in crescita del fronte depressionario in arrivo, l’ho persa. Scompara, via, finito tutto. Ho chiuso gli occhi, deglutito l’ultima lacrima amara, pensato all’amarezza di F., capendola un poco di più. Poi sono salito in macchina e sono partito verso casa. Di fronte a me solo le curve armoniose del futuro.

il puntino ormai invisibile in fondo alla scia di un mmotoscafo. Sullo sfondo Monte Marcello

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L’ultima pagina

L'ultima pagina del Diario di Bordo di Faamu-Sami (in samoano: "Colei che fa bruciare il mare")

Le Grazie, 16/04/2013

La storia finisce qui. Dal 14 luglio 2004 al 19 aprile 2013. Una storia fantastica, gli anni migliori. Una lunga, coraggiosa, irrefrenabile galoppata tra le onde, nel vento, nel sole. Faamu-Sami resterà sempre. La sua anima entusiasta, il suo albero alto e sottile, la sua malinconica precisione al timone, la sua irrequietezza alla boa. Nulla potrà mai essere dimenticato.

Con lei termina questo diario di bordo, fatto di dati e rimandi, cancellature, calligrafie, sgorbi, schizzi, obiettivi, descrizioni. Queste pagine sature di sale, testimoni di amicizie, amori, lacrime ed emozioni, restano a raccogliere il filo nero dell’inchiostro che ha raccontato questa storia. Un filo attorcigliato, arcuato, steso, che somiglia alla scia di Faamu-Sami, così come l’ha disegnata per oltre 30.000 miglia, come fosse un discorso carico di sussurri ed esclamazioni, confessioni e dichiarazioni, silenzi. Una trama, un intreccio, che tra pagine e onde si snoda simile alla vita, comprensibile solo a tratti, come la trama di un arazzo di cui non vedremo mai l’immagine al dritto.

Finisce qui, nel mezzo del diario di bordo, nel mezzo della rotta, della via.

Buon vento Faamu-Sami.

Simone Perotti

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Paura di che?

Nuvole in Val di Vara due anni fa

Paura. Ma paura di che? Sono giorni che mi imbatto nella paura. Uomini, soprattutto, ma non solo. Paura di dire, di non dire, di fare un gesto che venga preso per… o un passo che significhi che poi… Paura di non riuscire, di esserci, di mancare. Paura di parlare, paura che il silenzio voglia dire più di quello che non voglio dire. Paura di presentarsi, perfino di dire. Paura di portare, di ricevere, di conservare, di collezionare, di smaltire. Paura di perdere, di deludere, di contraddire. Paura di annusare, perché neppure il profumo della vita bisogna sentire.

Paura soprattutto di comunicare. Paura che ci voglia troppo tempo, che il tempo non basti, che ci voglia troppo poco, che sia facile. Paura che riesca quella forma di vita aggiuntiva che è ascoltare, comprendersi, scambiare. Paura che se ci riesco, poi, chissà cosa vorrebbe dire.

Paura di farcela, quella suprema, perché sarebbe la prova che prima ti sbagliavi, che tentare non era così strano, indicibile, fallimentare. Paura di tutto, perfino respirare. Paura di trattenere il fiato, perché poi come lo spieghi? “Ti stavi emozionando?” “Io?! No! Ho troppa paura…”

Ma cos’è tutta questa paura? Tutti ce l’hanno, sulla pelle, nelle palle, nel cuore. Perché paura? Di che cosa? Di morire? Ma la paura E’ morire, cento volte al giorno, cento giorni su cento, invece che soltanto una, alla fine, quando ormai non conta. Paura di vivere? Ma è la paura l’unica cosa che non fa vivere, l’unica cosa che fa paura. Senza paura, senza mai paura, la vita non migliora: resta quella merda in cui ti abbandonano, ti dimenticano, in cui dimenticare e abbandonare. Ma smette, almeno, di sembrare peggiore. Non serve renderla così, quello che è già basta.

Paura di essere menati? I lividi guariscono. Di essere soggetti (basta avverbi, basta complementi!)? Soggetti lo siamo comunque: io ho paura. Io, il soggetto. Paura di restare soli? Oh, c’è qualcuno? Ci siete? Ci si-e-te?! Siamo già soli, nessuna paura. Paura: quella spessa, che si taglia col filo, come la polenta. Quella che ci cammina accanto, senza fretta, sempre piena di idee, bella contenta.

Basta paura. Da oggi. Moriremo un giorno che non conosciamo, soffrendo, o d’un colpo, nel battito d’un ciglio. La vita è questo, non la scalinata verso il cielo che dicevano. Per questo istante tra nascere e andare, oggi, quasi a maggio, non serve alcuno specifico coraggio. Ma da qui, da ora a quell’allora, che nessuna riprovazione, giudizio, nessuna fine di rapporto, nessun saluto potrà modificare, possiamo farne a meno della paura. Soprattutto di quella di pensare.

Se si potesse sopravvivere o morire, allora avrei paura. Ma non si può. Morire una volta mi sembra già abbastanza. Fa già abbastanza male.

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Ecco perché…

 

Oggi il sole è sorto nitido e brillante, prima di immergersi sotto al plaid di nuvole umide del fronte caldo in arrivo. Le perturbazioni s’inseguono senza fine in questa primavera tropicale. Ma già da domani è previsto il ritorno del sereno. Guardo l’orto, con il cavolo nero del suo verde cobalto, la nuvola verde e bianca dei finocchi, i carciofi, il lattughino già alto. Uno scoiattolo salta di ramo in ramo, indaffarato e intento. In giornate così, nel silenzio assoluto dell’entroterra ligure, al mattino, mi capita di collegare tutto. Ho perfino la sensazione di capire…

Ieri sera mi sono addormentato seguendo il filo di un personaggio, dalla sua infanzia all’età della perduta innocenza. Dragut, o Thurgut, sta per venire alla luce. Preme dai recessi dell’animo, dove ha avuto anni per assumere fisionomia, carattere, senso. Capisco stamattina, con una chiarezza quasi dolorosa, quanti giorni di creatività, sogno e invenzione, ho perduto in passato. Proprio a quest’ora, tra le 7.00 e le 10.00 di ogni mattino, quando la mia mente vola, il mio cuore pompa emozioni, e quando invece correvo, fuori da ogni possibile corrispondenza naturale, già corto nel fiato e lungo nell’ansia. Non era solo peggiore, quella vita. Non era solo una vita insensata, non mia. Era troppo poco per un animo vivo, per l’invenzione di ogni uomo che tenti di salvarsi con l’arte. Dunque per ogni uomo.

Al mattino, come poco fa, mi capita spesso di consultare le carte nautiche, seguire col dito il profilo della costa greca e albanese, del Montenegro, dove andrò navigando tra pochi giorni e per tutta l’estate. Da anni ormai, riesco a immaginare la baia migliore, scopro dove darò fondo all’àncora. Potrei segnarmi oggi il punto nave esatto dove la barca si fermerà, brandeggiando lieve in una notte d’estate. Una carta nautica è un libro, una storia, un manuale di filosofia. Non serve essere già stato in un luogo per saperlo vedere. Sulla carta ci sono dati, il resto lo sai perché hai imparato a guardare l’inguardabile, a capire l’inconcepibile. Non è forse questa la dote principale di un marinaio? Le carte, dunque, hanno molto a che fare coi sogni. Appunto questo pensiero a margine, nel blu disegnato del mare, mentre bevo il secondo caffè.

Mi chiedo cosa fossi prima dell’armonia mattutina. Mi chiedo come fosse possibile vivere senza iniziare ogni giorno pensando al protagonista di un romanzo, sognando su una carta nautica, e sapendo, soprattutto, che quella costa e quell’uomo io li vedrò. Costituiranno la mia principale occupazione. La materia di cui sono fatti è la mia. Ogni molecola del loro corpo, del loro profilo roccioso, albergava un tempo in un sogno. Dunque era parte di me. Da qui, oggi, sembra impossibile vivere facendo altro. Come ho fatto a restare in vita senza questo, senza queste mattine, come in questi anni? Come ho fatto ad esistere, a sembrare un essere umano, senza sentire e fare ciò per cui sono venuto al mondo?

Nulla prima di questo. Nulla che possa somigliare alla vita, senza tutto questo. Ogni pensiero politico, economico, professionale, di relazione prima di ora, prima di qui, è solo inutile gioco, passatempo effimero. Droga per evitare la solitudine e il pensiero. Paura dell’oblio, di ritrovarsi isolati, in una cucina illuminata, in un qualunque giovedì di aprile, a vivere. Ecco perché non serve. Ecco perché non migliora nulla del mondo. Ecco perché…

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