Non voglio aspettare domani

Immagini da un viaggio...

Onda di risacca sul Marina di Preveza. Onda nera, nel vento che sfiata umido, scuro, sui moli assurdi di questo angolo di Mediterraneo. Onda che smuove, che chiama, che stira. Che cosa pensa un marinaio quando arriva all’approdo? Chi lo sa… 

Il viaggio. Trovarsi altrove, in luoghi insensati, mossi dal rimbalzo del moto, al termine e all’inizio. Di cosa? Di niente, o del viaggio stesso. Del movimento. Per andare dove? In nessun luogo. Deve essere bello questo luogo nessuno, se così tanto bramiamo d’andarci. Qualcuno potrebbe obiettare, naturalmente. Ma si tratta solo di chi il viaggio non lo sta facendo. 

Ed eccoci qui. Il “nessun luogo” è questo. Quattro cime a terra per trattenerci nel nulla. Un nulla sapido di salmastro, carico di indefinito e gioia. Come oggi, nella passe tra Lefkada e il resto del mondo, con la barca degli spagnoli sugli scogli che lanciava il Pan Pan e ci faceva segno di stare al largo. Oppure poco dopo, nelle onde sopravvento, con un fazzoletto di fiocco bastante per tutto. O nel canale d’entrata, tra le briccole appena accennate. “Cos’è questo?” si chiede il marinaio, ma resta sempre muto. L’ignoto, o qualcosa che gli somiglia. 

Siamo qui perché non sappiamo. In questa nostra epoca, tutto quello che conosciamo è privo di fascino, e sempre più spesso di senso. Meglio non sapere. Non conoscere la meta, non avere sentore dell’approdo. Domani? Un’idea che potrei cambiare. Poco? Fin troppo per vivere. Non voglio sapere tutto, e non voglio aspettare domani. Ecco cosa c’è qui. Meno so e meglio vivo. Non ho che mete accennate, strategie sul vento, sulle secche. Qui, nel mare, ogni ragionamento eccessivo va sbarcato. La barca è un oggetto semplice, come chi ci naviga. Qualcosa sembra già abbastanza. Se quelli che parlano per parlare lo sapessero. Se fossero qui mentre la barca rolla e beccheggia… perderebbero la parola. E non vi sto invitando a bordo, che sia chiaro. 

Abbandonare l’approdo conosciuto. Cime che diventano lente, scorrono, staccano la loro ombra dal molo. C’è solo questo. Il resto è il rumore necessario per evitare, ritardare, eludere. Il resto fa ridere. Siamo qui per sbaglio, devo dirvelo? Ma da questo momento in avanti c’è tutto. Da fare. Da dire. Da godere. Per ogni altro senso, per ogni altro significato, rivolgersi al call-center. Qui nel Mediterraneo le cose che contano le sappiamo. Del resto non ci interessa. Vogliamo morire morti, e vivere vivi. 

E poi la gente (perché è la gente che fa la Storia). Che meraviglia… Si lasciano andare, qui. Torneranno duri in volto, ma non a bordo, non ancora. Vorremmo avere sempre gente così. Speriamo di saper attirare, aggregare, solo gente viva. Per deperire quanto basta vivendo, serve gente viva. E il mare: il luogo, la condizione d’incontro tra uomini vivi e uomini morti (Platone). 

Buona notte a tutti. Spero che di domani sappiate poco. Il meno possibile. Chi sa troppo è destinato a precedere il suo destino. E noi, perdio, vogliamo arrivare sempre dopo la fine.

 

Share Button

Allora cosa?

Vathi, Itaca. All'alba

Vathi, Itaca (GR), 56° giorno a bordo

Sul blog impazzano provocazioni, nervosismi; dall’Italia arrivano rarefatte informazioni d’angoscia; il mondo prosegue imperterrito la sua rotta suicida… 

Rifletto, dal particolare al generale, su questa corta catena di pensieri mentre il sole sorge, alle 6,45, e io sorseggio un caffè al bar del porto. Mediterranea è lì, all’àncora nella baia, immobile. Io ho appena portato a terra R., simpatica e giovane ingegnere siciliana, con cui ci siamo punzecchiati ironicamente per giorni e che poco fa, sul tender, mi è parso fosse commossa. 

Che settimana questa… Quanta bella gente, quante chiacchiere sapide, quanta sintonia. Dovrei essere soddisfatto, felice di come ho fatto il mio lavoro a bordo, di quanto ho dato loro, e del grande ritorno umano, culturale, profondo e vero che ho avuto in cambio.
Allora, perché nel sole che nasce, metto in fila pezzi neri sulla folle scacchiera?

Non lo so. Ammetto che non so capire… Nel mondo ogni orrore prosegue: Brasile, Turchia, Siria, sfruttamento, distruzione delle risorse… l’odiosa tirannia del denaro e del potere. In India si temono oltre 1000 morti per i monsoni, sempre più distruttivi e deflagranti. In Italia si moltiplicano gli episodi di degrado, la politica è sempre meno efficace, Grillo duetta con D’Alema… 

E noi cosa facciamo? Come, oggi, adesso, possiamo virare di bordo? La mia via, valida per me, utile come testimonianza per molti, e cioè vivere con poco denaro, il meno possibile, guadagnare solo il necessario e solo in modi amati, sensati, abitare in luoghi diversi, muoversi diversamente, autoprodurre quel che si sa, essere in diversa relazione con gli altri, sfuggire all’angosciosa marcia funebre quotidiana del solo lavorare-produrre-distruggere… genera tanti consensi e tante perplessità. Tanto nervosismo, soprattutto, almeno così sembra. Perché?

Se questo non va, allora cosa? Come? Che fare concretamente? Ma intendo qui, adesso, subito, non tra cent’anni. Non tanto per dire. E non vale chiedere di ripetere la domanda solo per prendere tempo. Che cosa fare, se non questo (ma non a parole, non solo bites su video, sotto mentite spoglie, intendo invece apertamente, riferendo solo cose fatte realmente, probanti e utili a testimoniare)? Quali alternative ci sono al cambiamento rapido, il più radicale possibile (ognuno sa quanto e come per sé), della nostra vita? Come non tentare di renderla più armoniosa, più adatta al nostro metabolismo interiore, in modo che se il mondo deve impazzire almeno non saremo noi a favorirlo ulteriormente nel suicidio, che non siamo noi a dargli il contributo finale, e se deve cambiare che sia anche con la mia, nostra, singola testimonianza che lo fa. Che ce ne faremo di una pensione quando tutto sarà perduto, quando avremo sprecato il tempo buono, quello dell’azione vera? Come ci ringrazierà il pianeta, il Paese, per queste nostre titubanze, questo lassismo immarcescibile? Come faremo i conti con noi stessi?

Forse sono queste domande a turbarmi. Da qui, dalla baia di Vathi, nella luce che sale, sembra tutto più semplice. Tutto più possibile e vicino.

Share Button

Fuori

I miei libri hanno una funzione sociale, sono utili. Ecco uno dei loro tanti, possibili impieghi sperimentato su Mediterranea

Quando c’è qualcosa di grosso nell’aria, la dinamica della comunicazione (qui, come altrove) finisce con l’essere sempre la stessa: prendere un filo del discorso e stressarlo per vedere dov’è il suo punto di rottura. Si chiama gioco a rompere, ovvero il tentativo di inceppare un ragionamento che, se funzionasse, se non avesse bachi grossi, potrebbe chiamarci all’azione, a cambiare la nostra vita. Che è una cosa molto faticosa, con un premio altissimo, che implica coraggio, fatica, energia, tenacia.

Faccio tre esempi, ma potrei farne mille.

1) LAVORO: ma cos’è veramente smettere di lavorare? E’ possibile farlo del tutto? Chi può e chi non può? Alla fine la verità è che non si può DAVVERO SMETTERE. Dunque smettere di lavorare è impossibile;

2) LIBERTA’: ma chi è davvero ibero, ma si può essere davvero liberi? Nessuno è mai davvero libero, la vera libertà non esiste;

3) SISTEMA: si può essere fuori dal Sistema, fuori dalle sue regole e logiche? In fondo siamo comunque tutti dentro, anche se ne siamo ai margini, no?! Ecco: nessuno può davvero essere fuori dal Sistema, chi ci prova in realtà lo sfrutta. E via così…

Morale: non si può smettere di lavorare, la vera e totale libertà non esiste, dire che si può uscire dal sistema è una chimera.

“Meno male!”, circolava la tragica notizia che ci fosse qualche speranza, che ci fosse da faticare, farsi un mazzo tanto e poter vivere meglio. Noi, tutti noi salvo rarissime eccezioni, siamo terrorizzati dall’ipotesi che ci sia molto da fare per poi poter vivere meglio, e ancor più che a fare dovremmo essere noi, proprio noi come individui. L’ideale è: stare tutti maluccio, nessuno escluso, e che sia colpa d’altri, non nostra, ma soprattutto che non ci sia nessuna possibilità di cambiare le cose nostre e altrui e trovare qualche buon elemento per smontare chi ci prova con le definizioni, i sillogismi, le controdeduzioni.

Qualcuno mi ha chiesto cos’è ESSERE NEL SISTEMA. Ecco, è ragionare così. Cercare tutti i motivi (logici, culturali, pratici…) per NON agire, adesso, sotto la nostra responsabilità individuale, e dunque NON FARE TUTTO QUELLO CHE POSSO (Adesso!) per essere fuori dalle logiche omologate, per essere il più libero possibile, il meno assoggettato possibile alle regole del lavoro-guadagno-consumo-spreco-inquino. Essere FUORI DEL SISTEMA è l’opposto: inceppare il meccanismo con la volontà, con l’immaginazione e l’azione, dire NO dove ci si aspetta che diciamo SI’. Fare altro, che nessuno si aspetta da noi. E’ industriarsi in ogni modo possibile, sfuggire alla disperazione del “non si può”, alla miseria delle dimostrazioni capziose per sostenere che chi ci sta provando bara, o almeno mente. E’ sentirsi un testimone che se fa e poi dice quel che ha fatto, FA POLITICA. Quella vera: 1 uomo=1 movimento.

Gino Strada nell’intervista che gli feci per Un’Altra Vita (RAI5) diede un saggio del pensiero opposto a questo: “La gente mi dice che sono pazzo, che è impossibile curare tutte le vittime delle guerre, ma io rispondo: cominciamo a curarne uno, questo qui, poi un’altro, poi un’altro ancora. Oppure mi dicono: è impossibile che sulla terra non ci siano le guerre, ma io dico: cominciamo a non fare questa di guerra, poi anche quell’altra accanto…”

Quando ho migliaia di chilometri da fare, che posso davvero fare verso una meta, devo farli. Se non voglio farli, se quel viaggio mi spaventa, cercherò certamente di stabilire, prima di muovermi, che la meta è irraggiungibile, e che dunque non vale la pena partire. Io invece, su questi argomenti, la penso come Gino Strada: dato che ho tantissimo da fare per tentare la via della libertà, dell’uscita dal sistema, del rifiuto del lavoro-capestro com’è configurato oggi, del rifiuto delle logiche del consumo così come mi vengono imposte, cambiando mobilità, inventandomi strumenti per vivere diversamente casa, riscaldamento, cibo, tempo libero, relazioni… inizio il prima possibile e faccio tutta la mia parte, che è enorme e che durerà una vita intera, avendo risultati straordinari. Se non la faccio, se non copro la distanza che mi è consentita, non ho neppure diritto di lamentarmi. 

In questo modo rispondo anche a una domanda che nessuno mi fa (le domande più interessanti non me le fa mai nessuno, mannaggia… Avrei un mucchio di cose da dire!), e che invece io mi faccio quotidianamente: dato che sono venuto al mondo senza volerlo, che non ho ricevuto in dote un manuale d’istruzione, che per di più tra relativamente poco tempo morirò: cosa posso fare nel frattempo, come posso dare senso e dignità alla mia vita, come posso cercare di contribuire, per conseguenza, alla vita del mondo intorno a me attraverso una testimonianza? Alla sola ipotesi di passare il tempo che mi è dato lamentandomi e non tentando, cercando di smontare il lavoro di chi ci prova, mi sentirei morire…

Share Button

Tutto ma non liberi. E’ indecente

Tanto per fare un po' di pubblicità ai bravissimi ragazzi di Linosa

Questo è business”. Hanno avuto il coraggio di scrivermi questo su internet. Io raccontavo che sono in mare, quello che faccio, come sto, e che è possibile raggiungermi. Che tristezza

Che tristezza dire a me che faccio business, io che se va bene dalla vela porto a casa 5000 euro in un anno facendomi un mazzo tanto (e divertendomi altrettanto). Che tristezza questa Italia immobile e moralista, criticona e polemica. Che tristezza questa facilità di dire, accusare, attaccare, senza sapere, senza neppure farsi una domanda. Che tristezza chi non legge, non sa, non s’informa e spara ad alzo zero su chiunque tenti qualcosa, provi a salvare almeno la propria vita dall’immensa palude dell’epoca e del Paese. Che tristezza non verificare che in mare tutto costa quasi il doppio, e io per stare bene con me stesso, per far stare bene gli altri, decido di ospitare la gente a bordo guadagnando meno del dovuto. Che tristezza non sapere che la barca su cui lavoro si è pagata col lavoro stesso, mese per mese, euro su euro, facendo tutto da solo o insieme ai miei amici, finché possiamo, finché sappiamo, finché ci proviamo. Che tristezza vivere in modo così simbolico, che se di mezzo c’è una barca diventiamo tutti Briatore. Che tristezza internet, così gravida d’ipocriti protetti dal nickname, fancazzisti senza qualità, che hanno anche il coraggio di parlare di libertà e democrazia della Rete…

Emaciati, pallidi, tristi, insani, al limite con la sussistenza, così dobbiamo essere? Beh scordatevelo. Tollerate qualunque cosa, ma non che si tenti di vivere liberi, vero?! Questo suona come indecente in questa epoca, non è così?! Mai dire che stai bene, mai dire che provi a vivere, mai dire che stasera hai goduto del sole che tramonta, di un buon bicchiere, di un cibo preparato bene. Che tu ci provi e fallisca, al contrario, sta bene a tutti. Anzi, è prezioso! Che tu ci provi e riesca, invece, genera ondine di fetido risentimento. “Stai barando, certamente. Nessuno può!”. Schiavi tanto da non saper immaginare, da non saper neppure sorridere se qualcuno corre via nel campo di grano, si allontana dalla prigione, fugge inseguito dai cani. Neppure il tifo sapete fare, sperate che i cani gli addentino le caviglie! Quel fuggitivo non sei tu?! Non è la tua speranza?! Se non ti vedi, se non ti riconosci in quella schiena fustigata che suda correndo, sei già morto. Non ci avevi mai pensato?

Eccola la nostra cultura, invidiosa, malevola, maliziosa, che augura a tutti il naufragio mentre affoga, che spera nella caduta, che sogna che nessuno possa, se noi non possiamo. Che nessuno tenti se noi non ci proviamo. Ma che razza di morti viventi siete?!

Cara classe media del pensiero comune, cara gente senza alcuna immaginazione, che non credete mai a niente, ossessionati dalle truffe e dal marciume, che giudicate falso ciò che voi vivete falsamente, che spendete su un monitor tutte le vostre poche energie attaccando tutto e tutti… fatevi un bel giro, una bella passeggiata. Ossigenatevi, date fiato ai pensieri. Elaborate prima di morire qualcosa che sia vostro, un’idea anche minima, ma che possiate realizzare. Impegnatevi a fare, non guardate da questa parte, lasciatevi in pace. E lasciate in pace anche me. Siete il peggio del Paese, ve lo dico con franchezza. Siete voi che consentite all’enorme Leviatano di stare in piedi, di schiacciarci. Fino a che potrete sfogare rabbia e frustrazione nell’immensa cloaca a cielo aperto della Rete avrete il vostro pane e il vostro circo, messo su ad arte dal Sistema per far fischiare la valvola della vostra parossistica pressione. Voi da cui non c’è niente da temere, che non farete mai niente di eversivo, che non tenterete mai una via vostra, che non avete il coraggio dell’accusa vera, quella che si fa agendo. Dobbiamo a voi, alla vostra immobilità, ai vostri sospetti, ogni disagio, ogni degrado, ogni potere che ci opprime. Uomini-mai-stati-liberi, che non tollerate alcun vagito di libertà, smettete di cercare il baco, la nota stonata, sono anni che ci provate, anni che vi rispondo punto su punto. Che vi è successo in questi anni, come siete vissuti? Io così, come sapete…

E non chiamatela critica, almeno, non fate quest’ennesima figura da mistificatori. La critica è una sofisticata arte della comprensione. La fa chi ha studiato, chi ha tentato, chi riesce a misurare su di sé mentre fa, perché su-di-se-mentre-non-fa non serve a niente, e toglie diritto di parola. Fa solo rumore. Fa il gioco del nemico.

Su internet resta tutto, grazie al cielo. Tra qualche tempo rileggeremo ogni affermazione, ogni “pensiero”. Vedremo chi c’è ancora, cosa fa, com’è andata. Vedremo chi mentiva. Vedremo chi c’è ancora e che senso avevano le sue parole. Quel giorno io spero solo di non dovermi vergognare, spero di constatare che dicevo quello che facevo, quello che ero. Per alcuni sarà un brusco risveglio. Non vorrò essere nei loro panni, ma nei miei. Come oggi.

 

Share Button

Se e quando…

il colore del mare...

Zacinto, 44° giorno a bordo 

Cambi di equipaggio, sempre più emotivamente difficili da sostenere. A bordo si condivide, si comunica. Poi una nave strappa i fili, un aereo fa volare via tutto. Chi resta guarda i pachidermi farsi un puntino all’orizzonte, scomparire. “Mi mancherai…”. Meglio così, tanti fili che poi si spezzano… o meglio sarebbero pochi che reggono per sempre? E chi lo sa. Le domande della sera. Intanto si fa finta di salvarsi con la manutenzione della barca. Le mani aiutano sempre il cuore.  

Continuo con le parole del Mediterraneo: Ormeggio (da Ormos, seno, baia, golfo, luogo dove dare àncora), Sortilegio, Olio, Vino, Costa, Danza, Costume, Ombra, Porpora. Passione, Avventura. Dignità… A questa ho pensato ieri, osservando un ragazzo, credo sui trent’anni, trentacinque al massimo, vestito da pirata (caraibico, tra l’altro) che accoglieva i turisti su un barcone orrendo, addobbato come una specie di “Perla Nera” di Jack Sparrow. Li salutava, sorrideva, faceva la faccia truce del bucaniere. Foto ricordo. Cosa non si deve fare per campare. E tuttavia, lo faceva con orgoglio. Si può fare il finto pirata con impegno? Dignità, appunto…  

Ho l’impressione che in Europa stia accadendo qualcosa in queste settimane. Sento echi di disordini in Turchia, fatti di cronaca in Italia. Chi viene a bordo mi racconta. Io cerco di lavorare dentro, mi informo sempre meno. E’ “dentro” che si cambia. Se stessi e anche il mondo. “Fuori” si assiste soltanto a cambiamenti originati altrove, da altri. Si “re-agisce” invece che agire. E il mondo resta lo stesso, anzi peggiora grazie a noi.  

Capisco che c’è tensione anche perché sulla Rete sono ripresi gli attacchi rivolti a me. I soliti argomenti di sempre, solo meglio camuffati, per dirmi che sono un privilegiato, che solo io posso cambiare, che nessun altro può. Ora invocano malattie incurabili, tare ereditarie, fallimenti finanziari insanabili. Vedo ricrescere rabbia e livore, segnali ben chiari dell’angoscia, del desiderio di fuggire, di dire basta. Capisco tutti, sono solidale con ogni fatica, ogni bisogno di darmi addosso. Ma hanno torto, su questo sono sereno. Ieri 4 ore a scartavetrare, ecco il mio privilegio.

Intanto abbiamo concluso la settimana tra Oxia, Kastos, Itaca, Cefalonia. Gran bell’arcipelago. Il vento nel canale, Mediterranea che filava via. Ieri mi ha chiamato il Maestro: “Beh, diamo qualche punto nave, però!” Ha ragione, siamo spariti nell’azzurro. Ci raggiungerà con il suo prode Ronzinante, sloop nordico ben tirato a lucido. Navigheremo insieme per un tratto di via. E’ normale tra gente di mare: diversissima, ma che in qualche modo si somiglia. Un’altra parola, dunque, è certamente Incontro. I tanti fili, tesi e saldi. Fino a che non si spezzano. Se e quando

Share Button

Sere in mare

Itaca. Baia a nord, lato sinistro entrando

Le sere da marinaio in cui hai un’inquietudine dentro, senza sapere perche’, solo che ha a che fare con te, non col mare. Quelle in cui speri che sia finita, ma sai che vorrai imbarcarti ancora. Presto. Quelle in cui sei felice e lanci un pensiero distratto a due giorni fa, quando eri inquieto. Quelle in cui vorresti essere in porto, non sul mare nero. Quelle in cui vorresti salpare, ora, adesso, e infatti lo fai. Quelle in cui ti manca qualcuno, chiunque ci sia. Quelle in cui c’e’ tutto, anche se manca qualcosa. Quelle in cui il Mediterraneo e’ la mamma. Quelle in cui sei orfano, senza nessuna requie per l’anima. Quelle in cui il Mediterraneo e’ padre. Quelle in cui sei orfano, ed e’ un bene. Quelle in cui arrivano gli amici, e corri loro incontro su un molo. Quelle in cui sei senza amici, e ringrazi Dio. Quelle in cui gli amici te li fai su un pontile, e sono amici veri, almeno fino a che non ripartirete. Quelle in cui c’e’ vento. Quelle in cui finalmente dormi tranquillo. Quelle in cui non ne puoi piu’ di stare tranquillo. Quelle in cui capisci che tranquillo non sarai mai piu’, non dopo quello che ti e’ successo. Quelle in cui ti perdi negli angiporti, in una bettola che ti nasconde al mondo. Quelle in cui ti perdono, e ti salvi. Quelle in cui ti ritrovano. Quelle in cui a farti compagnia e’ la luna. Quelle senza stelle. Quelle con una stella sola. Quelle piene zeppe di luci, di suoni, di odori, di voci, di amori. Quelle in cui fuori non c’e’ niente. Quelle con la musica. Quelle nel silenzio. Quelle in cui dentro c’e’ tutto quello che ti serve. Sere da marinaio in cui sorridi, perche’ sai che il mare, dopo tutto, e’ l’unico posto dove puoi stare senza pensare alla vita.

Share Button