Piccola morte

Come piroscafi nell'alba

E’ difficile spiegare, come dice la canzone. Sei mesi lontano da casa, immerso nell’altra grande abitazione. Gran parte nel mio Paese, il mare, diviso in varie nazioni. Ho attraversato sei volte un confine, quella linea illusoria per recludere e proteggere chi non sa che è cittadino di se stesso.

Ho dormito in tanti letti, in treno, in aereo, su una barca, in case del passato, in case del futuro. Parlato, bisbigliato, sussurrato con centinaia di persone, lungo una via, intorno a un tavolo, muovendomi, in assoluta immobilità. Chi abita la sua vita è apolide, nomade. Si potrebbe tracciare una funzione matematica tra stanzialità e omologazione, o almeno la ripetizione degli stessi percorsi e l’alienazione. In questi sei mesi non ho mai fatto due volte lo stesso percorso. Dunque non sono mai tornato.

E’ difficile spiegare, tuttavia. Per vivere occorre perdere il centro. Per non morire occorre ritrovarlo. Nello spazio di nessuno, in mezzo, ci sono io. Ma non sono solo: chiunque non si stia lasciando vivere è lì. Vi regna la solitudine, dove non si è mai soli. Non chiedetemi come, perché non lo so così bene da poterlo spiegare. Certamente il tutto non si manifesta gratuitamente. Siete dotati di denaro esistenziale? Bene, preparatelo nella tasca, stringetelo già nel pugno, perché ogni tanto c’è un casello, bisogna pagare.

Sei mesi troppo lontano. Non ho ancora perduto tutte le cime, non mi posso permettere di navigare senza entrare mai in porto. Nell’abito ci si abita, appunto, e la consonanza non è occasionale. Non dice il Vangelo che quando Dio cacciò Adamo ed Eva diede loro abiti di pelle perché si coprissero? Non erano indumenti, erano i sacchi di pelle, i loro corpi. Loro erano anime, e per diventare umani avevano bisogno di zavorra che le corredasse. Abitare implica l’abito, come fuggire necessita di un nemico e tornare di una casa. In principio era il Logos, la parola, poi tutto si è confuso in una faccenda di involucri e giacigli. “La vita dà all’uomo strani compagni di letto” (Shakespeare).

Partite quando siete sicuri, ma proprio sicuri. Non è un tentativo di dissuasione, solo un avvertimento. Perdere la cella ha i suoi effetti collaterali. Qua fuori serve un cuore duro, perché ai nomadi capita di struggersi in cerca di compagnia. Che non c’è sempre, almeno non nel deserto frequentato dai nomadi. Liberi (lo si ricordi) non è solo una faccenda che ha a che fare con la perdita del capufficio, l’eccesso di ripetizione e la voglia di togliersi il peso dal cuore. Liberi è una malebenedetta avventura, dove talvolta non passano i treni, si finisce in luoghi impensabili e i conti non tornano. Liberi è laggiù, non qui. E’ dove neppure si pensa, oltre il confine, oltre l’ultima frontiera, senza casa, senza cose, abitando l’inospitale, ospitati da abiti che non conoscono alcun lucore dell’abitudine. Liberi è tanto, non pensateci con le categorie che avete ora. Però può somigliare a troppo, che ora non sapreste concepire. Ce la si fa, ma a volte somiglia alla “piccola morte”, quando il piacere e il dolore si mescolano e sembrano la stessa, unica, terribile, splendida cosa. Solo che non lo è.

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Ci vuole una classifica…

Mi piace chi non ha mai remato, ma ci prova. E infatti ci riesce

Mi dà fastidio la frutta che va a male presto, quella che sgocciola poco dopo che l’hai riposta su un piatto. In generale, mi dà fastidio la roba molliccia, poco soda, tremebonda. Non sopporto il latte, i biscotti che si inzuppano nel latte e la smidollata lentezza di chi indugia mentre quelli si rompono e finiscono nella tazza. Non potrà mai piacermi una pietanza in cui è tutto mescolato indistintamente, spappolato per capirci, e credo che tra lo stufato di verdure e la ratatouille ci sia un universo gastronomico evolutivo. Se mi danno un piattone di pasta è facile che non mangi, perché quasi tutto quello che è buono è anche poco, posizionato senza occupare tutto il piatto. Sono anche convinto che l’essenza del wafer sia alla vaniglia, non al cacao, e credo che sia un primo serio sintomo di disattenzione non avere un’opinione su questo.

Tra le cose che mi infastidiscono di più ci sono gli avvisi di andare alla Posta a ritirare qualcosa, le cartelle esattoriali (ma non per il rischio di dover pagare, per il fatto in sé), o quando mi scrive il Comune, la Regione, il Presidente del consiglio. Mi stanco dopo un minuto quando devo fare qualcosa che non amo. Mi stanco prima di iniziare quando devo fare qualcosa che odio (e infatti, generalmente, non lo faccio). Mi darei una martellata su un piede quando c’è qualcosa di bello, emozionante da fare e per qualche ragione non lo prendo al volo. Mi imbarazza chi dice che si annoia. Quelli che mi chiamano quando si annoiano, per altro, li trovo dannosi. Peggio di loro ci sono solo quelli che vengono da me e mi annoiano.

Mi stordisce il rumore eccessivo quando cerco di parlare, anzi, qualunque rumore quando parlo. Non dico cosa mi genera la musica o chi chiacchiera quando leggo a voce alta. Non amo chi non si rende conto che parla troppo, che parla troppo poco, e in generale chi ha difetti risolvibili a cui è chiaro che non sta lavorando. Disprezzo la burocrazia e chi la pratica pensando che è giusta e necessaria. Se devo fare una fila quasi mai aspetto: dopo un po’ me ne vado. Mi fa venire la rosolia il chiacchiericcio, tutto quello che diciamo di qualcuno che non avremmo il coraggio di dirgli se fosse qui davanti a noi. Manderei ai servizi sociali quelli che parlano dicendo che il tale attore è gay o che il tal altro ha rubato, o che quella giornalista è andata a letto col direttore per fare carriera, senza sapere niente, ma proprio niente, di come stanno veramente le cose.

Mi irritano la cattiva coscienza, la differenza tra la teoria e l’azione, la dispersione delle energie. Considero punibili col carcere le frasi: “vorrei tanto, ma…” “beato te, che puoi…” “stavo per chiamarti!” “c’è sempre tempo…” “vediamoci prima o poi, dai!” e parecchie altre che non ho tempo di trascrivere. Vorrei non essere pacifista e non violento con chi si fa sempre i fatti suoi, senza mai dare qualcosa anche a me, e poi si mostra come il più pronto, disponibile e generoso del mondo. Tutti i politici che ho conosciuto, ad esempio. Ma i peggiori, quelli che proprio non sopporto, che mi fanno incazzare da morire, sono quelli che non hanno mai colpe, quelli che “è colpa sua!”, che si assolvono sempre e comunque. Sono i peggiori, insieme a quelli anaffettivi, quelli per cui una carezza o l’assenza di una carezza sono esattamente la stessa cosa. Delle carezze non date, infatti, non provano mai alcun senso di colpa, e non capiscono che quelle che non hanno ricevuto sono colpa loro.

Se dovessi stilare una classifica, però, al primo posto metterei quelli che si lasciano vivere. Quelli che non hanno mai un progetto, che non ci provano. Quelli che non hanno mai avuto uno slancio, che non hanno mai sentito che in quel momento, quel giorno, anche solo per suggellare un’emozione, dovevano dire quella cosa, o fare quel gesto. Quelli che vivono una vita intera senza mai provare a usare tutto, occhi, mani, corpo, cuore, mente, anima, spirito, per vedere cosa accade, dove li porta, come potrebbe essere la loro esistenza. Quelli che mentre non fanno niente, non ci provano, non si spendono, non si consumano, capita anche che si permettano di dirti che questo è giusto, quello è sbagliato, quell’altro poteva essere fatto meglio. Forse è per questo che non sopporto la roba molliccia, i biscotti che si disfano nel latte, le pietanze tremebonde… Considero questa gente i peggiori del gruppo, la melma, le sabbie mobili in cui loro affondano, ma in cui rischi di affondare anche te. Vorrei che, per magia, venissero dipinti tutti di giallo, fluo, perché fossero identificabili tra la gente, marchiati per essere distinguibili, senza alcun ragionevole margine di dubbio. Sogno anche di trovarmeli tutti di fronte in uno stadio, un giorno, come dovessero ascoltare un concerto rock, e vorrei apparire io sul palco, con un microfono e un grandioso sistema di amplificazione. Vorrei arringarli per un’oretta, senza contraddittorio, e dirgliela tutta. Dire le cose è importante. Dopo, almeno, le sappiamo.

 

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Nell’ordine

Mediterranea alla fonda

Ieri un’amica mi scrive, sul tardi: “Ho deciso. Domani mi licenzio. Finalmente libera”. Io le rispondo cauto ma entusiasta. Le auguro buon vento. Stamattina un altro messaggio. “La notte ha portato sconsiglio. Chiederò aspettativa di sei mesi. La mia SOLA paura è la mancanza di stipendio”. Mi pare una buona decisione.

Sempre ieri un lettore mi chiede: “Ti piace Renzi?” Io rispondo di no, perché è un democristiano, il suo modello è quello del capitalismo consumista, della crescita che deve riprendere. Nessuna novità. Lui mi risponde: “ma non c’è nessun altro…”. Non ci sono leader, non ci sono programmi; soprattutto mancano gli elettori, commento io, gente capace di dire no.

Su Twitter qualche giorno fa una lettrice mi scrive: “in altri termini: consolarci salvando solo noi stessi, o provare a salvare il mondo?”. Capisco che la questione è mal posta, ma le rispondo lo stesso: “Per salvare qualcuno dobbiamo essere sani noi, in equilibrio sulle gambe. Perché porci il problema di salvare il mondo quando la quota di mondo minima, accanto a noi, cioè noi stessi, non è ancora in salvo?”. Durante un’alluvione, l’unica cosa che non serve sono i soccorritori impreparati. Non ho ricevuto risposta.

Collego i tre piccoli sketch qui sopra in questo lunedì così privo di salsedine. Mi sembrano tutti cuciti da un unico filo. Paura della verità. La mia amica vuole fuggire, ma non ha una meta. Reagisce quando le cose vanno male. Pessimo viatico per il cambiamento. Invece che preoccuparsi della meta, infatti, pensa ai soldi. Il lettore si preoccupa dei candidati, ma l’elettore non è pronto, e questo non lo preoccupa. La lettrice pensa che occuparsi di sé sia troppo poco. Meglio sarebbe perseguire il grande disegno di cambiare il mondo, sostiene, ma non prova senso di colpa a non occuparsi di una persona soltanto, che è pur sempre un buon inizio. Tutti e tre mi pare che non guardino le cose nell’ordine. E l’ordine è importante. Come quando si naviga, c’è qualcosa che viene prima, e va fatto prima, e qualcosa che viene dopo, e va fatto dopo. Prima di entrare in porto, ad esempio, occorre ammainare le vele. O meglio: prima di issare le vele, occorre uscire dal porto. Che poi è più o meno lo stesso.

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Sopravvento…

Dialogo tra il futuro e Mediterranea, al largo di Hvar

 

Una barca in navigazione divide in due il mondo: metà è sottovento, dove il vento appunto sfila, corre via, si allontana, scompare insieme alle onde ormai innocue, capaci di frangere gravosamente, ma chissà dove, non più sulla nostra murata, ciao ciao. Metà, invece, è sopravvento, le raffiche che verranno, le onde partite da chissà dove per spostarci la prua, le correnti che ci faranno derivare dalla giusta rotta. Il sottovento è il passato, quello che dovevamo incontrare, che ormai è stato, è andata com’è andata. Il sopravvento è il futuro, prossimo e visibile, lontano e indistinguibile, sono qui ti aspetto. Per questo navigare è così affascinante: una barca è lì in mezzo, è il presente.

Sbarcare è sempre un rischio. Ecco perché bisognerebbe restare sempre a bordo. Dove si finisce quando si sbarca in terraferma? Le barche si perdono a terra, scrive Perez-Reverte citando Moitessier. Credo sia per via del tempo, che ha bisogno di vento per le vele del presente.

Pensieri vaghi, per molti. Taglienti, accuminati per me. Sbarcare dopo tanti mesi non è mai come voltarsi e andare. A terra tante cose attendono, più imprevedibili di una profonda depressione di fine estate. Io prevedo il vento meglio di come prevedo la vita. E’ sempre stato così. Sono più marinaio che uomo? O meno uomo che marinaio? La differenza c’è, credetemi sulla parola.

Estate indescrivibile. Viaggio lungo, lento, che non potrò raccontare se non per frasi, parole, che ci vorrà una vita per spargere nei miei libri, e che solo qualcuno potrà ricostruire. Un geroglifico di momenti, un rebus di emozioni, facce, parole, luci, discorsi, manovre, vele, riflessi, ti ricordi? Cinque mesi che non basterebbe un’esistenza intera….

Oggi non è giorno per celebrare, me ne rendo conto. Ma grazie non è difficile da pronunciare. Al mare, innanzi tutto; al tempo, clemente e bravo; al cuore, che batteva ancora libero ogni sera; alle isole, agli arcipelaghi, ancora quasi veri. Alla barca, alla sua formidabile prua, Mediterranea di nome, oceanica di costituzione. “Un’altra cosa che non ho perso”, ecco cos’è. Che non basterà, credi che non lo sappia? Ma che ci ho provato, ancora, ancora.

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Arrivi e apnee

Nuvole e mattino su Incoronata

E’ una splendida giornata di brezza e sole di fronte al golfo del Quarnero. Filiamo sei nodi e mezzo a poppa, su con la maestra e la mezzana. Qui si fabbrica il vento, quello che se vuole ti strappa via il cuore e lo getta ai cani. Per questo scambiamo un cenno col monte Velebit, laggiù, uno sguardo grato e rispettoso, come si deve a un dio iroso e a volte incomprensibile.

Prua nel cavo settentrionale del Golfo di Venezia, come amiamo chiamare l’Adriatico. Quasi alla fine del viaggio. Ultima settimana, ultimo sbarco e imbarco. Ultimo equipaggio. La nostra rotta “Sulla scia delle galere” sta per compiersi, come un discorso lungo e articolato che giunga alla sua conclusione, come un pensiero contorto che alla fine si dipana, come un groviglio di linee tirate non per caso su un foglio, che solo poi diventa disegno, volto, ritratto. Chissà cosa sembra l’imperscrutabile elzeviro della schiuma che abbiamo lasciato a poppa. Una foto di gruppo, un guazzabuglio di segni che a vederlo dall’alto somiglia a noi.

Il 26 aprile, circa 2.000 miglia fa, ci imbarcavamo a Messolonghi (Gr), e tra circa 200 miglia doppieremo il capo di molo di San Benedetto del Tronto. La traccia semplificata ma puntuale del nostro percorso l’abbiamo messa qui. Quello che non si può riportare è il diagramma encefalico, cardiaco, esistenziale, noi del gruppo di Mediterranea, e poi quello degli altri, coacervo significativo e appassionato, cuore mente anima, pensieri silenzi voci, storie parole desideri. Tanti nomi propri per farne uno soltanto: mare. Oppure: vita. O per qualcuno, pochissimi: niente.

Stasera a Pola, festeggerò. Le cose si compiono non soltanto fisicamente. La cosa più avanti di una barca non è la prua, ma l’anima del marinaio che la dirige sulla giusta rotta. Le destinazioni prima di tutto vanno immaginate. Ma se l’inizio di una rotta non è salpare, la sua conclusione non è l’arrivo.

Per questo festeggerò. Una festicciola intima, soltanto qualche invitato: verrà un desiderio col volto stanco e felice, ci saranno anche poche paure della viglia, in disparte, scadute. Interverrà un progetto chiaro e sorridente, che canterà, ma ho invitato anche i baffi della foca monaca di Cefalonia, qualche marinaio incontrato per la via, e una chiglia sicura. Le mie feste somigliano sempre a un porto. O a un bar nello spazio.

Ieri ho anche incrociato l’occhio di un bel delfino. Un occhio limpido e quieto, che ho avuto la sensazione di non vedere per la prima volta. Ci incontriamo di nuovo? Non ha risposto. Aveva una ferita sul dorso, un taglio bianco subito dietro la pinna dorsale. Non doveva fargli male, nuotava tranquillo. Lo abbiamo visto immergersi in verticale, sinuoso, proprio sotto la prua, verso l’abisso azzurro dove noi moriremmo e lui regna. In quel nulla profondo ci si inoltra con stati d’animo diversi, diverso respiro. Ecco (anche) a cosa somiglia ogni lunga rotta: un’intensa boccata d’aria per pinneggiare nel nulla.

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