Indietro, no…

 

Marsiglia - Arabeschi, uscita di porto, isole

2013: la borsa giapponese fa +57%), record d’incremento dal 1972. La Borsa italiana guadagna il 16,5% nell’anno. Francoforte +25%. S&P +29%, best performance dal 1978. Bloomberg calcola che le compagnie dello S&P500 valgono oggi 3.700 miliardi di dollari in più rispetto a dodici mesi or sono. L’oro, bene rifugio dei tempi di crisi, è crollato. Il denaro dunque circola. Per ora è finanza. Tra poco sarà nuovi investimenti, poi spese, poi scarti di consumo per gli animali da cortile. Così saremo tornati indietro, come al gioco dell’oca: riprendi dal via.

Leggo queste notizie a Marsiglia, città greca, seduto di fronte al porto, mentre ripenso allo sconcerto dei francesi nel veder arrivare in questo catino protetto l’intera flotta ottomana del Rais Kahir-ed Din, anni ’40 del 1500. Francesco I, ancorché soprannominato “il Re cristianissimo”, si era alleato con il grande turco Solimano, detto “il Magnifico”, per odio contro il re cattolico, lo spagnolo Carlo V. “Les Pirates”, detto con la bocca storta, erano venuti per unire le forze, zarri e tamarri, eccessivi e roboanti, grandi orecchini e pendagli. Rimasero nel porto per settimane, senza che nulla avvenisse. I francesi stentavano a dar corpo all’alleanza, tanto era assurda, e gli ottomani non sapevano che fare. Somigliavano a certe coppie, lei piena di vita, lui che dorme. Facevano già pensare al tradimento… Ma se non ci vogliono, pensava il grande Rais, perché ci hanno chiamati?

Vai che tra poco si riparte. Qualche mercato emergente, qualche accordo di sfruttamento, qualche concessione da dare in pasto all’opinione pubblica. Quattro soldi nelle vene diafane del moribondo. Il dopoguerra può ricominciare, un po’ sbilenchi, ammaccati, con la disoccupazione ancora alta, come il colesterolo, ma dai che ti senti meglio. Un’esortazione o una constatazione? E vallo a sapere… Chi non muore, del resto, è vivo. O no?!

Facciamo tesoro, tesoro. Facciamo in modo che non scompaia mai la traccia. Ti ricordi quando siamo stati per così tanto tempo accanto, senza parlare, al sole di quella città di mare che ricordiamo sempre? Ecco, così. Battito lento, calore sulla pelle, occhi semichiusi per il riflesso dei palazzi del porto. Abbiamo visto Kahir-ed Din che ripartiva, così, all’improvviso, in un giorno di maestrale. Era un uomo di mare, capiva due cose soltanto: il vento buono per andare a sud, i porti dove non ti trovi bene. E poi una terza: mai due volte lo stesso errore. Gli europei da lontano sembravano meglio. S’erano alleati e non amavano l’alleato. Facevano, già allora, cose prive di senso. La vita da vivere non era lì, ma in fondo al flusso di quel bel vento. Bastava mollare le cime di poppa, far salire la vela, bordarla a mestiere. E allora via, senza tornare indietro.

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Come questa storia

Natura viva: scotta di randa con marinaio

Diciamo che mi fermo qui.

Dall’ottobre del 2009, dall’uscita di “Adesso Basta”, sono passati quattro anni. L’intera tiratura esaurì in tre giorni, furono necessarie una ristampa immediata, poi subito un’altra, il libro finì immediatamente in classifica e fu chiaro che stava accadendo qualcosa. Rapidi, arrivarono i giornalisti: decine, centinaia di interviste dovunque (tranne Fazio sono stato in ogni programma, dalla Bignardi ai TG), in tv, sulle radio, su giornali, magazine, all’estero. Soprattutto, iniziarono a piovere email, post, lettere al mio editore. Centinaia, migliaia, fino a centinaia di migliaia. In tanti chiedevano (e chiedono), volevano sapere, tantissimi volevano testimoniare “anche io!”. Molti dicevano “Beato te”, qualcuno: “Balle, non si può!”. Io ero annichilito: che diavolo stava succedendo?!

Quel libro, seguito oggi da decine di titoli analoghi, aveva aperto una breccia. Nessuno aveva mai osato, in tempi recenti, parlare di cambiamento, di rifiuto delle regole fondamentali, di inversione di rotta, e tanto meno lo aveva fatto davvero. Ma tutti, evidentemente, nel loro cuore, ci pensavano. Quel libro squarciava il velo di Maya, sdoganava un tabù, dava un nome a una tendenza diffusa, ma affatto facile da assecondare, generatrice di dubbi, paure, speranze, problemi.

E allora in quei giorni decisi che avrei risposto, a tutti. Decisi che avrei testimoniato, spiegato, parlato, scritto: “Lo farò per due anni”. Mi era chiaro l’investimento di tempo, la magnitudo di quel che mi candidavo a fare. Sapevo che sarebbe stato bello ma molto faticoso, quasi totalizzante. “Due anni, poi basta”, mi dicevo. Sono diventati quattro.

In quattro anni sono nati altri cinque libri, tra cui “Avanti Tutta” e “Ufficio di scollocamento”, e due romanzi “Uomini senza vento” e “L’equilibrio della farfalla”. Poi gli articoli su “Il Fatto Quotidiano”, i pezzi sul “Il Cambiamento”, qui sul mio blog, su facebook, la mia trasmissione su Rai 5. Così sono iniziate le lunghe notti a rispondere ai lettori (non si possono contare…), gente che scriveva email bellissime, cose vere, della loro vera vita, a cui era impossibile non rispondere o dire solo “grazie”. Sorridevo quando qualcuno mi scriveva: “ma rispondi davvero tu?”.

Così è nato il calendario fittissimo di incontri: circa 500 presentazioni, da Londra a Lecce, da Parigi a Cagliari, da Ragusa a Nova Gorjca, da Torino a Ponza, che mi hanno fatto percorrere 28.500 km in ogni direzione. Un viaggio immenso, in città e paesi che non conoscevo, per un’Italia che ora davvero credo di sapere cosa sia. Migliaia di persone con cui ho parlato, che mi hanno ascoltato, fatto domande, che mi hanno seguito in molte tappe, che mi hanno perfino raggiunto in mare.

Un viaggio lungo quattro anni, che mi ha fatto capire qualcosa di me stesso, e molto sul “mestiere” di scrittore, oggi. Chi ha la penna in mano e viene letto da tanti, fa politica. Deve fare tutto quello che può per raccontare, testimoniare, rappresentare, per far nascere domande, far fare riflessioni, per opporre un modello diverso alla marmellata insensata del presente, perché ognuno poi faccia, dica, pensi quello che deve, che vuole, che può. E’ una responsabilità pesante, un’autentica militanza, per sostenerla occorre seguire una regola monastica, un percorso duro, ma che dà senso a quello che si fa, si dice, si scrive. Migliaia di persone mi hanno detto: “Grazie, ho messo tutto in discussione…, ho iniziato un percorso nuovo…, ho cambiato vita…, ho tentato…, sto tentando…”. Quanti scrittori, anche di successo, hanno avuto simili soddisfazioni? Ogni sforzo è stato ripagato, per ogni fatica è valsa la sua pena. Sono un uomo caparbio, ma davvero fortunato.

Oggi, dopo sedici edizioni e tutto quel che è accaduto, ciò che doveva essere detto è stato detto, ogni obiezione ha avuto mille volte una spiegazione. Credo che a ogni domanda su di me sia possibile trovare almeno una mia risposta. Oggi c’è un sistema di vita, concreto, vissuto, ancora in corso, più saldo che mai, più efficace che mai; c’è un’idea di riferimento, un apparato ideale e di valori; le testimonianze aumentano, proliferano. Io vivo come vivevo prima di “Adesso Basta”, la mia rotta non è cambiata di un grado.

Intanto, tutte le proposte di fare da guru di riferimento, di fare nascere un movimento, di fare politica tradizionale… mi sono state tutte fatte e sono state tutte rifiutate. Sarebbero state ruolo, visibilità, denaro, prosecuzione e aumento della marea, cose che non mi servono per essere felice. Tutte le tentazioni di tornare indietro, o di farsi “corrompere” dalle “opportunità” generate dal successo sono state respinte. Mi hanno offerto soldi per mettere pubblicità sul mio blog, mi hanno offerto consulenze per fare l’insider nel pensiero alternativo e indicare la rotta alle aziende, mi hanno offerto ricche sponsorizzazioni per Mediterranea che non potevo accettare, mi hanno offerto di scrivere libri che avrebbero reso denaro ma non erano i miei. Oggi come allora la mia vita procede per passi adeguati, originali, sostenuti integralmente, senza dover mediare troppo con la realtà. So esattamente cosa vuol dire rinunciare a “gestire il successo”, so che quello che si perde non torna, ma è l’unica cosa che posso fare per dare corpo alla mia libertà, se voglio restare un essere umano.

Ecco perché mi fermo qui: smetto di rispondere a tutti, riduco il tempo e l’attenzione della militanza, riprendo il passo individuale, per la mia via, continuando a scrivere, oggi più che mai, a navigare per il Mediterraneo, oggi più che mai, a raccontare storie, come e più di prima, ma smetto di essere interlocutore a completa disposizione di tutti. Non farò più presentazioni su questi argomenti, salvo i rari casi in cui l’amicizia lo renderà necessario. Non farò più interviste su questi argomenti, salvo quando i temi non cadranno da altri contesti, per altre ragioni, seguendo altre ispirazioni. Smetto, soprattutto, di combattere punto su punto, frase su frase, qui, sui media, sui social network e dovunque. Smetto di motivare, argomentare, e se mai l’ho fatto, giustificare. Ho lasciato sufficienti segni per comprendere che non si passa su nessun fronte della cattiva coscienza, del fango, della delegittimazione, della disonestà intellettuale. L’apparato ideologico e le scelte messe in pratica e comunicate sono un sistema saldo, che funziona. Nessuno è riuscito a banalizzare, a sostenere che c’è trucco, inganno, che solo io posso e nessun altro può. Ognuno si assume la responsabilità di andare avanti, accostare, fare dietro-front. E’ la sua vita, è la sua coscienza. Lui sa. Buon vento. Il supporto che potevo dare per continuità o per opposizione, l’ho dato.

Downshifting anche dal downshifting, dunque. Il viaggio prosegue, assume i nuovi, mille colori che deve. “Tutto è sempre e solo un inizio. Come questa storia. Fine”.

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Quante volte

con Federico Taddia, ad Arezzo (che freddo...)

Quante volte ho detto “ti amo”. Neppure una in cui ho mentito. Che poi ognuno abbia capito, sentito o dimenticato, fa parte della storia. La sua, naturalmente. Sentire fa bene a chi sente, come dimenticare fa male a chi dimentica, non solo a chi è dimenticato. Ricordiamo troppe cose che dovrebbero andare, poche che dovrebbero restare. In questo squilibrio c’è molto da fare, e non vale iniziare dai dettagli. “ma com’è successo?!” Ma come, non ricordi?!” Strano, quel giorno, in quel momento, quella volta che ti sei voltata mentre bisognava stare attenti. Le cose accadono prima, contumaci, quando non c’è nessuno. Le cose migliori avvengono sempre quando non ci siamo. Assenti, dunque, e poi dimentichi. Le cose contano, infatti valgono uno, non zero…

Se c’è una frase a cui mi è sempre piaciuto tener fede, dirla sapendo che era vera, è “sono qui”. Ti riempie la bocca, sa di salsa, lascia un lungo aroma, persistente. Vi è sottinteso “io”, che senza bisogno di dirlo fa ancora più impressione. Nell’epoca degli assenti, in cui ti volti e non c’è mai la scena che pensavi, dirla fa bene a chi la dice, non solo a chi sa ascoltarla.

Io voglio costruire un mondo di gente che c’è. Piccolo eh, che altrimenti me ne dicono di ogni tipo. Ma piccolo non è niente, è solo piccolo, cioè molto più di zero. Che poi, piccolo… bisogna sempre vedere… Il mondo è un fatto di misurazioni. Uno sembra poco, ma poi se quello è convinto sembrano cento.

Se dovessi indire una crociata (che Dio mi scampi) la indirei verso gli inconsistenti, verso chi non dice “sono qui”, e non sottintende neanche “io”. Se non sei qui, mi dici dove sei? Solo per curiosità. Che qui non ti piaccia, ci può stare, ma dimmi allora cosa. Se non lo sai: crociata. Una crociata con vassoi al posto delle armi, tartine preparate bene, da far venire l’appetito. “Ci sono”, infatti, ha sempre a che fare con la fame…

“Tu morirai pugnalato da uno che ti dice ti voglio bene” mi hanno detto qualche tempo fa. E’ possibile. Sempre meglio che vivere di sospetto e cautele, ho risposto. Era come dire “ci sono”, sotto mentite spoglie. Anche lì mi ero fidato, ricordi? Nulla di quello che capiterà mi potrà sfuggire, ecco la mia assicurazione sulla vita. Posso vedere quello che non c’è, ma non perdermi quello che c’è. Sfuggono solo gocce di sangue, e si muore sempre vuoti.

“Quando qualcosa varrà la pena, allora sì che… Vedrai!“. Cosa c’è da conservare, da risparmiare? Teniamo da parte cosa, di tale valore, e per quale momento in cui valga davvero la pena? Quel giorno non verrà. Quel giorno non verrà. Quel gruzzolo è di una moneta che vale solo nel presente. Scade ogni istante, puoi spenderla soltanto ora, va fuori corso dopo un attimo, la guardi ed è diventata polvere. Nulla si può risparmiare. Quando “non ci sei” tutto sta morendo.

 

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Descrizione di un attimo

Il tempo, tuo, lo spazio, minimo, le quantità di tutto, misurate, il ritmo, che poi è l’insieme di questa misura nello spazio-tempo, perfetto, né veloce né lento, dunque l’armonia, quella dentro in questi giorni di estasi, è tornato il duende, forse non è neppure solo, energia, dovuta anche a questo sole, che da dieci giorni sorge dopo di me e va via prima, ma non delude mai, caldo, si fa per dire, non freddo comunque, il foliage dell’autunno di mille sfumature, dal giallo limone al rosso fuoco, devo capire che alberi sono quelli più colorati, ma per sistematizzare allora: sveglia verso le 6.00, primo caffè, pensiero che va veloce come un lampo, io fermo al tavolo davanti alla grande finestra sul bosco, comincio a intravvedere qualcosa nell’oscurità, attendo l’aurora per riconoscere gli oggetti, forse oggi vedo gli scoiattoli, certamente i gatti, eccoli, miao, poi secondo caffè e fuori, passeggiata nell’alba, poi a scrivere, che la creatività è un uccello raro e timido, che vola via con la coscienza, il sole che mi invade quando spunta dal crinale, il calore dei raggi, scrivo fino verso le 11.00, poi passeggiata fuori, taglio un po’ di legna, poi raccolgo l’insalata e me la mangio, qualche notizia dal mondo, il pomeriggio può andare in vari modi, diciamo che soprattutto correggo, riscrivo, leggo email, aggiorno i siti, poi a correre nell’aria che si fa frizzante, la Liguria non ha una sola fottutissima pianura #porcomondo, ma da su, dall’Altavia, si vede il sole scomparire dietro Vernazza, scena da commuoversi, e a tornare è tutta discesa, accendo il camino, doccia bollente, nudo davanti al fuoco per asciugarmi, perso nella fiamma, poi vino, ancora qualche parola da scrivere, poi la cena, ben fatta, ma proprio fatta bene, poi mi rilasso sul divano, assaporo, poi un po’ di vino, poco, poi un rhum, ma un dito, la misura, il tempo, poco di tutto, con calma, a volte seguendo la tv a volte perdendomi in quel che ho scritto il giorno, un giorno che poi finisce sempre tardi, a guardare un film, a guardare il fuoco, a pensare, e poi il buio, ma l’istante prima la meraviglia, l’incredulità di una giornata impossibile da dimenticare, che non costa niente, che rende tanta vita, e domani, ancora.

 

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Se serve una legge, non serve

L'orto, ad esempio

Stamani un brivido percorre il Paese. Una buona notizia: una classe dirigente mediocre e superata deve passare la mano nel principale partito politico. Molto bene. Nel gioco democratico, questa è sempre una buona notizia. Il fatto che a me piacciano o convincano poco o tanto il leader e le idee di questo cambiamento, non è molto importante.

Certo, la cosa più semplice è cambiare il candidato. Quella più difficile: cambiare l’elettore. Soprattutto se l’elettore sono io e non un generico corpo sociale. Tutto ciò per cui serve una legge è inessenziale, mentre ciò per cui serve una convinzione è un processo profondo e vero. Ogni volta che mettiamo in mano a qualcuno, pure il migliore uomo del mondo, la nostra speranza di equilibrio e armonia, stiamo abdicando, stiamo fallendo. La nostra vita non è migliore o peggiore per responsabilità della politica, semmai è vero ed evidente il contrario. Non serve Renzi, e non basta Renzi, come non serviva e non bastava Berlusconi, per vivere già oggi in modo migliore o peggiore. La cattiva notizia del giorno, infatti, è che per noi non ci sono state le Primarie: siamo quelli di ieri. Come possono cambiare le cose con il nuovo Segretario? “Diamogli qualche mese, almeno…” A chi?

L’omicidio del tempo della vita, oggi come ieri, viene perpetrato da milioni di persone incoscienti. La separazione del senso tra ciò che dovremmo fare e ciò che facciamo, oggi come sempre, pasce e cresce dovunque. L’alienazione di ogni nostra vera natura, ogni nostra vera autentica essenza, è l’occupazione più diffusa. Lo sperpero di risorse personali, energetiche ed economiche, è la cattiva pratica dilagante. La libertà del cuore, del pensiero, dello spirito, la condizione più rara. Ecco perché la nostra società è così. Potremmo viverla in modo migliore, la viviamo in modo peggiore. Ce ne lamentiamo come se fosse cosa generata altrove, fuori di noi, e speriamo che un uomo, un leader, possa cambiare questa condizione. Non è così. La via è chiara, ce l’abbiamo davanti, era lì anche ieri, prima delle Primarie, sarà lì anche domani, dopo le Politiche, dopo che l’ennesimo leader avrà illuso e deluso, cambiato qualche legge, cambiato qualche comportamento diffuso. Solo che si sarà ridotto il tempo per tentare, l’energia necessaria per spiccare il volo.

Chi lavora perché tutti credano al Nuovo e non pensino con la propria testa, intanto, sta operando. Negli anni ’70 se non eri comunista ti dicevano che eri fascista. Oggi le accuse più aggiornate sono: “se neanche Renzi ti va bene, allora ti piace Berlusconi” “Ma allora non va mai bene niente! Sei per l’anarchia!” “E’ nuovo, potrebbe andare, vediamo cosa fa, diamogli una possibilità, no?!”. I più raffinati invece sembrano farne una questione di tempi: “quello che dici tu va anche bene, ma ci vorranno cent’anni, forse duecento prima che la gente cambi! Nel frattempo però, intanto…”. Ce ne vorranno duemila, se non si comincia. Non serve un nuovo leader, servono uno, cento, mille uomini e donne leader della loro vita, che decidono di cambiare personalmente, emanciparsi direttamente, vivendo diversamente, in altri luoghi, facendo altro in questa vita, dicendo nuovi “no” e nuovi “sì”, autonomi, come se le leggi e le scelte che attendiamo dal nuovo Messia ci fossero già, adesso, decise a maggioranza dall’unico Parlamento, quello dove siedono la nostra energia, le nostre risorse, la nostra creatività, le nostre idee, il nostro coraggio.

Poi, certo, se qualcuno ci dirà qualcosa di interessante, sensato, andremo anche a votare, come andiamo alle riunioni di condominio, dunque senza particolari aspettative o emozioni, solo per organizzare le cose, visto che siamo in tanti, ma sapendo che la vita, la nostra, la mia, è altrove.

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Rovesciare il tavolo

Ore 10.00. La simpatica padrona eritrea del Red Bar e un paio di avventori

Poco fa erano le 8.50 di mattina. Camminavo in via L. Palazzi, Milano, con la testa tra le nuvole, come sempre. Scorrendo un ufficio fronte strada, dietro una grande vetrina, vedo una ragazza graziosa, ben vestita, seduta a una scrivania, che parla animatamente con un uomo, giacca e cravatta, sotto una luce livida al neon. Anche lui gesticola, la discussione sembra accesa. Incrocio lo sguardo della ragazza: è perduto, sconfortato, si sta impegnando in una discussione del tutto inutile, di prima mattina, su temi che non hanno nulla a che fare con lei. Sta vivendo una lucida follia, uno degli infiniti momenti di insensatezza di cui è composta la sua quotidianità.

La scena, al rallentatore, è fulminea. Lei si specchia nei miei occhi, io nei suoi. Io tiro un sospiro di sollievo, lei si sente svenire. Un istante prima di farlo si volta, torna alla sua assurda discussione, per non dover prendere atto di tutto, per non morire di comprensione. Meglio non sapere, non capire.

Quello che ruota intorno al lavoro, nelle aziende, negli uffici, non ha in gran parte alcun senso. La stessa vita delle persone è organizzata con uno sciamare di situazioni, circostanze, metodi, flussi, abitudini che da dentro paiono del tutto ovvie e viste appena da fuori (neppure dalla luna, solo da qualche metro) rivelano tutta la loro assurdità. Rapporti tra esseri che non dovrebbero mai essersi conosciuti e invece condividono giorni, anni, decenni; tempo sbilanciato in modo folle tra inessenziale e necessario; denaro che circola, che non rappresenta neppure minimamente il valore impiegato; occupazioni quotidiane (dunque parole, emozioni, arrabbiature, soddisfazioni) generate da atti e circostanze che non appartengono minimamente agli attori; flussi organizzativi irrazionali, con utilizzo maldestro e a volte perfino folle delle caratteristiche delle persone rispetto alle mansioni; rapporto lavoro/guadagno capovolto, dove chi guadagna di più lavora meno e viceversa; funzioni duplicate, deleghe fittizie, poteri non distribuiti, effetti degli errori che impattano sulle persone sbagliate, risorse dilapidate, idee sperperate, soluzioni non trovate sebbene siano disponibili. Potrei continuare per qualche pagina…

Al mio arrivo al Red Bar, poco fa, un ragazzo mi sta aspettando. E’ passato per conoscermi, salutarmi, prendere un caffè. Ci sediamo, chiacchieriamo del suo lavoro di consulente finanziario personale. Gli racconto che tra breve spiegherò e metterò in pratica il “diritto di recesso all’incontrario”. Lui sembra incuriosito, colpito. Gli racconto e lui annuisce: in quest’’epoca tutto viene venduto caro, senza passione, da un venditore che non ha nulla a che vedere con ciò che fa, a chiunque abbia denaro per pagare qualcosa che non lo renderà felice. Occorre invece introdurre un nuovo modello di transazione, in cui solo chi è appassionato davvero può vendere qualcosa di unico, di grande valore, al minor prezzo possibile e non a chiunque abbia i soldi per pagarlo, perché avere i soldi non basta, ma solo a chi davvero vuole, ha reale desiderio di ciò che cerca. In questo schema, non l’acquirente, ma il venditore deve poter esercitare un diritto di recesso, cioè restituire il denaro al cliente e salutarlo: “mi sono sbagliato, scusami. Venderti questo non ha reso felice né me, né te”. La natura opposta, capovolta, di questo “negozio” impedirebbe, per caduta, la gran parte delle follie della finanza, dell’economia, del lavoro, della relazione di scambio. Viste al filtro della vita, dell’armonia, queste aberrazioni perderebbero qualunque significato.

Il ragazzo ci ragiona su, annuisce. Beviamo un caffè, ci salutiamo. A due metri da me un avventore abituale del Red Bar spiega alla padrona, con calma, sottovoce, il libro di Jodorowsky che sta leggendo. A me sorge dentro un gran buon umore: un buon inizio di giornata, penso, ragionare su come ribaltare tutto, capovolgere, rovesciare il tavolo. Sono molto ottimista, penso che si possa fare….

 

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Tempo

sul muro di una fermata del metrò, a Milano

Due settimane fa, più o meno a quest’ora del mattino, vento e mare salivano oltre ogni previsione a San Benedetto del Tronto. F11, avrebbe detto la Capitaneria il giorno dopo. Verso metà giornata Mediterranea disormeggiava, andava alla deriva… Mi stavo sedendo per mangiare qualcosa, ricordo: alzarsi di scatto col cuore in gola, di corsa in stazione, treno, telefono, vento, paura, l’appello, la gente (quanta gente amica…), le discussioni, la barca in secca, il preventivo che sale… Ora la quiete, di nuovo, spazio ai programmi, la barca da rimettere a posto, tanta gente che vuole venire con noi… Ci vorrà tempo.

Ieri ho visto un gran bel film, “Il Passato”, del regista iraniano Farhadi, uno che quando vince un Oscar nel suo Paese nessuno lo sa. In una Parigi periferica e discretamente coprotagonista, una donna, due uomini, tre bambini, un dramma che s’ingarbuglia… Un film lento, due ore e mezza senza intervallo (grazie al cielo), tutto primi piani e piani americani, solo parole e molti silenzi. In sala venti persone, immobili, concentrate. Tutti si erano presi il tempo per seguire un film, senza smaniare, senza cercare qualcosa di preciso, ma seguendo il regista dove voleva condurci, per il tempo che ci voleva.

La sera prima avevo parlato a lungo del romanzo con M. Sto scrivendo poco ancora, studiando molto, cronologie, schedature… Verrà un lavoro articolato, ricchissimo, gravido di livelli di lettura, spunti, metafore, storie. Un “romanzone”, di quelli anche molto ponderosi, che quando escono poi qualcuno ti dice “ho fatto un po’ fatica, è difficile…” e questo mi fa incazzare da morire. Tu lo leggi tre pagine ogni tre giorni, con gli occhi che ti si chiudono, e poi sono io che ho scritto un romanzo difficile? “Ma non ho mai tempo!” “E allora lascia perdere…”. Oggi editori e lettori vogliono romanzi brevi, facili, senza troppi personaggi, storie esili che non richiedano sforzo. “Fa niente. Io devo scriverlo così”. Ci vogliono libertà e tempo per scrivere, come per leggere, per sentire….

Giorni pieni di cose, passeggiate, giri, commissioni. Alla fine ero stanco, mi faceva male la schiena. “Ora mi riposo un attimo. Ma come fai?” “Non ho mai tempo…”. Prima del film sono andato a dormire un’oretta. Non mi capita spesso, ma camminando verso il cinema pensavo che prima dell’arte, forse prima di ogni cosa importante, bisognerebbe addormentarsi qualche minuto. Ti svegli, sei di nuovo pulito, ricettivo, pronto. Per capire è essenziale. Anche per sentire. Forse per vivere.

Ci vuole tempo. Tempo per guarire, per rinascere, per comprendere, ma soprattutto per concepire; tempo per resistere, tempo per esistere, per sbocciare, tempo per attendere, tempo per ricominciare, tempo per notare, per accorgersi, tempo per sognare e lavorare ai sogni; tempo per fare, per rifare, per rimediare, per spingersi e per rilanciare; tempo per esserci, tempo per partire. Ma il tempo è di due nature: quello quantitativo, che si misura in minuti e secondi, e quello qualitativo, che si misura in emozioni. Grande dramma, il tempo, in questo nostro mondo: non c’è, non basta, scorre velocissimo, sfarina questa piccola insensata misera vita… In un istante.

 

(e il tuo tempo, come scorre?)

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