Lasagne di un giorno da cani

Una foto delle lasagne non ce l'avevo. Questi li ho fatti giorni fa, peperoni spagnoli dolci, sale, pepe, olio e forno poco caldo, a lungo.

Per le lasagne di un giorno da cani serve molto coraggio e un po’ di visione, serve, soprattutto, un briciolo di buona inclinazione, ma non verso la cucina, anche quella, verso il tempo, quello di buona qualità, del luogo, zero chilometri e tanto bio, vietati i pesticidi dell’anima, quello strappato oppure colto, selvatico oppure d’allevamento, tanto il tempo cresce come tu mi vuoi e anche se non mi vuoi, è un infestante, lo puoi solo sterminare coi pesticidi dell’insensatezza e della realtà distratta, sta di fatto che la buona inclinazione serve, molto, e anche carota, cipolla, lonza di maiale, salsiccia, arrosto di manzo, olio e burro, sale e pepe, soffriggete poco a fiamma bassa, poi giù la carne, ben tritata, fate andare poi pomodoro, un goccio d’acqua e coprite, fuoco basso per due ore, anche tre, se le avete, ed ecco il tempo, il setacciatore di sapori, perché mentre lui gnassa, assorbe, svapora, stilla voi pensate, davanti al camino, alle mille storie del giorno, che pare sia iniziato il mese scorso, perché fuori piove, tutto intorno nevica, fa freddo, è grigio e in pomeriggi da cani come questi l’uomo è incline al sequestro, emotivo e subìto, e vede come la realtà: grigio, piange come il cielo: fitto, e ha bisogno di gloria, di sollevamento pesi, ma quei pensieri (appunto 1: come si fa a non farcela – appunto 2: non aggiungere e poi sottrarre, perfetto per fallire – appunto 3: c’è da comprare l’aglio e la carta igienica – appunto 4: rileggere la storia di Michael Jordan – appunto 5: come far incontrare Bora e Dragut – appunto 6: come gestisci ciò che ti delude), quei pensieri, dicevo, affollano, sottraggono energie, quelle che di solito ti affacci e poi ne hai per sei, ma oggi non ti puoi affacciare, fuori non c’è niente, ma quando è grigio serve il sole, comunque, non è che quel giorno se ne possa fare a meno, e si va sulle riserve, quelle dentro, perché se sei da solo quelle fuori non ci sono, ed ecco allora perché il “ragù di un giorno da cani”, inevitabile, e conseguenti lasagne, facoltative, il ragù con le carni miste, come non si usa, perché la luce non è cosa facile da generare in vitro, serve potenza, anche se hai buona inclinazione, ci vuole il gesto tecnico, lo scatto fisico, quando si fa sera occorre darsi un segnale, perché i giorni da cani sono come il faro, ora un morso, ora niente, ora un morso, ora niente, ed è in quei tanti niente che si vede il marinaio, lui segue i vuoti, sa più di assenze che di pieno, tra morso e morso c’è la luce, e a furia di seguirla passi i due fanali e sei in porto, e il pomeriggio resta fuori, finisce sezionato tra le sfoglie, su cui non mi dilungo, sapete già: impastate, stendete, tagliate, allestite, e alla fine, come sempre, c’è il tegame, poi il forno. Salvi.

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In mezzo sì

tra qualche giorno...

La cosa bella di agire è che quando attacchi banda il rumore s’interrompe, la cantilena si spezza, il mantra quotidiano scompare. Quell’istante di silenzio, e il cambiamento del ritmo che segue da presso, indicano che l’alienazione è stata scongiurata, almeno per una volta. Senza il “pluff” della cima che va in acqua, prima o dopo, parlare di salpare è indecente. Entro poco, quando si pensa a qualcosa, occorre farla. Altrimenti è quasi più avvilente di ricordare quella volta, milioni di anni fa, in cui siamo salpati, talmente lontana che quasi oggi…, non so, forse…, che anno era? (Ma ero io? Io davvero? Mah!). La vita non si prende ai saldi, si paga a prezzo pieno. E pietà di noi, perché il tempo va.

Pensiero del mattino. Così…, tanto per darsi il segnale che anche questa settimana sconti non se ne fanno. Come non ne farà il clima. Febbraio sarà pessimo, prendete le cerate, la meteo diventa instabile da oggi, gradualmente, con tre depressioni che entrano dall’Islanda, la prima sui 1000hp, dunque poca cosa, poi una più bassa, e poi la terza, che a guardarla ora fa paura. Poi, può succedere di tutto. Speriamo che l’anticiclone sui Balcani, dal Marocco in diagonale fino all’Ucraina, si rinforzi e stenda bene. Altrimenti chiudete bene le finestre, mettete gli stracci sotto le porte, spaccate tanta legna, pronta all’uso. Giorno potenzialmente più critico: 2 febbraio.

Dunque, due pensieri concreti per questi prossimi giorni: farà brutto tempo e bisogna ricordarsi dell’azione. Io comincio le settimane quasi sempre così: voglio sapere chi devo temere, domani, presto, così mi so difendere. Poi voglio sapere come posso salvarmi, per certo, facendo cosa. Anche quando navigo, ho bisogno degli estremi: il nemico più certo, l’opportunità migliore. In mezzo, ce la possiamo sempre giocare. Fuori, chissà.

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Stesi si sta meglio dopo

La rotta del 2014, primo tratto dei 5 anni di navigazione

A volte funziona che tu una cosa la dici tanto per dire, non sai neanche tu bene cosa sia, come si faccia, sai solo che ti piacerebbe, o che fa un po’ figo raccontarla, il problema però è che te la ripeti un mucchio di volte, e ti ascolti mentre la dici, dunque sei tu che parli ma anche tu che ascolti, e dato che il pubblico ha i suoi diritti, a un certo punto cominci a rumoreggiare, come la platea del teatro per far uscire gli attori, perché quella storia l’hai sentita e ora la vuoi vedere, se hai detto che facevi quel viaggio, ad esempio, forza, parti, vogliamo vederti che vai, e tu che sei sempre tu, solo che sei anche quello che diceva, a questo punto non ti puoi mica svincolare così, all’inglese, qualche dovere verso il pubblico lo senti, dunque anche verso di te, e allora ti ci metti un po’ sul serio, apri l’atlante almeno, per vedere di cosa parlavi, perché tutti ti hanno preso sul serio ma tu scherzavi, ma non si può più parlare a ‘sto mondo, io dicevo per dire, mi dispiace, ormai l’hai detto e se non sei un verme strisciante lo fai, porcomondo, anche perché tra dirla e vederla sulla cartina quella rotta è proprio tosta, lunga e complicata, figurati farla, e a ogni centimetro di dito che si sposta t’immagini già le complicazioni, ma il pubblico rumoreggia, anzi ora tambureggia, mani sui braccioli e piedi per terra, e allora forza, facciamolo, e quindi tutto sorprendentemente si dipana, come un rotolo di filo lanciato nel pendio, saltella, s’intorcina, poi si sviluppa, e insomma tutto sommato scorre, e ti ritrovi come oggi, che mancano quattro mesi alla partenza, praticamente domani, e dunque ci siamo, anzi non ci siamo ancora, però ormai c’hai preso gusto, non è male come idea, e cominci a benedire quello che hai maledetto, e cioè di dirla ‘sta cosa del viaggio, perché il pubblico prima ti ha fregato, ti ha preso sul serio, e ora però gli sei grato, dunque anche a te stesso, perché magari lasciavi perdere, col mal di schiena che hai, il divano morbido davanti al camino, il romanzo da scrivere, e invece è bello che alla fine vai, anche perché quegli scrittori tutti vestaglia e retina per i capelli li hai sempre odiati, culi flaccidi che non siete altro, e perché poi parliamoci chiaro, tra un po’ è andata, pochi istanti e stiri le zampine come un passero nel gelo di febbraio, e a quel punto non solo non puoi più partire, non solo non ci sarà più il pubblico (tranne un’ultima uscita tutti in nero) ma non ci sarai neanche tu, con tutti quei sogni, quei progetti, quelle idee strampalate che, a vedere bene, per quanto poco, sono tutto il tuo mondo, cantastorie che non sei altro, immaginatore di professione, e con le zampe stese si sta meglio, secondo me, dopo essere partiti, anche perché ad andare, andare, andare si finisce con lo stancarsi, e dunque quelle propaggini di rana ormai inutili, forse, quel giorno, ti farà perfino un po’ piacere metterle lunghe, così da steso avrai qualcosa da ricordare, che è meglio, già che c’eri, le avevi, le hai usate e ora te ne puoi anche andare.

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Blue Monday

Ai sogni associo sempre dei piatti. Questo è Gamberone con gelato di patate (foto Cinzia Armelisasso)

Sognato mia madre, stanotte, credo verso le cinque, poi mi sono svegliato e non c’è stato verso di dormire più, era giovane, avrà avuto trent’anni, rossetto marcato, il sorriso della foto sul Mar Nero, quella che ho in camera, era allegra, insieme a un’amica, parlavamo, era un sogno dunque, l’ho capito lì, voleva dirmi una cosa, era contenta ma anche imbarazzata, perché mi faceva un regalo, mi regalava la macchina nuova, le sue amiche sorridevano, ora erano tre, ammirate, io ero felice, ma non sapevo come dirle che una vecchia auto ce l’ho già, che non mi serviva, pensavo a come fare, ma era tanta la gioia che ci parlassimo che indugiavo, e si stava lì senza far niente, un po’ gli scemi, qualche moina, fuori c’era il sole, forse eravamo a Roma, e mi ricordo che le dissi sai cosa, mamma, un’auto ce l’ho e non la uso che di rado, forse mi aiuti con l’affitto, in una città di mare dove voglio vivere un anno da tanto tempo, lei si ricordava, Palermo, oppure Istanbul, a scrivere il romanzo che mi spiegavi? e io mi commuovevo, perché si ricordava di quella storia di cui le avevo detto un pomeriggio, mentre rassettava la cucina, ma guarda, allora mi aveva ascoltato, mentre mi era parsa distratta, e lei faceva su e giù col mento, sì che mi ricordo, e sorrideva ancora, e io mi sono svegliato così, e per non disturbare ho lacrimato in silenzio, ma così non ti passa, le lacrime devono fare rumore, e tutto il giorno sono rimaste lì, tra dentro e fuori, come la pioggia, che ha smesso ma ogni tanto riappare, e per le vie della città non ho osservato tanto, lo sguardo basso, ma non fa niente, con la coda dell’occhio, mi è parso, non c’era niente da vedere, tranne un articolo di giornale, al bar, uno psicologo inglese, Università di Cardiff, dice che in base a un suo algoritmo il terzo lunedì di gennaio è il Blue Monday, la giornata più triste dell’anno, allora ho sorriso.

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A cosa servono i tetti

Tetti, particolare

Io amo i tetti, sempre invidiato i gatti, infatti, fin da piccolo, minuscoli Arsenio Lupin, o Gary Grant in Costa Azzurra, se c’era una finestra che dava su un tetto mi veniva naturale scavalcarla e andarmene a zonzo sulle tegole, attento che si rompono, e guardare tutto da lassù, che intanto sei solo, e questo aiuta, poi vedi le cose dall’alto, e questo è anche meglio, ma soprattutto sopra di te non c’è un ramo, un ombrellone, il soffitto e nemmeno un tetto, e questa cosa fa respirare, soggetti a niente, nessun ostacolo, nessun peso, anche se l’aria fa pressione, ma io non l’ho saputo che di recente, e quanto tempo ho passato seduto sul punto più alto del tetto della casa dove sono cresciuto, tanto, a fare foto, a fumare di nascosto, a guardare il tramonto, perfino a leggere, Hermann Hesse, mi pare le perle di vetro, o narciso, insomma, io adoro i tetti, e per un giorno e mezzo sono stato lì in alto, attento che cadi, sopra a tutto, a costruirne uno, tutto fuori squadro, un rebus architettonico, ma alla fine ce l’ho fatta, e c’era anche un gran cielo azzurro, un sole aranciato e stanco fin dall’alba, di quelli che ti sfiniscono addosso i raggi, e ho pensato (perché si pensa quando si costruisce un tetto, credo più che in ogni altra azione umana) che quando uno non si trova deve costruire un tetto, anche se non gli serve, soprattutto, primo perché non sa come si fa e deve ingegnarsi, poi perché un tetto è anche una metafora, proteggersi, trovarsi un angolo e starci sotto, ma soprattutto perché ci stai sopra, al tetto, antenna umana, comignolo energetico, bandiera esistenziale, e l’aria cambia subito verso, direzione, perché mentre guardi la valle da lassù non sei quaggiù nella valle, uno a zero, e vederla da sopra quelle tegole la fa sembrare tutta un’altra cosa, la valle, e anche tu, laggiù sembri diverso, piccolo, un po’ sghembo, un po’ ridicolo, ed ecco a cosa servono i tetti, mica per riparare dalla pioggia, mica per la neve, ma per salirci sopra, smettere di pensare dal basso, salvarsi l’anima scalino per scalino, alzandosi con la mente, che il pensiero da sotto in su riesce poco e male, e gustarsi il cielo a ditate, invece che subirne il peso, leccarselo con gli occhi, bello e leggero com’è dove sta lui, sereni, per un attimo, guardando in giù, che tutto sembra più piccolo, e anche te.

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Mai

Quando sto qui a questo penso...

Ieri improvvisamente ho pensato per la prima volta a una cosa, per la prima volta nella mia vita intendo, e cioè a tutto quello che mi sono perduto, che non è avvenuto, che non ho avuto, per la mia presenza, per il fatto stesso di essere lì dove le cose avvenivano, e ci sono arrivato pensando al principio (paradossale) della misurazione nella meccanica quantistica, secondo il quale non è possibile conoscere una particella senza modificarla, dunque quello che conosciamo non è mai ciò che volevamo conoscere, per quanto cauti siamo, e mi è venuto in mente che le cose stanno così anche con le persone, che sono in quel modo con me e in modo diverso (diversissimo) con te o con lui o con lei, e ho pensato anche che c’è modo e modo di modificare la realtà quando ci si arriva, perché uno può arrivarci in punta di piedi, sedersi in un angolo e ascoltare, oppure all’opposto, e dato che io l’ho modificata tanto la realtà, mi sono fissato su questo pensiero: chissà cosa mi sono perduto, quante cose e di che meraviglia, per il solo fatto di essere come sono fatto, uno che ne pensa una e ne fa tre, che parla un mucchio, che scrive un mucchio, che ha sempre qualcosa da dire, buona o cattiva che sia l’idea, che stimola, certo, che suscita, certo, tutto quello che si vuole, ma che modifica anche moltissimo proprio per quello, in meglio o in peggio non è interessante, e ho avuto nostalgia di ciò che la realtà è senza di me, che non conoscerò mai, e mi è venuta la tentazione di non muovermi mai più, di non aprire mai più bocca, per non modificare, per non perturbare, per vedere la vita com’è davvero, a prescindere dall’onda d’urto di me, per lasciare che gli altri siano, facciano, dicano, e modifichino me, invece, per il fatto stesso che arrivano, che ci sono, che dicono, che fanno, e ho provato a immaginarli tutti (almeno quelli che mi interessano) in mia assenza, chi saranno veramente, cosa diranno, cosa manifesteranno, e non saperlo mi ha rattristato, e se tornassi indietro credo che starei più zitto, mi muoverei meno, forse modifico troppo, forse suscito troppo, e finisce che il danno vero ce l’ho io, che in tutto questo ronzare e studiare finisco col non conoscere altro che me, invece di conoscere gli altri come invece penso, come vorrei, soprattutto per come loro sono davvero, e questo mi ha ottuso molto, anche perché la faccenda della meccanica quantistica un po’ ti fa sentire in colpa, una specie di spagnolo tardo-quattrocentesco nelle Americhe della realtà, un distruttore, inquinatore, perturbatore, mentre forse le cose da sole, senza di noi, sono così belle, così placide, in equilibrio, solo che noi non lo sapremo mai.

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Il Timone

Mediterranea alla fonda. Che la sua prua e la sua rotta coincidano sempre dentro di noi. Il fuori è sempre, solo, una conseguenza.

 

Rispondendo poco fa all’email di un nuovo amico, che ha deciso di imbarcarsi su Mediterranea con me:

“… passione, scelte vere, individuali, azione, e poi condivisione. Così si cambiano le cose, le proprie certamente, ma anche le altrui. Ognuno di noi ha un pubblico, chi ci vede, chi ci osserva, chi ci misura. Un pubblico fatto da almeno uno spettatore, noi, e poi gli altri. Ognuno di noi è il testimonial ideale del mondo ideale che ha in mente. Chi meglio di lui può spiegarlo, rappresentarlo, mostrarne pregi e vantaggi?

A ognuno di noi deve essere sempre chiara la duplice responsabilità, l’orgoglio perfino, di occuparsi di una vita, la propria, e facendolo fare politica, occupandosi anche delle altre che stanno intorno. Per Obama e la Merkel sono tutte le persone del mondo, per un personaggio pubblico il suo parterre di appassionati, per chi scrive i suoi lettori, per il sindaco i suoi cittadini, per un padre la famiglia e le famiglie amiche, per l’eremita se stesso e chi sa di lui. Ognuno.

Il potere che abbiamo sulle nostre vite è enorme, smisurato, incommensurabilmente maggiore a quel che pensiamo, straordinariamente più potente sugli altri di quel che ci vogliono far pensare loro stessi. Ma non vedi, caro S., ogni sera, quando vai a dormire, prima di addormentarti, come ripensi a queste parole che stai leggendo adesso, o a quel che ti ha detto quella persona, o a quel che hai visto fare…? La tua vita quel giorno è cambiata. Mezzo grado bussola, anche meno, ma ti porterà a miglia di distanza dalla meta precedente, a fine rotta.

Il timoniere sa che non è l’arrivo, il suo momento, ma la partenza. E anche la sua barca lo sa, lo sente! Quel che lui ha in mano è un oggetto in suo esclusivo e totale potere, strumento preciso assai più per tenerla, la rotta, che non per perderla, ma assai più a rischio di quest’ultima che della prima, perché perdere la rotta è facile, tenerla è arduo.

Quel che ci riguarda, non essendo ancora alla meta, ed essendo che quando ci fossimo sarebbe tardi, è l’indirizzo della prua. Adesso“.

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Domani, grazie al cielo…

E’ bastato andare a Marsiglia, al MUCEM (noto come il Museo del Mediterraneo), per essere assaliti dai dubbi. Ce la farò? Ce la faremo? Mediterranea è solo una barca, noi solo piccoli uomini e donne… e il Mediterraneo è immenso. Chi ne parla come un piccolo mare non ha capito. Non tanto per le 20.000 miglia che faremo (anche di più. La traversata atlantica è 2000 e rotti) ma per la ricchezza e vastità dell’esperienza umana complessiva lungo 28 paesi, tre continenti, tre grandi religioni principali, etnie, climi, variazioni di mare e vento a seconda delle stagioni. Eppure partiremo, salperemo un bel giorno di brezza, a maggio, e ci parrà tutto possibile

Oggi giornata di grandi riflessioni. Ieri sera ho vomitato, e la notte l’ho trascorsa a pensare cose orribili. Mi è già successo di vomitare senza motivo i primi di settembre. Io non ho mai questo genere di problemi. Che malattia ho, pensavo? E’ già quella malattia? Così presto? Ricordo di aver pensato a lungo a questi ultimi sei anni di vita, e di aver sorriso.

Oggi giornata di digiuno totale. Solo tè senza zucchero. Lo facevo da ragazzo, con grandi proteste di mia madre. Avevo quindici anni, facevo judo e volevo rientrare nella categoria di peso inferiore, ma soprattutto avevo appena letto il Tao Te Ching, di Lao Tsu. Digiunavo una volta a settimana e leggevo: “Liberato dal desiderio, puoi vedere il mistero celato. Avendo desiderio, puoi solo vedere ciò che è tangibile”. Diventavo pazzo su questa frase. “Liberato”… come si faceva a liberarsi? E qual era il mistero celato? Anche un’altra mi perseguitava: “Compiuta l’opera egli non rimane e proprio perché non rimane non gli viene tolto”. Chi ha letto Stojan Decu capirà molte cose. Dire invece che io capissi il Tao, beh… ma mi affascinava.

Stanotte, verso le cinque, non c’era modo di dormire. Il corpo arrancava, la mente era velocissima. Allora ho ripreso in mano “Il libro della via e della virtù”, come viene chiamato il Tao. Nel delirio capivo meglio di allora. Ho perfino pensato che si potesse morire, che non era grave. Oggi invece bevo tè, e forse sento sorgere un inizio di fame. Ma sono debole. Domani, grazie al cielo, riposerò.

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Anno nostro

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