6 Anni in Tablet

 

Sei anni. Per mesi mi è girata nella mente questa data: gennaio 2008. Si dice che dopo sei anni nessuna cellula del nostro corpo sia più la stessa. Il fisico muore e si rigenera. L’anima anche, forse, ma in modi assai diversi e imprevedibili. Io sono alla Terza Vita, ormai. La prima va dal 1965 al 1999; la seconda dal 2000 al 2008. La terza è questa, e di anni ne ha compiuti sei.

Ma il senso di un traguardo, come nella maratona, non lo fa la distanza, bensì l’uomo che l’ha raggiunto, le crisi, le soluzioni delle crisi, il sentimento di sé durante, e poi alla fine. L’occhio che guarda all’interno ha un suo proprio sentimento del tempo. Però stavolta ci si giocavano i coglioni, non foss’altro perché le regole di questa Terza Vita le scrivevo mentre la vivevo, non seguivo alcuna via segnata, non c’era letteratura, manualistica, e apparentemente tutto giocava a mio sfavore.

Io sono ancora qui, e questo, se mi consentite, è già qualcosa. Ma se finisse domani, mi sono detto, è bene fare il punto adesso. Io ho sempre amato fare il punto. Dei report annuali mi piace la nettezza, il rigore dei fatti, e lo ammetto, anche la relazione di bilancio. Di solito scelgo il bar più piccolo di un porto del Mediterraneo, mi siedo alla controra, vi spendo tutto il tempo della luce rimanente, prendo appunti, elenco, faccio schemi impietosi, tiro righe come fossero mannaie, fili tesi nella polenta del compiacimento e delle false autoassoluzioni. Stavolta invece ho fatto un piccolo film. Il mio primo corto. Tecnicamente, guardatelo con benevolenza, sto imparando. Come a vivere, del resto.

 

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Ponti

Ortakoi, e il suo ponte sul Bosforo, vista da est

Giornata strana, ricca, iniziata e finita col dolore alla schiena, lo stupore del dolore… dunque anche col bisogno dell’immaginazione, essere trasportato in un altro mondo, lontano a sufficienza per non dover più dire ahi!

Al parco, brezza di primavera, sole di maestrale. Facevo fatica a tenere gli occhi sul libro, dai colori. Poi Istanbul ha vinto, è prevalso l’Huzun, il senso di nostalgia e vago dolore malinconico per la fine di un’epoca, di un popolo, qualcosa che non torna, ma c’era. M. mi aveva detto di non averlo trovato chissà che, l’ho portato con me per scorrerlo, guardarci dentro appena. Ozpetek non è uno scrittore, però il suo filo mi ha irretito, l’ho seguito. Un libro che si legge in due ore, Rosso Istanbul. Fatico invece a dare un titolo alla mia giornata di oggi. Può essere stata felice, soffrendo?

I libri non esistono, esistono solo i lettori. Sono solo specchi davanti a cui ci troviamo per controllarci il rossetto, o i baffi, il mascara o i capelli. Il nostro sguardo è vuoto, di vetro. A volte distogliamo gli occhi e proseguiamo oltre; a volte smettiamo di riavviarci la frangia, ci immobilizziamo, scorgiamo qualcosa in quel disegno asimmetrico che dovrebbe essere un volto: il nostro, l’unica cosa che non avremmo pensato di vedere. Ma allora, cosa cercavamo? Solo i libri possono distrarre da ciò che ci distrae, e non hanno colpe né meriti, come gli amanti.

Giornata indefinibile, che legherò a questo libro. Sarà che Istanbul è una delle mie tre o quattro città dell’anima, che mi aspetta in fondo a questo anno, a dicembre, sarà che da giorni la mia parte maschile è quasi sopita, sono più fragile, ogni cosa mi tocca. Sarà forse che il pirata che studio e descrivo è turco, Dragut. Sarà che ultimamente posso cogliere solo i fili delle trame, non tutto il disegno, di quelli che non puoi tirare e si spezzano, e l’unica cosa è tenerli nel palmo della mano, con cautela.

Cittadino del Mediterraneo di lingua italiana, sogno da sempre di unire le mie isole. Le pagine sono ponti. Forse è per questo che scrivo.

Rosso Istanbul

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La verità vi fa male si sa

Questo brano dovrebbe leggerlo anche Sminkey, il mio gatto, che ha un pessimo carattere e non si dice la verità su se stesso

Noi ci diciamo una marea di cazzate, si chiama fiction, la finzione, ma nel senso più leopardiano e pessoiano del termine, ovvero che “il poeta è un fingitore” in quanto nel suo pensier si finge, cioè si immagina come non è, e dunque in qualche modo lo diventa, perché il poeta la realtà la crea, ma non è il solo, siamo tutti così, morale: di ogni cosa noi ci raccontiamo le storie necessarie perché diventi ciò che non è e noi diventiamo ciò che non siamo, cioè lei accettabile e noi innocenti, come quella vicenda con quella ragazza, finita perché lei, perché poi, perché alla fine… o quel lavoro che abbiamo perso mica perché non eravamo capaci, noooo, piuttosto perché quello, perché l’azienda, perché il capo… solo che quelle storie non sono andate così, a vedere bene, e per salvarci l’anima finisce che non capiamo, il che vuol dire che ci candidiamo subito a rifare gli stessi errori.

Per riesumare tutti questi cold-case e ristabilire davvero la dinamica dei fatti dovremmo fermarci un istante, mettere tutto su carta magari, ricordare quell’aspetto che abbiamo rimosso volutamente (ci ha lasciato lei, la stronza, ma i sei mesi precedenti noi cosa avevamo fatto? ad esempio quel certo giorno…?), comprendere a ritroso quell’infingimento dopo aver dissotterrato la realtà, e vi confido che a me capita da sempre, in modo sempre più lucido, di dirmi “questo lo stai facendo per questo motivo, sii sincero” ed è una confessione silenziosa, neanche al prete, solo tra me e me, e se guardo bene il motivo è diverso da quello che dichiarerei o che si sa, “sto andando lì perché mi daranno ruolo, perché mi applaudiranno”, o il contrario “perché non mi chiederanno niente, sarò salvo” e non perché sono un ambientalista o sono motivato su quella causa o cazzate del genere, ma per mere questioni di narcisismo o d’opportunità.

Un tempo queste confessioni le facevo tra me e poi rimuovevo tutto, talmente scomoda quella realtà da non potersi dire neppure una seconda volta, perché ne sarebbe emerso un uomo diverso che io non volevo sembrare, agli altri e a me, e invece ormai da anni queste cose me le dico e me le ricordo, ne traggo essenze talvolta amare ma assai vere, che servono molto per capire e scegliere, ed ecco la politica, la filosofia, senza queste gocce di verità sono impossibili, sono palle, roba che non può convincerci, come quello che dice che bisogna essere moderati e poi a casa sua ti aggredisce, quella cosa non è vera, lui non è vero, ed ecco perché vi propongo, una volta al mese, mica tanto, invece di partecipare alla politica, all’associazionismo, di cambiare il mondo partendo da voi, dunque di prendere un foglio, standovene da soli una mezz’oretta almeno, per fare un esercizio che è più utile al Paese di andare a votare:

mettetevi comodi, rigorosamente da soli, possibilmente in un luogo silenzioso, e su quel foglio scriveteci i tre o quattro eventi centrali di quel periodo, le cose accadute, fatte, le scelte assunte e via così e accanto metteteci il vero motivo per cui sono avvenute, non quello che vi siete detto o che avete dichiarato, e fatelo sinceramente, in totale onestà, cioè se ci siamo arrabbiati per cosa davvero ci siamo arrabbiati (le “questioni di principio”, ad esempio, non esistono, capite cosa intendo?) e accanto, un’altra colonna: l’aspetto di noi che genera quella motivazione, cioè il bisogno da cui quell’atto è scaturito, vi faccio un esempio: dovevamo andare al cinema con Paolina, ma lei ha cambiato programma perché è interessata a quella cosa che fa Giorgino, e io mi sono incazzato perché non si fa così, non si cambia un programma, avevamo detto che, e tu non hai rispetto, etc etc, solo che il punto è che in cuor mio so che io non mi impegno in cose interessanti e quindi sono geloso, dunque debole, però me la sono presa con lei invece che con me, e capite che se fate questo vi appare una mappa percorribile, e cioè quello che potreste fare per smettere di essere così deboli, dunque gelosi, dunque incazzarvi con Paolina, farvi sedurre da qualcosa che qualcuno (Giorgino) fa con passione e prendere il meglio da ciò che avviene, e smettereste di dire che Paolina è stronza e non vi ama più come prima, il che ha una caratteristica duplice, primo: non è vero, secondo: lo diventerà (vero) se non la piantate, e addio Paolina, mentre se lo capite forse, invece… ed ecco che la vita (la vostra) cambia, e quando vi incontro cambia anche la mia, che è il (vero) motivo per cui ho scritto questo brano. Non lo faccio per voi, ma per me.

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Altrove e domande

Mediterraneo nord occidentale, gennaio 2014

Il Mediterraneo è qui. Siamo noi. Eppure sembra laggiù, un po’ scostato, sempre qualche miglio più a sud, o a est. Come fa un mondo, una cultura, un significato, ad essere al tempo stesso qui e altrove? Forse il Mediterraneo è questo altrove, o almeno così lo percepiamo dalle sale riunioni climatizzate, dalle case di cemento delle città, dalle stanze d’albergo in cui non si possono neppure aprire le finestre. Dunque non è il Mediterraneo a essere altrove, siamo noi che non siamo qui.

E’ accaduto anche col tempo, col benessere interiore, con le relazioni… Dovrebbero essere qui, funzioni fondamentali delle nostre vite, eppure non ci sono mai: il tempo corre via, e attendiamo sempre di averne per fare qualcosa che oggi non possiamo fare; il benessere interiore, cui dovremmo attendere ogni istante della nostra vita, diventa un’ora di yoga tre volte a settimana, o trentacinque minuti di jogging, o una serata al mese in serena solitudine; le relazioni, devastate dalla promiscuità imposta dal lavoro, dalle opportunità sociali, diventano esclusivamente remote, virtuali, distanti. Se a questo aggiungiamo crisi economica, di valori, di prospettive, che quadro emerge da questa nostra epoca? C’è ancora spazio per il sogno, il progetto, la speranza, la politica, l’amore?

Un magma esistenziale inizia a generare frutti quando diventa una domanda, o una serie di quesiti le cui risposte aiuterebbero comprensione prima, azione e vita poi. Una buona domanda, dunque, è cosa assai importante. Le domande fanno paura, perché spingono alla ricerca, all’analisi, alla meditazione, al dialogo. Una domanda che non generi un’investigazione, invece, è la più tragica delle sconfitte. Come si fa a percepire un domanda senza poi provare a trovare una risposta, per quanto difficile, per quanto scomoda ed enigmatica?

Ecco perché Mediterranea. Per navigare lenti alla ricerca di queste risposte. O meglio, per riprodurre, reiterare, riformulare le domande. Ed ecco perché qui, in questo altrove così vicino e lontano da noi: il Mediterraneo. Il centro del mondo del sapere, della cultura, ma anche il luogo dove l’uomo ha saputo pensare e temere il pensiero, progettare e distruggere, e dove deve necessariamente esistere una profonda eredità degli errori e delle buone pratiche. Come uomini di questo tempo, non possiamo non cercare qui, nella macro area del Mediterraneo, le teste, le idee, le domande, le possibili risposte a questa epoca complessa, tragicamente in crisi.

Il metodo di ricerca sarà il più mediterraneo tra quelli escogitati dall’uomo: il dialogo socratico, l’incontro. Andremo dunque per le coste di 29 paesi, porteremo un messaggio di pace, apriremo la barca a intellettuali, scrittori, artisti, giornalisti, uomini di cultura, per incontrare i nostri simili, uomini del Mediterraneo, chiedere loro cosa sanno, cosa vedono dal loro punto d’osservazione, discutere con loro, per ascoltarli e capire. Incontreremo i loro pensieri, e tramite loro i loro paesi, le loro prospettive. Bisogna andare per il Mediterraneo a chiedere, questo ci è sembrato, e questo Mediterranea farà, consapevole che l’incontro non organizzato e inatteso non ci prenderà alla sprovvista. Anzi, lo stiamo già aspettando.

(tratto dalla pagina “Progetto Culturale” del sito di Mediterranea. Se ti interessa prosegui la lettura qui)

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Insubordinazione, euro e altri gelati

Ma che espressione avevo qui?

A stare da soli si perde la sintassi, si inventano parole in modo asistematico e confuso, si coacerva, si mescola, e la prima esperienza della solitudine è che questa vita in mezzo alla gente (che non vorresti mai incontrare) ti costringe a mettere ordine, a clusterizzare, che parola oscena, il che ti rende più efficiente ma finisce che poi non pensi, diventi ordinato ma vuoto, ed è per questo che a furia di star qui da solo nel mio eremo metto in relazione cose diverse tra loro, che forse poco c’entrano l’una con l’altra, ma a me sembra invece che comunichino qualcosa, ed eccole qui: la prima è David Grassi, ingegnere imbarcato sulla Maestrale della Marina Italiana, il quale si oppone, lui, uno, solitario, agli ordini del comandante (aiuto!) di sversare in mare liquami inquinanti, e per questo viene fatto oggetto di mobbing, gli fanno schede comportamentali negative, fino che deve congedarsi… ecco Davide redivivo, armato solo di una mazzafionda, contro Golia leviatano del potere inquinante e becero, dunque per questo mio eroe della settimana, l’uomo che cambierà il mondo. Il tuo.

La seconda è il manuale per il dipendente di Grom, segretissimo, vietato portarlo fuori dal negozio e mostrarlo, che però io ricevo in foto via facebook da una gola profonda, in cui si fa l’elenco a distico dei Vincenti e Perdenti (ma che è una gara lavorare da Grom?), quelli cioè che hanno senso, che sono inseriti, quelli ok, che ce la faranno a fare dei bei coni gelato ecocompatibili, equi e solidali, col pistacchio raccolto a mano da bravi contadini guatemaltechi che ricevono il giusto senza essere sfruttati, quelli che fanno i bravi soldatini, ma Grom non era un modello di new-economy e tutte quelle belle storie che ci hanno anche scritto un libro che i radical chic sono corsi a comprare? e tutto questo non mi suona bene, perché quel manuale sembra una roba berlusconiana Anni ’80, piena di cazzate, soprattutto la frase finale, “Un vincente va d’accordo con tutti, Un perdente è un solitario” (aiuto!) e l’autocoscienza oggi è questo: capire da un gelataio che sei un perdente, o almeno, che lo sono io.

La terza è un numero, 80, cioè gli euro in busta paga che il Governo guidato da Matteorenzi farà trovare a 10 milioni di italiani dal 27 maggio, e sono il salario del consenso, 80 euro per votarlo, 80 euro per sentirsi meglio, per essere più ricchi, per spendere di più, per far ripartire la crisi: “io te li do così tu spendi e il PIL risale”, non importa in cosa, comprate qualunque cazzata vi capiti, ma che bella trovata, come i siti di slot-machine che se ti iscrivi ti danno un bonus di 50 euro così tu giochi e poi ti piace, e quei pochi miseri 80 euro fanno felici tutti, e infatti la Camusso (quella che vuole che lavorate sempre, tutti, per sempre, e non si occupa del benessere ma del lavoro) e Marchionne (quello che vuole la stessa cosa della Camusso, e possibilmente senza protestare e guadagnando poco) sono felici pure loro, anche se Matteorenzi non parla di alcun nuovo schema di sviluppo del Paese, alcun rinnovamento delle regole di base del capitalismo, solo ripresa e crescita, e lavorare meno per vivere meglio, per avere più tempo per la vita, per lavorare tutti abbattendo la disoccupazione non gli interessa, come anche l’ambiente, il recupero del territorio, grazie a dio nessun taglio alla scuola (e vorrei vedere!), dove impareremo prima o poi 1) che gli ordini sbagliati non vanno eseguiti 2) che gelatai e mercanti (con tutto il rispetto) non sono i maître à penser della contemporaneità 3) che noi valiamo più di 80 euro. Almeno, si spera…

 

(Dal Manuale del dipendente di GROM)

VINCENTI E PERDENTI

Un vincente si sente personalmente responsabile di contribuire al successo della società
Un perdente dice “ci lavoro semplicemente”

Un vincente dice “è un lavoro duro ma posso farcela”
Un perdente dice “Questo lavoro è troppo duro per me”

Un vincente dice “Lascia che ti dia una mano”
Un perdente dice “Non è compito mio”

Un vincente è sempre disposto ad ascoltare
Un perdente vuole sempre essere l’unico a parlare

Un vincente accetta critiche e consigli
Un perdente si mette sulla difensiva e diventa aggressivo

Un vincente cerca le soluzioni a un problema
Un perdente vede problemi in ogni soluzione

Un vincente dice “posso sempre migliorare”
Un perdente dice “non potrò mai fare meglio di così”

Un vincente è una persona felice
Un perdente è una persona disillusa

Un vincente va d’accordo con tutti
Un perdente è un solitario

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Importa eccome…

Su LinkedIn ho trovato per caso un articolo che ha questo titolo: “How to Get a Job – No Matter What!”. Ho subito pensato che avrei scritto l’opposto: non cercate qualunque lavoro. Soprattutto, non fatelo.

Molti lavori non sono adatti a voi. In altri lavori invece soffrireste, fareste le cose mal volentieri, con pessimi risultati. Dunque non vi conviene. Ma c’è di più: molti lavori sono nocivi alla società, e tantissimi sono inutili, dunque sprecano la vostra prestazione, le vostre fatiche non costruiscono nulla. Noi siamo mal messi anche e soprattutto per questo.

Quando dico che potremmo vivere già oggi, domattina, in un mondo più simile all’idea che ne abbiamo, intendo dire proprio questo: fare un lavoro rispetto a un altro non è la stessa cosa, cambia tanto, e non solo per voi, anche per il mondo. Non lavorate nell’industria bellica o collegata ad essa, siete corresponsabili della morte delle persone su cui quelle armi verranno usate. Non credete alle balle sulle deterrenze, pensate a cosa dice Gino Strada: “cominciamo a non fare questa guerra…”. Non lavorate nelle banche dove si strozzano i clienti, dove si propongono derivati alle amministrazioni comunali o dove si vendono fondi speculativi alle vecchie signore. Non lavorate in Novartis e Roche se i vari gradi di giudizio diranno che è vero che hanno fatto cartello e pressioni per diffondere un farmaco da 900 euro invece che uno, identico, da 80. Non lavorate nell’energia che inquina, nella produzione o vendita di prodotti inutili e nocivi per l’ambiente, non lavorate nelle aziende che imbottigliano e commercializzano acque minerali, non lavorate in finanza. Non lavorate nelle aziende che calpestano i diritti, che trattano male i dipendenti, che spingono gli impiegati a mettere il lavoro prima della vita. Non lavorate dove si mettono sul mercato cazzate, dove gli spot impongono mode inutili, dove escono milioni di prodotti che non servono, che ci rendono schiavi dei mutui, dei debiti, del lavoro. Non lo fate.

Silvano Agosti dice che “siete opere d’arte” (chi più chi meno…)… Non so se sia così, ma se lo siete davvero, dimostratelo. Non sprecate i talenti che avete stando male, facendovi del male, contribuendo al degrado, alla decadenza di questa civiltà, solo per avere un impiego, per denaro, per noia, o solo perché diventare sobri, gente che vive con poco, vi sembra misero, vi spaventa, non ne avete la forza. Non siate gente comune, che si sente niente se non ha, perché non siete comuni, siete solo persone qualunque, dunque identiche a tutte le altre, e potete fare le stesse cose che fa ognuno che abbia detto “no”, chiunque sia cambiato, abbia accostato la sua rotta per l’isola dove ha davvero senso atterrare. Non rinunciate all’idea di seguire quello che siete, e dunque di inventarvelo un lavoro che serve, che è utile, che ha senso per voi come esseri umani e per il mondo in cui vivete. Prima di dire che non si può, dovete aver tentato ed essere falliti almeno cento volte, altrimenti è solo un alibi.

Non gettate via il vostro tempo, l’unica risorsa totalmente non rinnovabile della vita, la più preziosa che avete. La via per la salute, interiore soprattutto, matrice di tutti i possibili stati di benessere della vostra vita, quando la cominciate? I compromessi ci sono, nessuno sostiene il contrario. Ma che siano temporanei, se proprio dovete accettarli, e non, mai! sulle questioni di fondo. Io ho dovuto fare due o tre cose, nei quasi vent’anni che ho lavorato, di cui mi pento. Mi salva solo il pensiero che ne ero consapevole, che già allora avrei voluto fare diverso, e soprattutto che poi l’ho fatto.

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Il dosso

Una delle cose che è possibile osservare (se non si corre) sul dosso: i miei narcisi

Accanto a casa mia, sulla piccola stradina che si inerpica sulla proda nord della Val di Vara, c’è un piccolo dosso. Non si tratta di un dosso a schiena d’asino, ma solo di una gobbetta.

Mi è chiara, lo dico subito, la natura propria dei dossi, che è quella di non consentire di vedere molto al di là, un po’ come accade nella vita. Mi è chiaro anche che la larghezza della stradina è bastante per una sola macchina, dunque in quel punto occorre prestare attenzione. Su quel dossetto, del resto, passo anche io.

Quello che non mi è chiaro, e lo dico senza sarcasmo, è il comportamento della maggior parte delle (poche) macchine che vi transitano. Già perché quasi tutti suonano. Pi pi! Poti poti! e cose analoghe. Qualcuno dà un colpetto di clacson, più per sé, diciamo così, mentre gli altri suonano più volte, componendo abbozzi di ritmiche insondabili, o dilungandosi in strombazzate di varia durata e intensità. Si capisce molto del loro carattere da come si annunciano. Naturalmente, l’unica cosa da fare nessuno la fa: rallentare.

Questo comportamento mi ha incuriosito fin da quando sono venuto ad abitare qui. L’approccio ontologico e relazionale, è: “se viene un’auto dall’altra parte avremo poco tempo per vederci e all’occorrenza frenare, dunque potrebbe essere pericoloso, e io, che sono furbo e previdente, avviso l’altro col clacson, in modo che rallenti, che stia attento, che sappia che sto arrivando di gran carriera”.

Come detto, e come chiunque potrebbe comprendere, l’unica cosa utile sarebbe rallentare appena, per l’istante necessario a scavallare, e invece quasi tutti corrono e suonano. Chissà dove devono andare così di corsa questi moderni e rivoluzionari Copernico, quale virus della febbre gialla debbano isolare questi redivivi Walter Reed, quale misterioso passaggio a Nord Ovest stiano per scoprire questi capitani Jens Munk, tanto da non poter rallentare neppure per qualche istante. Chissà come affrontano i problemi della loro impresa, se l’approccio alla sicurezza è “suono così lui è avvisato”, o come sono affidabili in amore, nell’amicizia, se quando non hanno visibilità accelerano invece di rallentare. Chissà come votano… Nessuno di loro, ho dimenticato di dirlo, ha la cintura di sicurezza allacciata. Del resto, se suoni il clacson, a che serve la cintura? Giusto…

Quando leggerete una frase che non vi suona bene in un mio libro, sappiate che mentre la scrivevo è passato certamente qualcuno qui sotto. Suonando. Immerso nel silenzio come vivo, sobbalzo a ogni apparizione sonora della civiltà, e ogni volta vengo risucchiato nel gorgo dell’assurdo, uscendo da quello della storia che sto costruendo. Non serve, immagino, che io riporti l’esatta natura dei miei commenti ad ogni colpo di clacson. La potete immaginare. Spazia dal mio giudizio sull’umanità a quello sulle divinità, con ampie iniezioni circa i possibili utilizzi autoerotici del clacson, della leva del cambio, dell’auto nel suo complesso, fino ad approfondite valutazioni inerenti le abitudini sessuali della mamma, della nonna e financo della bisnonna dei veloci transitanti. Se passate di qui e sul dosso suonate accelerando, badate di tenere chiuso il finestrino se avete a bordo dei minori, o se vi piace il turpiloquio e l’invettiva sagace, abbassatelo.

Così va il mondo in Val di Vara nella seconda decade degli anni 2000, ma direi nel Paese tutto. Tanto che ho eletto il passaggio su questo dosso rallentando e senza suonare come il gesto politico più rivoluzionario ed efficace in questa piccola porzione di Paese. Proprio come fa un signore piuttosto corpulento, schiacciato nel piccolo abitacolo della sua Ape bofonchiante. E’ l’unico che non suona mai. Anzi, col fatto di dover rallentare per via del dosso, vedo che coglie sempre l’occasione per guardarsi un po’ in giro, apprezzare la bella natura del posto, sbirciare se ho apportato qualche miglioria alla mia casa, e se io sono lì in giro alza il mento e mi fa un sorriso, che ricambio sempre con personale (e politico) compiacimento.

La prima volta che divento Presidente del consiglio, ricordatemi di farlo Ministro dei trasporti. Anzi, no, della cultura.

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Ormai è tardi…

Life - tavolo da esterni (legna da pallet, passoni di quercia, tirafondi, filo di ferro zincato)

Quando non trovi più niente, qualunque giorno sia, se pioviggina a tratti e senti calare sull’animo tuo un umido e triste novembre, dunque non solo perché non trovi, ma soprattutto perché non sai cercare, almeno non quel giorno, finisce che ti tiri su le maniche e cominci a riordinare, ogni cosa un posto un posto per ogni cosa, le pinze lì, i martelli lassù, i cacciavite in fila, le chiavi inglesi per numero, perché si chiamano inglesi? il pappagallo appeso, perché si chiama pappagallo è chiaro, però potrebbe chiamarsi anche la chela, passami la chela guagliò, il flessibile sul ripiano, non mi è mai parso molto flessibile, a Roma infatti lo chiamano frullino, già più intuitivo, poi metti in ordine i tirafondi, che adoro, specie di tiratardi degli angiporti, bohemien da strapazzo che si avvitano in discorsi senza fine, poi le spatole, la tenaglia, un mascalzone che ti stritola, una canaglia, e ancora i dadi, il CRC, che preferivo quando si chiamava Svitol e mi ricordava il mostriciattolo glabro degli hobbit, la morsa, imbattibile e crudele, il seghetto alternativo, che mi ha sempre fatto ridere, ma che nome è seghetto alternativo, alternativo a che?! poi dicono che uno fa battute sconce… e quando hai messo a posto il grosso ti accorgi che il tavolo è ancora pieno, miriadi di oggetti senza nome, avanzi, cose che non hai buttato, che non sai a cosa possano servirti, ma che non hanno un posto, e dato che conservi i contenitori del gelato, delle olive, delle mozzarelle, vai in cucina e prendi tutti i barattoli che hai, molto soddisfatto, e torni nella tua piccola officina certo che ce la farai, ma lì comincia il dramma, unire chi con chi? catalogare, immaginando quando potrebbero servirti e con che ratio li cercherai? oppure per la forma? la funzione? quello che blocca insieme, quello che scorre insieme, quello che fissa insieme, oppure no, il materiale, anzi, quello che pensi che ci farai: oggetti per le sculture, strumenti per aggiustare, materiali per costruire, ma anche così non va, e allora ti fermi e capisci che se le cose avessero un ordine basterebbe ritrovarlo, ma solo l’immaginazione può governare il caos, ed ecco perché esiste l’arte, che con la fantasia presiede e illustra l’aritmico e insensato pulsare della vita, quello che la religione supera a piè pari con Dio e il razionalismo sottostima con la scienza, perché a te di credere e misurare non è mai importato, né chiese né laboratori sanno darti l’emozione dello studio di un artista, come questo banco, dove le tue mani sanno maneggiare più che la tua mente ragionare o il tuo cuore sperare, ed è per questo che ami questo luogo, e domani un posto a ogni cosa lo troveremo, che ormai è tardi, e tutto è ancora sparso sul tavolo, e saranno due ore che guardi, fermo, cosa guardi, e soprattutto cosa vedi? forse sei matto, e pretendevi di trovare un ordine alle cose?

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