Forse, stamattina…

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Guardo la barca nel nero della notte. Vedo solo la sagoma scura, e so solo che è francese. Una raffica la spinge ad arretrare, la seconda le strappa l’àncora dal fondo. Scatto in piedi, dieci metri e si sfracella sugli scogli. Torcia, urla. Non si svegliano. Saltiamo sul tender mentre continuiamo a segnalare e fischiare forte. Finalmente vengono fuori. Ci vuole un po’ perché capiscano. Poco dopo la barca è in salvo. Meno di due settimane fa, stessa scena. Due velisti anziani, austriaci, vento forte a Porto Cayo. Fischia, urla, di corsa a mettermi il costume per buttarmi in acqua e avvisarli. Dietro, anche lì, la scogliera. “Le barche si perdono a terra”. Cioè quando non sono del tutto in mare.

Paris, uno skipper greco con cui parlo del nostro progetto a Monenvasia, mi guarda con gli occhi sottili. E’ attento, una bella faccia. Mi interrompe: “Che bell’idea. Siete grandi. Mediterranean is the power of life…”. Mi dà il suo biglietto da visita, ad Atene possiamo contare su di lui. Gli uomini che incontri in mare ti guardano sempre negli occhi quando ti stringono la mano. Gli occhi sono importanti, in mare. Non solo.

Qualche sera fa, tramonto di quelli che si ricordano, temperatura, mare, vento, colori ideali. Una scena che ha dell’incredibile. Restiamo in silenzio, poi F. lo rompe: “Darei qualunque cosa per essere qui”. Tutti ridono. Io annoto la frase dentro di me. E’ acuta, metaforica, paradossale. Ma soprattutto, nel suo caso, e forse anche nel mio, è vera. Stare in un luogo ed esserci non sono la stessa cosa.

Notte insonne. Un po’ di Maestrale, due barche che vanno via e sono costrette a rifare l’ancoraggio. Ma soprattutto il vento caldo, asciutto, che ti leviga l’anima e la sparge nella notte. Ora fumo una sigaretta in pozzetto, dopo aver portato a terra due di noi che alle 5 avevano l’aliscafo, aver preparato il caffè, essermi tolto la maglia. Mezzo nudo, il sole caldo, il vento in calo. Mediterranea sussulta sotto un’ultima raffica. Le barche sono sempre per mare. Gli uomini ogni tanto arrivano, vanno via. Forse stamattina sono qui, e non nell’altrove in cui ci perdiamo sempre. Almeno per un istante, sono qui. Sorrido perché ieri mattina, stesso posto, stessa scena, non ho capito l’alba, e l’ho perduta.

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Quello che dovevi cercare…

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Lo abbiamo trovato, possibile? Di già? Cinque anni, un viaggio immenso tra le epoche delle nostre vite. Possibile aver già trovato il Mediterraneo? Eppure è qui, eccolo, è in questo luogo assoluto, duro, selvaggio. Lo guardo per un’ultima volta mentre salpiamo alle sei di mattina. Porto Cayo, antro, riparo, covo, tre notti e due giorni strapazzati da sua maestà, il Maestrale, inchiodati in una rada chiusa, protetta da mare, capace di esaltare i venti di ponente con le sue schiene alte di roccia. Indescrivibile Mediterraneo, base dei temibili pirati del Mani, i cui sacerdoti accoglievano le barche forestiere con doni, attirandoli a terra, per poi farli depredare dai compagni nascosti e fingersi inconsapevoli della trappola, negoziatori del loro rilascio. Storie millenarie, del tutto dimenticate, come non fossero mai state, come l’architettura Maniota, pietra a torri squadrate, borghi in eterna faida, oggi dimore splendide e austere, dove nascondere amori impossibili. Mediterraneo che ci mantiene, da giorni mangiamo la grande leccia, i cefali guizzanti, gli alalunga carnosi. Mediterraneo difficile da parare, anche con sessantacinque metri di catena, collegati al fondo dalla marra irresistibile di un’àncora disperata. Mediterraneo di luce aranciata, di azzurro accecante, del nero infestato di stelle, delle guardie notturne insonnoliti sotto le raffiche a quarantacinque nodi, del caffè, delle sigarette, del caffè ancora, del vino, del bar, del piccolo gommone che fa la spola gorgogliando, e del pontile, la scalinata per il Paradiso che lega l’uomo alla sua terra infedele.

Mediterraneo. Lo abbiamo trovato, possibile? Forse abbiamo incontrato quello che cercavamo. Forse da ora in avanti potremo solo trovare quello che non sappiamo neppure di cercare. Volevamo essere liberi, navigare, navigare… Volevamo le risposte, e siamo finiti con la prua su nuove domande. Quello che non sai neanche chiedere, quello che neppure speravi, quello che dovevi cercare ma non lo sapevi, ti aspetta sempre qui. O al prossimo giro di vento.

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Identità e differenze

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La foto non c’entra, è a Spezia, tre mesi fa, ma quel giorno, scattandola, pensavo al grigio

Conosco questo luogo, lo conoscono i miei muscoli, i tendini, il sangue che gira, gira, la mente, le mie sinapsi, e il fatto che dia fondo all’ancora in questa rada per la prima volta è un dettaglio per superficiali, nei posti ci sei già stato, ci sei da sempre, oppure non ci andrai mai, e anche essere è riconoscere, anzi esserci è riconoscersi, sentire è sentirsi, come parlare è dirsi, e qui, Koroni, castello gemello di Methoni, io ci sono già stato, tante volte, ci ho combattuto, ho perso, ho vinto, ho guardato i bastioni in fiamme piangendo dal largo, ho appiccato il fuoco sotto le mura, ho dormito dopo l’amore, mangiato, sognato.

Bel discorso ieri a bordo, sul grigio, colore poco apprezzato, il grigio, quello che non sarà mai bianco, mai stato nero, infinite gradazioni per lui, ed è venuto fuori parlando degli uomini, che mi fa così incazzare quando io sarei un bianco, maschio, eterosessuale, che sarà anche vero, peccato che poi si parla dei gay come molto sensibili o degli etero come, per conseguenza, maschi con cui invece… non ci si può capire, ad esempio con le donne, e non ho capito perché io non sarei sensibile, lo sono da morire, sono molto più sensibile di tanti gay che conosco, o creativo, col cavolo…, però mi piacciono le donne, e parlare con me di macchine, donne, denaro, tutti temi eteromaschili, o altri fate voi, è completamente inutile, e io non mi riconosco affatto in un gay, ma ancor meno in un maschio da manuale, e allora sono grigio, topo, nube, ardesia, canna di fucile che quando spara nessuno sa chi ha sparato, un etero o un gay? no sono io, e se non ci sono ancora i nomen però ci sono le rerum, di cui sunt consequentia. Sono una conseguenza di cose, e allora me lo volete dare un nome? Grigio.

Mediterraneo che non seda i tumulti di cuore, semmai li rimescola, Mediterraneo in cui si parla, sotto l’influenza dei luoghi, Mediterraneo in cui si sente il grigio, già stato qui, chissà come, dove, ma quando si sa: da sempre. Grigio Mediterraneo, che mescola e strania, modifica e cita, in cui capisci dove sei guardando i gatti, il fondale verde smeraldo qui accanto, la cameriera del bar che sorride ma sta simulando, non troppo, seduto a un bar pensando al grigio, che intorno non vedo, tutto azzurro, verde, bianco, blu, dunque il mio colore apparentemente non c’è, come il mio nome, e se non ho colore né nome l’istante che segue è una gioia, piccola, insperata gioia, di non essere nessuno, come il nome dell’astuto marinaio, Nessuno Grigio, dalle sfumature indefinibili, che occorre comprendere, e io dire, ma tu capire, e si fa fatica quando una cosa non ha nome o colore, ma questo non basta a cercare nomi e colori sbagliati pur di fare finta di capirsi, che tranquillizza, ma non serve, dunque anche qui, dove sono stato già, cioè mai, il titolo del film è…

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Un soldo

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La fortezza veneziana di Methoni e la sua splendida torre ottagonale. che controlla il lato nord del canale.

 

Passavano di qui. Tutti. Mi pare di vederli, in questa mattina diafana di luminescenze. Galere veneziane, ottomane, genovesi, della Barberia, maltesi, spagnole, papaline. Pirati e corsari, gente senza alcuna speranza e uomini che la speranza l’avevano in prua. Gente però che non chiacchierava tanto, non aveva il culo sarcastico su una sedia davanti a un computer. Andavano, loro. Incontro alla vita, incontro alla morte, incontro alla speranza, sul filo di un’informazione vaga, senza certezza, senza garanzia, quasi sempre inseguiti da una fusta o una galeotta stracarica di chi quell’informazione la stava ancora cercando.

Passavano di qui, tutti. Non c’era il Canale di Corinto, e tra l’Impero ottomano, le colonie veneziane, quelle maltesi e l’intero occidente, navigavano al vento tra l’isola di Sapienza e Methoni, un braccio di mare che farà a stento due miglia, incerti su quali venti avrebbero incontrato nello Ionio e nell’Adriatico, oppure lungo i tentacoli del Peloponneso e tra gli arcipelaghi dell’Egeo. Ieri una grande tartaruga si è dileguata lenta mentre davamo àncora. Chissà quante sue nonne lontane hanno fatto lo stesso occhio sbieco a una galera genovese stremata da chissà quale maestrale.

La grande distesa azzurra non sempre basta, e questo si impara solo navigando. Lo sguardo alla luna magnifica di queste sere, la rada di cristallo, non sempre rasserenano. Il viaggio offre il fianco ai colpi del vento. Osservo le infinite rotte delle galere che per secoli sono passate di qui, poi scomparse come fanno sempre le scie. L’animo in subbuglio, il cuore impastato delle loro lacrime, del loro mare. Cerco di immedesimarmi nel cuore di quei marinai, centinaia di anni fa. Chissà cosa contenevano, chissà cosa nascondevano. Chissà se in questo canale di mare sono stati felici o angosciati, cari nostri antenati avventurosi. A loro, stasera, se vale…, vorrei chiedere un grammo d’ardimento, una noce di energia, un soldo d’umano coraggio.

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Scusate…

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Sto facendo un viaggio profondo dentro di me. Immergersi è dura, ogni cosa ti vuole a galla. Il mare sa essere alto, se vuole. Non si vede nulla, eppure c’è tutto. Immergersi è il senso, nuotare in direzione opposta alla superficie. Rischiando di perdere il fiato.

So che non sto scrivendo. So che quando si comunica è importante farlo, che chi legge ha dei diritti. Ne provo tutta l’importanza, so che hanno dignità. Per questo mi scuso con voi. Sto nuotando nel profondo. Non posso parlare. Non mi vengono le parole. Perdere la voce è una delle conseguenze dell’immersione verticale. C’è silenzio, ma le orecchie ronzano. Faccio una fatica enorme, quaggiù. Si pensa molto, ma non è chiaro il senso.

Credo che sia utile. Per me. Spero di potervi raccontare ogni cosa, quando riemergerò. Qui scorre la meraviglia, ma a tratti, soltanto, riesco a vederla. Siamo qui, ci siamo. Non dovete volermene. L’unica cosa che non posso fare, tuttavia, è scrivere per scrivere. Quello che ancora non so, non lo so. Dunque non posso parlare. Non Adesso. Mi spiace…

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Arrivano, volano via…

Dammi vento, ti darò miglia”, sembrava citare Mediterranea, ieri, nel vento fresco tra le isole dell’arcipelago. Cinquecento miglia alle spalle, tante sulla prua. In mare, mi chiedo sempre: “tornerò?”. Ma dove si deve tornare, se la meta è dentro? In queste settimane ho viaggiato tanto, ben più lontano di queste distanze. Ieri, seduto sulla delfiniera, con le gambe a ciondoloni sul mare, mi sono perduto nell’orizzonte. Per qualche istante non ho saputo con certezza chi fossi. Ero a casa, dunque.

Oggi ormeggio all’inglese sulla banchina di Zacinto. Apro il computer, che riconosce il wifi. Sono di casa qui, ci sono venuto non ricordo più quante volte. Da domani il Peloponneso, astuta isola artificiale, popolata di mostri e ciclopi. Lo sconcerto maggiore di questi giorni, come in ogni viaggio, è alla partenza. A mezzo miglio dall’approdo mi volto, sempre, e penso: “quando ti rivedrò?”. I luoghi di un viaggio sono come i pensieri: arrivano, volano via. Nulla si trattiene, nulla resiste. Neppure ciò che siamo stati in quel luogo. Più lungo è il viaggio più si perdono i marinai che vi hanno fatto scalo.

Ieri l’altro, a Meganissi, traina leggera all’imbrunire. Guardavo la scena. Dominava l’azzurro, il profumo delle piante officinali, l’infinita lotta tra silenzio e parola. Come facciamo a contenere tutto questo? Ora capisco perché salpare è così difficile: fa paura non saper contenere. Sono andato a letto riguardando a mente le immagini di quel giorno. Non potevo che ricordarne una minima parte. Dove vanno tutte le immagini che non sappiamo trattenere? E i pensieri che le hanno seguite? Sarebbe bello viaggiare a poche miglia da noi, e con un retino sottile raccoglierle, perché non si perdessero. Un retino di capelli di sirena, abili a irretire ciò che affonda dietro la scia…

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Tutto lo spazio che vuoi

 

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18° giorno di navigazione, di 1825. Paxos, isola del Mediterraneo.

Into the route. Ormai siamo nel viaggio. Sensazioni che si stracciano le vesti tra loro. Emozioni che prendono il largo. Cosa può desiderare un uomo se non emozionarsi? Il problema è frenare il cuore. Ma lo vogliamo davvero rallentare? La fatica emotiva dice di sì; sua sorella gemella, quella che fa il mestiere di vivere, dice di no. Ecco una bella domanda: quale sorella prevale, sempre, nella nostra vita?

Lasciata l’Italia, il silenzio. Non scendo a terra da sabato. Qui in Grecia nessuno ci conosce, dunque nessuno ci festeggia, ci accoglie. Solo una barca di italiani, ieri, arrivando a Othoni, tutti si sbracciavano, grandi saluti e sorrisi. Siamo tornati navigatori, uomini e donne che vanno. Tu, che ti lamentavi, hai visto?! Quello che ti dicevo… Visione larga, sempre, mi raccomando. Tempo per ogni vita. Guardare lungo, collocare tutto. La potenza è niente senza controllo. Ricordi?

Dopodomani occupy su un’isola splendida, minacciata. La gente mi scrive: “ma come farete? Cosa farete? Ma se arriva la capitaneria?” Non rispondo. Ho troppa poca connessione. E poi non voglio. Gli ultimi due romanzi che ho scritto non parlavano forse di questo? Non erano romanzi, erano programmi. Non ho mai capito se faccio ciò che scrivo o scrivo ciò che farò. Certo, non possiamo scorrere sempre via. Certe cose impongono atti, memoria che resta. Nessun compromesso, come avevo detto. Tu che non ci credevi, vedi? Se io fossi il Presidente amerei chi occupa un’isola temporaneamente, pacificamente, e appende uno striscione di 12 metri che inneggia alla cittadinanza mediterranea, alla proprietà morale e alla tutela dei beni del pianeta. Se fossi in Lui farei il tifo per me. Io ragiono sempre così.

Il cuore, comunque, va. E va dove vuole. Non lo puoi fermare. Il mare sembra fatto apposta. Ecco perché la gente abita sulla terraferma: per non far andare il cuore. Ma è un errore. Sembra che sia meglio, ma è solo calcolo, sicurezza, paura. Oggi guardavo la distesa azzurra. Mi si confà, pensavo. Non ci sono strade segnate, nessun cartello. Già avvicinarmi alla costa mi limita, mi trattiene. Per il mio sogno grande serve un mare gigante. Ecco perché il Mediterraneo. Nessun mare è più grande di questo, perché si sviluppa tutto dentro. E lì c’è tutto lo spazio che vuoi. Ti ci puoi perdere…

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