Segni

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Un uomo lo vedi in salita. Guarda in su e vede solo paura e sudore. “Ce la farò?” si chiede il ciclista. Lui sa che il crollo arriva senza preavviso. Sa che si spegne la luce, click, le gambe diventano di pietra, la testa un ronzio fatto di vuoto e assenza. Non sa se, e non sa quando.

Forse è per questo che mi sono emozionato ieri, quando Vincenzo Nibali, da Messina, è arrivato all’Arco di trionfo. Ho seguito la sua fatica sulle Alpi e sui Pirenei. Ho ammirato la sua lucidità nel dosarsi, poi il suo coraggio nell’attaccare. Anche io sono in salita in queste settimane. “Ce la farò?

Quando giocavo a pallanuoto capitava che dovessi andare a prendere la palla al fischio dell’arbitro. Si parte a centro vasca, da dentro la porta. Tu contro l’avversario. Nuoti al massimo che puoi, e chi arriva per primo prende il pallone. Non è una grande vittoria, le azioni si alternano, ma per te che ci vai è importante. Soprattutto quando della vita sai poco e hai sedici anni. Lo scatto si fa in apnea, senza respirare mai, devi dosare la foga e l’idrodinamicità: più bracciate fai più dai motore, ma ti scomponi di più, scorri meno. “Ce la farò?

Quella domanda me la sono fatta tante volte. Forse troppe. Quel giorno all’università, ricordi? Poi di fronte alla caserma dei Granatieri di Sardegna, a Orvieto, in quei colloqui, tanti, o prima di quella riunione, o il giorno che hai preso il comando dell’imbarcazione, il primo. Soprattutto, te la sei fatta quel giorno, quando stavi per mettere la tua ultima firma sul lavoro, e poco dopo, scendendo in strada, quando sei andato via senza voltarti. Ti ricordi?

E’ la zona di confine tra la paura e l’opportunità. La linea d’ombra fatta di due vite, una di qua e una di là. E’ il muro, intonacato di incertezza e pianto da un versante, di coraggio e forza dall’altro. Scavalcarlo è solo un passo, non determina un destino, ma tu che lo affronti pensi che sia tutto lì. Lì vedi l’uomo, che alza lo sguardo verso la salita, con gli occhi tristi da italiano in gita, e pesa la paura e la speranza.

In quel momento vorresti essere altrove. Ti chiedi se non hai sbagliato strada. Però è lì che sei arrivato. Non puoi supporre che senza quella domanda non saresti tu, non saresti vivo. Vorresti solo non fartela. Come in mare, quando il vento batte, l’onda è sonora, e tu ti chiedi: e se sale? “Ce la farò?

I segni contano. Quando li cogli, almeno, o quando te li dai. Per questo ti appassioni a chi ci prova. Speri che non molli, che ne abbia ancora. Speri di farcela anche tu. “Ce l’ha fatta. Ce la farò“.

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Occupy Meganissi

Mi chiamo Simone Perotti, scrittore e marinaio, e sono orgoglioso di essere stato lì, quel giorno.

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Ecco…

Mescolo tre cose, un po’ alla rinfusa. Una faccia, un commento e un sonoro.

La faccia è quella di uno di questi poveri derelitti incappucciati col passamontagna, sapete questi ribelli russi dell’Ucraina orientale. Questi quarti di manzo alti due metri, vestiti come dei Rambo, col mento un po’ ritratto, le spalle un po’ arcuate, tutti ex minatori o cose del genere, stupidi come delle bestie, ignoranti come delle zappe, manipolati dalle grandi potenze in nome di un presunto e anacronistico ideale nazionalista. Laggiù non so chi abbia ragione e chi torto, ma non mi interessa. Mi viene solo voglia di tirare un libro contro la televisione, uno grosso, magari “Mediterraneo” di Braudel, che sto leggendo avidamente. Ma brutti scemi che non siete altro, epigone di un’umanità (soprattutto maschile) violenta, tonta, schiava, senza visione, senza dignità, senza coraggio, senza libertà, ma quando finirete, quando vi estinguerete? Il mondo è pieno di voi e della vostra involuta visione incazzata e prona. Voi come tanti altri siete il disastro, la zavorra per tutto il pianeta. Ma quando lo capirete che siete pedine, che non siete che carne da macello? Di quale orgoglio vi sentite tronfi? Che brutti che siete.

Il commento è quello di un follower di Mediterranea, chissà quale venditore di fondi d’investimento fancazzista che si sente il Comandante Achab di Busto Arsizio e si permette di dire, con sarcasmo, a Giuliana, comandante in queste settimane di Mediterranea, che con 30-35 nodi di vento dovrebbe aprire tutto il genoa invece che la trinchetta, cioè una vela più grande, e in pratica le dà della paurosa, della fellona, mentre lei, che sa navigare e ha l’esperienza che lui non avrà mai neanche se lasciasse il “lavoro” oggi e partisse per il giro del mondo in solitaria, naviga con prudenza, pazienza, filando 7 bellissimi nodi sulla scia in un Meltemi che lui se solo se lo sogna di notte se la fa addosso convinto di navigare in piena burrasca, mentre l’umido che lo circonda non è acqua. Ma come ti permetti, canoista da tangenziale, velista senza vento, e soprattutto, come ti viene di fare lo sborone con gente che predica la prudenza, cosa che tu hai frainteso e vivi sotto forma di paura, terrore, invece di ascoltare e imparare, di rispettare un comandante esperto e il mare, che se solo ti mette le mani addosso ti fa a pezzi? Anche tu sei brutto, dici cose brutte. Le dici anche male.

Il sonoro è “la mamma ha preparato i wuber” della pubblicità, l’avrete vista, frase detta al rallentatore, deformata, seguita dall’urletto di un bambino troppo imbecille per essere considerato solo piccolo. Quella scena del padre e dei due figlioletti che buttano all’aria quel che stanno facendo, scavalcano divani e sedie per correre in cucina dove la mamma starebbe preparando la leccornia più accattivante della loro vita (degli orridi wurstel) è avvilente. Guardatela. Guardate la faccia di quel pover’uomo, che nella mente dei pubblicitari dovremmo essere noi, e di quel nano orribile di figlio che grida “Wuber per tutti!” scimmiottando il motto dei tre moschettieri, capolavoro di Dumas che lui non leggerà mai perché con queste premesse (e quei genitori) resterà un povero semideficiente allampanato e ignorante, cioè come pensano che siamo noi che guardiamo lo spot.

Ecco. Ora sto meglio.

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Tutti

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Tutti appartengono. A un’idea, a un partito, a un’associazione, a un gruppo, a un mondo… Io no. Tutti hanno radici, provenienze a cui tornare per riconnettersi alla propria storia. Io no. Tutti hanno luoghi di riferimento, una stanzialità che ottunde ma pure salva, posti del mondo dove fin da bambini hanno sotterrato una scatola piena di ricordi. Io no. Tutti vengono da una qualche cultura di riferimento, da un mondo di valori, da un ceppo originario di pensieri, consuetudini, divieti. Io no. Tutti hanno amici d’infanzia, persone che della loro vita sanno tutto, sono antichi testimoni del percorso. Io no. Tutti credono in un Dio, in qualcosa che li fa sperare e temere, negli astri, nella fortuna, nel destino, nel fato. Io no. Tutti hanno un lavoro, un posto dove andare ogni mattina, una scrivania a cui sedersi, un indirizzo a cui recapitare uno stipendio, un biglietto da visita con su scritto il proprio nome. Io no. Tutti sanno dove devono andare, in cuor loro almeno, e sanno che a parte ogni tentazione ci andranno davvero, prima o dopo, perché sono destinati a quello. Io no. Tutti scelgono di restare, prendono quello che gli manca su tavoli diversi, anche se non sono sicuri, anche se non ci sono tutti, anima, corpo, mente, psiche, anche se restando si inganna qualcuno. Io no. Tutti scelgono in base alla propria convenienza, evitano di pagare i prezzi altissimi che le scelte implicano, dicono ciò che conviene dire, fanno compromessi pesanti che loro solo conoscono, e non li dicono mai. Io no.

La solitudine che ne consegue, come diceva il poeta, non è dunque un albero che se ne stia da solo, in mezzo a una radura, separato dal bosco, ma è la distanza tra le sue foglie e le radici, tra la sua corteccia e la linfa profonda. Un prezzo assurdo, che pare impagabile. Una distanza dolorosa, di cui non so come non provare terrore, oggi.

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Più breve e più semplice

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Viviamo nel paradosso di pretendere chissà cosa dalla nostra vita e sprecare tempo e opportunità per realizzarla. Preserviamo la nostra salute fino all’ossessione, e poi sprechiamo il tempo di maggior vita che non fumare, le diete e lo sport ci generano. Il tempo sarà quello che sarà, e dovremmo sperare solo di essere in equilibrio e di godere di quel che si può, finché si può. Piantare un albero, scrivere un verso, frequentare il mare… “Il giorno della fine non ci servirà l’inglese”, cantava un buon poeta.

E’ tutto molto più breve e più semplice di come appare. Complicare, dare significati ulteriori, infittire di impegni e incombenze, ritenere gli anni smisurati e volerli ulteriormente estendere sperando nell’immortalità e nella salute, non cambieranno l’ordine dei fattori: due corse in un prato, qualche risata, un po’ d’amore. Per il tempo che c’è. Quando c’è.

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