Il motore

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Murales ad Atene – Gli dei pregano noi, non noi loro

Parole inutili, parole che di senso ne hanno troppo, previsioni del tempo che non sapremo mai se erano vere, poi, finalmente, il mare, la navigazione, un azzardo, una parola da verificare senza verifica, un orizzonte in cui arrivare quando è tardi, laggiù, finalmente, non c’è altro che il vento, l’onda, la costa che ripara, sempre meno di quello che si immaginava, in ogni caso, per non avere mai ripari, meglio là, dove una vela è una vela, un’onda un’onda, una parola non detta l’assenza di parola.

Salpiamo, c’è una finestra mercoledì, che finestra proprio non è, solo un lieve calo, prenderemo onda, corrente, vento, niente di trascendentale, ma tutto di prua, dunque passato il capo, a metà della rotta, dovremo usare il motore (qual è il motore della nostra vita? L’amore? L’arte? L’amicizia? Ognuno sa quale sia il suo?) invece delle vele (quali sono le vele della nostra vita?), e partiremo all’alba, come si usa quando non si vuole dire, non si vuole far sapere, è Poseidon che non vogliamo indispettire, il dio del mare che potrebbe dirci qualcosa che non vogliamo ascoltare.

Salpiamo per tentare la sortita da dentro di noi, per abbandonare i pensieri, eppure questo molo ci mancherà, è stato partenza e ritorno, parole, parole, parole, incontri che non sarà facile dimenticare, ma dovremo, procedere cos’è se non dimenticare luoghi, tempi, emozioni, rompere fili, per fare spazio ad altro, che non c’è, che verrà, che ci attende altrove, lontano? Il Mediterraneo ci salverà, potremo vederlo o potrà scorrerci di fronte, senza capire, perché neppure il mare cambia le cose, anche se ci prova, anche se ci proviamo.

Mediterranea riprende il suo viaggio, e noi con lei, senza sapere tutto (si sa mai tutto? Ecco perché si sceglie. Sapessimo tutto non ci servirebbe provare), sapendo però che quella linea blu, tra l’azzurro e l’abisso, è irraggiungibile solo per chi resta, e se anche lo fosse per chi parte, non ne abbiamo certezza, dunque bisogna tentare, forti di una sicurezza mancata, che porta con sé paura, scoramento, ronzio, ma anche lo sguardo verso prua, là dove si incontra il destino, dove se c’è, se c’è…, abita qualcuno che vorremmo conoscere, la nostra (ultima? Unica? Ennesima?) possibilità.

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Aneto e gamberi rosa

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Genoa, trinchetta e randa di maestra

Stamani, sul presto, ho guardato la marina di Pasalimani, Pireo, e per la prima volta l’ho vista donna che sogna sotto un lenzuolo di nuvole alte, le prime dopo mesi di sole. Ieri c’erano 36 gradi, sudavamo con gioia. Oggi saranno 22 e il primo lembo del plaid autunnale ci sfiora la schiena. Le previsioni danno vento molto forte da venerdì, e la nostra partenza domenica comincia a non essere così certa. La rotta prevede un bordo a est-sud est, per Capo Sounion. Poi a nord, lungo il canale dell’Eubea, fino alle Sporadi. Poi Salonicco e le tre lunghe dita scheletriche della penisola Calcidica, dunque la Macedonia, Thassos, poi giù verso i Dardanelli, dentro il Mar di Marmara per le Isole dei Principi, e infine Costantinopoli, Istanbul, la perla del Bosforo. 1000 miglia, all’incirca, e un arrivo orientativo per la metà di dicembre. Viaggio lento, come si conviene. Soste per visitare, tempo per sentire. Viaggio dentro (esiste altro tipo di viaggio?), seguendo i venti, come mi consiglia generosamente e argutamente qualcuno.

Il nostro frigorifero di bordo profuma di aneto e gamberi rosa, cetrioli e yogurt bianco. Porteremo con noi questi aromi per due mesi ancora, all’incirca. Poi sarà Asia Minore e Turchia, Georgia, Russia, Ucraina, Romania, Bulgaria. Odori nuovi, o identici, chissà. Nella capitale dell’ex impero romano d’oriente, nell’affascinante Bisanzio, resteremo un paio di mesi, forse tre. Non era un sogno anche viverci, anche scriverci, anche sentirla casa? Come questo mese ad Atene, in cui è successo di tutto, travolti, colpevoli, eppure accolti e innocenti, sempre ad ascoltare, sempre a casa. I porti del Mediterraneo sono patria e dimora, per noi. Torniamo, non andiamo. Ogni angolo di questi incavi marini albergava un tempo nella memoria di un nostro antenato. Sempre detto: non si può conoscere, solo ri-conoscersi.

Guardo la marina, le barche che ciondolano come peluria morbida sulla pelle del mare. Saluto due comandanti, che rassettano già al mattino. Tanto lavoro da fare, ancora e sempre. Lavoro che oscilla tra le braccia e la mente, tra i muscoli e il cuore. Ieri in cima all’albero a controllare le sartie, guardavo il mondo da una ventina di metri d’altezza. L’ho trovato identico a come sempre lo osservo. Le mie mani ruvide e il mio cuore zuppo di parole sono due facce della mia natura di marinaio e narratore. “Tutto questo, certamente, mi appartiene” mi sono detto. Nell’epoca della grande diaspora esistenziale, generalmente, ci si sente fuori, senza essere posseduti, senza avere niente. Un raro privilegio, per me. 

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Lustri

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La copertina del tascabile, uscito ieri

Che volete che vi dica che ho fatto bene, ho fatto male, ditemelo e ve lo dico, così siete contenti, è passato quanto un anno, tre anni, di più, utilizzati bene, siete sicuri, non vorrei che se ho fatto bene, se ho fatto male, la faccenda fosse tutta lì, tutta in un minuto, tutta in un gesto, e il resto, avanzo, rifiuto, fosse dimenticato, fosse tralasciato, non fosse mai esistito, perché invece c’è stato, sole che sorge ogni mattina, ogni mattina, un campo di volo su cui decollare, ogni mattina, e se il piccolo aereo era fermo sulla pista, quel giorno che è successo, com’è andata, anche quel giorno c’ero io, anche quel giorno è stata colpa mia?

Cinque anni, dal duemilanove, era ottobre, al duemilaquattordici, settembre, che poi era iniziato tutto prima, sono più di sette, ma non conta, un lustro, non so quanto lucido o opaco, un periodo sufficiente, tuttavia, a fare dei bilanci, questo l’ho fatto, questo no, perché sai come funziona, questi cinque rischiano di somigliare ai prossimi cinque, che hai fatto è come che farai, a meno che, a meno che, a meno che, insomma che è successo, che hai pensato, come te li immaginavi, avevi un sogno nel cassetto, aspettavi una parola che non è arrivata, non hai imparato a dirtela da te, hai imparato, facciamo due conti, cosa serviva, cosa era superfluo, mi sono dimenticato di te, mi sono ricordato, sono dove avevo detto che sarei stato, ci sono ma soltanto in parte, mi sono ricordato di fare quella cosa che mi ero scritto?

Adesso Basta, era composto di due semplici parole, Adesso, che voleva dire non dopo, non tra un po’, senza indugio, che di indugi ce ne sono stati già abbastanza, e poi Basta, che ha due entrate, Basta come è sufficiente, siamo arrivati al pieno, e Basta come basta, non oltre, non altro, mi sono rotto, fermate tutto, io scendo, Adesso Basta a che serve, serve a dire che da ora serve altro, non solo che da ora il vecchio non lo voglio più, era una decisione, che come tutte le decisioni non serve a niente se non ho deciso, come tutte le cose che uno si dice in casa ad alta voce serve a convincersi, mica si sapeva come andava, però era un buon inizio, per dire che da ora i lustri non si perdono più, che di lustri ce ne sono ancora alcuni, mica tutti, che occorreva lustrare, lucidare, pulire, rendere scintillante il tempo, la vita, e infatti così è andata, e quelle macchie che ancora vedo, quegli aloni sulla livrea azzurra e acciaio del tempo, vanno levati, puliti, lucidati, e questo è il programma, lustro che arriva, quello in cui non ci sei più, oppure sei lì, però per forza io ci sono ancora, e se molli ora è come se non fosse mai esistito, mentre molto è stato, un lustro, parole, miglia, porti, tanto mare davanti, cinque anni ancora, almeno cinque, poi vedremo.

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Nei porti

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le luci…

La cosa che mi piace della mattina nei porti è l’odore meticcio di mare e speranza, tutto può accadere, almeno fino alle nove, poi la giornata è andata, accadrà quello che deve, ma prima, dall’alba, il tempo è sospeso, e finisce che sei anche più intelligente, t’arrischi a fare pensieri tuoi, per quanto confusi e incomprensibili, passano per la tua testolina grande come una noce teorie intere d’eterni sentimenti, neanche avessi un cuore, neanche fossi vivo, e se ti siedi e guardi gl’interminati spazi interrotti tra gli alberi delle barche scopri, identifichi, capisci addirittura il vento che quelle barche prenderanno, il fremito delle improvvise inclinazioni, il ritardo delle azioni, se mai avranno coraggio bastante d’uscire.

La cosa più efficace della mattina nei porti è lo zucchero tra i denti e la sensibilità, e la prima sigaretta che si fa strada tra la sera precedente e il giorno che vorresti non partisse mai, e se sei esperto sai che la sera citerà il mattino, tornerà vivibile, ma fino ad allora bisognerà resistere alla luce verticale, al ronzio della giornata, che nelle sue ore centrali è insulsa, faticosa, teatro solo di tragedie dell’incomprensione tua e vostra, luogo di solitudine molesta, spreco, e non ricordi che sia accaduto mai niente d’essenziale in quelle ore, troppo per capire, troppo poco per sentire.

La cosa più interessante della mattina nei porti è il fresco dell’acqua e l’aroma del caffè, antidoti al deserto dell’attività, ancora in tempo per vedere il colore argenteo del mare, poco fuori, le ombre lunghe sui palazzi, la brezza che s’affaccia, il settembre emotivo che non può battere l’autunno dei pochi sentimenti, anche perché non si ricorda mai niente la mattina, semmai s’immagina, e l’immaginazione ha sempre vinto sui ricordi, così teneri e bugiardi, che sfuggono fatalmente al vero.

La cosa più bella della mattina nei porti è che sei sveglio e sei in un porto, sbarchi silenzioso, passeggi scalzo sul molo, cerchi con gli occhi il bar, ti siedi, hai un sorriso solo da fare, un colpo e via, e lo fai, senza pensare. Hai il tempo appena di un’emozione, poi la prova d’orchestra del giorno salirà disarmonica, dinoccolata, e sarà finita. Ogni giorno così…

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Sorte? Ma basta…

Valaoritis

Con il Maestro Valaoritis, a casa sua, ieri

 

Nanos Valaoritis. Uno che è fuggito dal nazismo su una barca, spinto dalla madre che lo vedeva triste, depresso, gli avevano ammazzato dei parenti e una donna lo faceva soffrire, dunque via, bloccato dal vento Meltemi per giorni a Tinos, poi perduto tra le isole, spari, finalmente in terra, aiutato da gente di cuore, poi un traghetto per Alessandria, senza nulla più che un contatto, una specie di parente, poi da lì addirittura Londra, lontanissima, si mette a tradurre poeti greci, conosce una donna, pittrice surrealista, e uno scrittore, T.S. Eliot, poi in Francia, A. Breton, poi torna in Grecia, poi arrivano i Colonnelli, lui ha una rivista che scrive duro contro la Giunta, fugge di nuovo per un incontro, per strada addirittura, con un poeta americano, va a San Francisco, e per venticinque anni insegna letteratura comparata, poi torna in Grecia, in questi giorni gli dedicano una retrospettiva, una personale poetica all’interno del Festival del Libro di Atene, i suoi occhi novantatreenni sorridono ai miei, mentre parliamo.

E poi qualcuno parla di fortuna, basta fortuna, basta…

E poi qualcuno parla di sorte, basta la sorte, basta…

E poi qualcuno parla di paura della vita, basta paura, vi prego, basta…

E poi qualcuno parla di scelte difficili, ma basta dai, ognuna è sofferenza, sempre, per tutti…

E poi qualcuno ha paura di cambiare, non vede l’arcobaleno, Basta!

E poi noi dovremmo dannarci l’anima su una scelta, su un passo, su una parola… ma abbiamo capito cos’è la vita, se vuole?!

E poi qualcuno non coglie la magia assoluta dell’esistenza quando ci stiamo dentro. Almeno, credo…

Basta immobilità, basta lacrime. Basta scuse. La vita aspetta noi più di quanto noi aspettiamo lei.

 

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Noi che andiamo per mare

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due marinai

 

Noi che andiamo per mare, non siamo mai qui. E’ il nostro cruccio, la nostra condanna. Sogniamo di andare, sogniamo di tornare. Sogniamo soprattutto di stare. E’ l’illusione dell’ancoraggio, girovagare per gli angiporti, perdere il tempo in un bar, scoprire un negozio di attrezzi usati, fare la spesa in un mercato straniero, che pure frequentiamo da sempre. Da quell’ormeggio salperemo, tuttavia, sempre tardi per l’ansia, sempre presto per il desiderio di quiete.

Noi che andiamo per mare siamo scalzi, vestiti male, sempre le stesse cose addosso, patiamo l’umidità del vento scirocco, il torbido sibilo del libeccio, e riconosciamo di essere vivi solo col maestrale, o sorpresi nella bonaccia. Uomini bussola, vibriamo magnetici nel riconoscimento nella rotazione del vento. Anche per questo siamo fermi solo quando navighiamo, in movimento solo a vele ammainate.

Noi che andiamo per mare ricordiamo ogni cosa, la riviviamo, ne soffriamo l’assenza, che pure abbiamo generato salpando, e non abbiamo voce avvertibile per scusarci delle nostre partenze. Cosa avremmo dovuto fare, giacché non siamo riusciti a evitare il richiamo del mare? Cosa si sarebbe potuto fare con noi, se fossimo riusciti a resistervi?

Noi che andiamo per mare ci sentiamo più soli quando siamo soli, e più in compagnia quando abbiamo compagnia. Il mare accelera, intensifica, illude. Sala il dolce con l’amaro, edulcora il sapido col silenzio. Il nostro palato è bruciato dalla Tequila, le nostre labbra hanno grinze di salmastro e di baci.

Noi che andiamo per mare siamo tra i vivi e i morti, siamo gente da non trovare, eppure siamo una fortuna per chi ci incontra. Siamo maledizioni che benedicono, benedizioni che maledici. Il nostro passo è troppo incerto, ondulato, corto, perché non sia una pena seguirlo. Eppure con che onda piana sarebbero possibili passi più lunghi?

Noi che andiamo per mare sostiamo a lungo, sappiamo diventare cittadini dell’altro mondo, quello non vissuto, quello che poteva essere nostro. Per vivere le vite impossibili perdiamo contatto con quella che avevamo, e non moriamo mai del tutto, ma nessuno, come noi, muore un poco ogni giorno.

Noi che andiamo per mare sappiamo d’aria, mastichiamo miglia, deglutiamo sabbia sul fondo incerto del buon ancoraggio, cui pure non crediamo mai. Le notti di sfiducia le abbiamo trascorse tutte svegli, le abbiamo sudate con gli occhi fissi alle rade luci della baia, e la mattina siamo andati a dormire senza sogni che non fossero tese catene e marre scomparse.

Noi che andiamo per mare sogniamo davvero, ogni giorno, la baia dove ci fermeremo. Crediamo ancora che esista, dipinta dal pennello del tempo su una carta di tela azzurra. Sembra che non navighiamo per rotta certa, con prua regolare, ma solo perché quella baia è nascosta dietro il prossimo capo, invisibile fino a doppiarlo, e il vento soffia contrario.

Noi che andiamo per mare siamo esperti di scalmi e cime, resine e acciaio, timoni e varee, con cui c’industriamo a costruire, rimediare, aggiustare la barca che ci porta, che se non fosse più in grado di muovere per le onde ci lascerebbe disperati, né dove eravamo, né dove dobbiamo andare. La nostra ossessione, tecnica e materiale, muta e urlante, è non poter proseguire, non poter più rientrare.

Noi che andiamo per mare siamo amici profondi, aiutiamo chi troviamo per mare, e non esserci mai ci fa essere sempre. Rispondiamo a chi ci chiama da lontano come vedremmo un gavitello emergente, una boa che appare all’improvviso. Chi si stupisce della nostra consistenza dovrebbe sapere che l’unico modo di esserci è andare, e noi non sappiamo fare che questo.

Noi che andiamo per mare abbiamo tante case, tanti bar, tante trattorie, diciamo salute in tante lingue, beviamo tanti liquori, cuciniamo tante ricette, siamo di tanti sapori, profumiamo di tante fragranze, alcune piacevoli, alcune insopportabili. Per questo non abbiamo casa, bar, trattoria dove ci conoscano, liquore del nostro paese, ricette di famiglia, e non abbiamo alcun odore, colore, non emettiamo suono che ci identifichi.

Noi che andiamo per mare vorremmo andare ancora per mare, ogni volta che smettiamo di rimpiangere di essere salpati quella prima volta, maledetta malattia dell’andare, per dove, chissà. Non sarebbe stato meglio restare? Non sarebbe stato meglio farsela andare com’era, convincersi che il viaggio era solo una barca della fantasia, con vele immaginarie, rotte solo d’ipotesi e aria? Dove porta questo bordo faticoso e infinito? Non conduce forse in quel porto sepolto, irriconoscibile dal largo, indistinto perfino all’ingresso, che solo dentro, circospetti, solo tentandovi il più difficile approdo, riconosciamo essere il luogo da cui tanti anni prima siamo salpati convinti di dover raggiungere qualcosa? Basta vedere sul molo, un po’ bianchi e curvi, i nostri amici di allora. Non si sono mai mossi, non ci riconoscono. Guardano verso l’orizzonte che non hanno mai raggiunto, carichi della pena di chi non è mai partito, identica alla nostra che stiamo tornando.

Atene, settembre 2014

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