Basta guide (cattive)!

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Bandirma. Vicoli

Sbarco a Bandirma (Asia Minore, Turchia), e già mi piace. Atmosfera mobile, da città portuale. Decine di navi alla fonda come pensieri alla deriva. Un mercato immenso, al centro, grande quanto quartieri interi. E poi stradine animate di gente, vita, energia. Un lungomare come ce lo sogniamo a Napoli, a La Spezia, a Palermo. Peccato che la più nota delle guide turistiche del mondo scriva: “Anonima città di cemento del XX secolo”, e poche altre amenità del genere.

La Lonely Planet ci ucciderà. Anzi, uccide da decenni ogni nostra meraviglia di viaggiatori. La redige da sempre una mente nordoccidentale impaurita, turistica, priva di ogni fantasia, incapace di cogliere il senso dei luoghi, preoccupata solo di mettere in guardia turisti che immagino nordamericani, sessantenni, sovrappeso, disabituati al viaggio, non dico all’avventura, voraci di informazioni su taxi e ristoranti, disinteressati alla storia, alla cultura (cui la nota guida dedica sempre meno righe che a ogni altra annotazione), del tutto impermeabili a ciò che i luoghi davvero sono, visibili con l’occhio aperto e curioso del viaggiatore, ma non col loro. La Lonely Planet (e molte altre guide analoghe, meno note) è il simbolo di un modo di guardare, di muoversi, di visitare, di essere. Punta editoriale di un sistema turistico malato, commerciale, targhettizzato, parla di cose che non interessano il viaggiatore, ed è incapace di offrire spunti, di avvincere con una storia, di indirizzare l’occhio, di ispirare. Campione nel distogliere lo sguardo, non può fornire informazioni utili se non a qualche incapace, diversamente avventuroso, che ha bisogno di un libro per trovare un autobus, delle pagine gialle per individuare un ristorantino sul mare (basta andarci, sul mare, e guardarsi intorno), della telefonata a casa per sapere che in una moschea bisogna togliersi le scarpe.

Finiamola di consultare queste guide, portano sulla via opposta del viaggio. Apriamo gli occhi, non la Lonely Planet, sfogliamo i minuti seduti a un tavolino del bar sul porto, non le pagine di una guida per turisti di mezza cultura, avventuriamoci tra i vicoli sempre meno rischiosi delle nostre città invece che evitare quartieri che qualche pusillanime redattore definisce pericolosi. Basta farsi guidare dai maestri del turismo! Fuori dalle rotte. Fuori dai circuiti. Occhi aperti, per posti veri. Senza guide.

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Padre crudele

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Il confine invisibile

Il limite. Dov’è? Cos’è? Chi ha segnato per terra la linea: oltre non si va? Quanto si paga la dogana per passare? Quel confine è consapevolezza, paura, incapacità, realismo, mancanza di fantasia, di ambizione?

L’ho visto fatto di parole, di sguardi. L’ho visto nudo d’immobilità, saturo di oppressione, nero di nuvole o lucido di maestrale, so che genera silenzi e parole scomposte. E’ prigione, fonte di violenza. Consuma. Oppure lancia, come una fionda, genera potenza. “Non oltrepassate quella porta”: il motivo migliore per saltare.
Che colore ha il limite? Che sapore? E’ amaro o dolce, è viscido o scorrevole? Ma soprattutto, che accade se proviamo a superarlo? Il limite lo fissa solo chi ce l’ha, ma quando c’è sei condannato a spostarlo. O a soccombervi. Ridere è più facile, il tempo passa veloce.

Il limite è il più crudele dei padri, uccide le sue figlie predilette: le occasioni. Le strangola nella culla, scempia le loro membra col coltello della sorte. Brucia i brandelli delle loro carni, le vesti speranzose in cui erano avvolte, e sparge sale sulla linea ferita del destino. Non si duole di nulla, come la sanguisuga non patisce colpa nel sangue. Le occasioni l’avrebbero dileggiato, da adulte. Destinate a noi, lo avrebbero irriso, offeso, sminuito. Avrebbero sancito il nostro fallimento, carcerieri e prigionieri, a un tempo. Noi che lo avevamo creato…

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Troppo attivo

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Gomene trattenute o che stringono?

La solitudine e la noia. Mi ricordo che ci pensavo: “Ma non mi annoierò? Con dieci ore disponibili, che di solito sono impegnate dal lavoro, che ci farò?” Paure. Per niente campate in aria. Ci vuole molta fantasia per impegnare il tempo. E non basta neppure.

Il tempo scorre rapido quando vorresti che rallentasse. E’ immobile quando aspetti. Vorresti startene solo quando non puoi, e qualcuno che bussasse quando sei solo. Nei rari momenti di transito, vuoto e pieno si bilanciano, tempo e relazioni ti bastano. Ma avere e non avere (tempo e compagnia), non hanno a che fare con ciò che si ha.

La frenesia, l’incapacità di non fare, sono un segnale. Nell’imbrunire è possibile trovare l’alba, ma non è immediato, per nulla semplice. La solitudine non è necessariamente isolamento, anche se guardi e non vedi nessuno. Mi è capitato di aver voglia di stare da solo dopo essere stato con me: mi ero fatto l’effetto di una moltitudine. Mi è capitato di aver voglia di stare con gli altri, mentre ero con gente che somigliava a un deserto.

A bordo, d’inverno, le ore scorrono seguendo un filo tutto loro. Ieri ho pensato: “stamattina ho lavorato due ore al computer, poi tutto il resto del giorno cos’ho fatto?” Niente. Forse è per questo che oggi ho bisogno di riposo: sono stato troppo attivo, in quel niente.

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Un giorno, forse

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Macedonia. L’orizzonte, qualche giorno fa. In navigazione.

 

Eccola, la vedo. Spunta dalle nebbie di questa giornata cupa. E’ Alexandropouli. Me la ricordo, da bambino, la prima volta che venni in Macedonia con la mia famiglia, avevo otto anni all’incirca. Allora, e tante altre volte in viaggio, guardai la carta e la vidi cosi a est, alla fine della regione tracia, cosi lontana, sul confine turco. Il confine turco… che luogo esotico, lontano, indecifrabile. Chissà cosa c’era laggiù. Quali uomini, quali donne, che case, che mare. L’avrei mai visto, l’avrei mai superato quel confine? E da lì a quel giorno, cosa mi avrebbe riservato il futuro? Chissa’…

La nostra vacanza finì a Thassos, e non procedemmo oltre. Alexandropouli rimase sulla carta, silenziosa, lontana.

Sono stato ben più lontano, nella mia vita. Eppure l’emozione è forte, adesso. Eccola, spunta dalle nuvole basse, tra il grigio del mare e del cielo. La vedo davanti a me e penso che l’orizzonte, come l’arcobaleno, è proprio come si dice: un confine mobile, che più avanzi più si sposta, perché si allontana proprio da te, è generato dal tuo luogo interiore, dalla tua antica relazione col sogno. Eccola la. Guardo Alexandropouli da qualche miglio fuori del porto. Ricordo. Sento.

Sguscio fuori dalla barca ormeggiata sulla marina, come ogni mattino, tra navi cisterna e grandi cargo. Ora dunque mi trovo qui, nel luogo che consideravo “laggiù“, perché quando ero bambino, un giorno, lo considerai l’orizzonte, cioè il luogo da raggiungere per guardare oltre. Non sapevo cosa fosse l’oltre, ma se quel bambino di otto anni, con gli occhiali già da tre, col ditino premuto sulla carta, non avesse detto sottovoce, tra sé: “chissà cosa c’è laggiù”, oggi forse non sarei quaggiù, non ci sarebbe Mediterranea, e chissà quante altre cose.

Siamo i nostri pensieri, assai più del contrario. Quello che non immaginiamo non potrà mai accadere. Dobbiamo sempre ricordare il grande valore dei sogni, perché un giorno, forse, ci svegliamo e siamo lì.

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Per un’ora d’amore

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Charalampos Tsouroukidis, architetto, filosofo, movimentista civile. Amico per tre giorni. E poi chissà…

“Qui ci sto perché la cosa più bella al mondo è essere amici per un’ora”, ci ha detto la signora del piccolo ristorantino sulla spiaggia di fronte al porticciolo di Nea Marmaras, in un giorno difficile da dimenticare. Aveva il volto di mille amicizie, sereno, gonfio d’ebbra e autentica gioia. C’era da crederle. Ed eccoci qui, con Charalampos Tsouroukidis, a Kavala, amici per tre giorni, che dovevano essere due, o uno, oppure mai. Amici di quelli che non si separano, altro che per dormire. Che parlano, parlano, e non si stancherebbero per nessuna ragione al mondo. Di quelli che pensano a una mente, con un battito comune del cuore, e prolungano di un giorno, di due, la loro compagnia, come se fosse la cosa più importante da fare. Amici che non si dimenticano, perché nella smorfia dell’eccitazione hanno brindato insieme: “Mediterraneo Unito!” credendoci davvero un po’. Amici che si sono riconosciuti nelle idee, nelle convinzioni, nelle debolezze, nei dolori, nei racconti diversi e così simili di vite mai conosciute. Amici, insomma. Per tre giorni. Per un’ora. Eppure così migliori di tanti altri, assenti, trascinati, supposti, anche se lunghi una vita intera.

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Il Ritorno

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Un molo

Vieni via. Senza motivo apparente, anche solo per fare un gesto. Sei stato troppo tempo dove non dovevi. Torna a casa, quella che non hai mai ritrovato. La casa vuota e mai vista che attende il tuo ritorno. Lascia gli ambienti vuoti che non ti appartengono, porta con te solo lo stretto necessario, troverai tutto quello che ti serve dove stai andando. Non è la tua casa, forse, la meta? Il fatto che tu non l’abbia mai frequentata, non cambia le cose. E non avvisare. Non spiegare. Non raccontare il tuo itinerario. Nessuno che abiti le stanze vuote può capire il tuo ritorno, e nessuno ti seguirà. Né ti mancheranno gli amici. Li incontrerai, nuovi eppure già conosciuti, adatti come mai prima a incrociare il tuo viaggio. Vivono là dove non sei mai stato, camminano per le tue vie sconosciute, che dovevi conoscere, così nuove e prive di incognita. Senza bagaglio, solo, potrai finalmente impossessarti di ciò che è tuo, provare la sensazione dell’appartenenza.

Non pensare al ritorno, perché un ritorno è impensabile. Si può tornare dopo che si è partiti, non dopo. Potrai salpare, invece, finalmente, perché per muovere serve un porto d’armamento. Per questo i tuoi viaggi sono sempre parziali, sempre illusioni. Prima, devi cercare la casa. Quando l’avrai trovata, potrai andare.
Vieni via.

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Sul ponte asciutto

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Alla partenza da Porto Kufo. Poco dopo, due metri d’onda in prua

Scalzo fino ad ora, novembre. Qualche schizzo di sangue sul dorso del piede. Sangue marino, di un pesce spada che abbiamo pescato poco fa, estratto dalle acque di un capo mediterraneo, salpato a riva dal blu di un mare che oggi fa ballare, la barca come il cuore. Sangue che oggi non può non ricordarmi anche un giovane ucciso dalla polizia, mentre era sotto la loro custodia, e una mamma che alla domanda “chi è stato” si è sentita rispondere “nessuno“.

Scalzo sul ponte asciutto, giornate fresche, ma secche, basta una felpa in più, qualcosa contro il vento, e tutto si redime. L’umido ti aggredisce, sinistro, mentre il freddo ti sfida a volto aperto. E’ una questione di stile, l’inverno. Può essere subdolo o leale, e qui non vedo colpi alle spalle, solo mare duro, da temere, e vento amico, da abbracciare.

Scalzo, coi piedi e le mani calde, come d’inverno, a casa mia, quando fa un freddo cane, la casa e’ gelida, ma io dormo coi piedi fuori dal piumone, li voglio sempre liberi, pronti a saltare giù dal molo, a svilupparsi, e all’aria, perché mi fanno da vibrisse, mi indicano la via, quello che succede intorno.

Scalzo e lontano, nel mare metallico che scorre in senso inverso, con mille domande nel cuore, inviti, parole, echi di sguardi indimenticati, voci di parole inutili, oppure profetiche, oppure attuali, che significano azioni che devo compiere, inevitabili come questa rotta ondivaga quanto si vuole, ma vera.

Scalzo. Pelle dura sul teak, sensibilità alle dita, tendini forti, muscoli abituati a lavorare per l’equilibrio. Un equilibrio che ha bisogno di piedi, di azione diretta, e su quelli poggia, appunto, mentre l’onda (della vita) ci strapazza.

Scalzo, in relazione muta col ponte, in chiara solitudine di pelle e sensi. In viaggio.

 

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Precis-azione

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Nea Maramaras, porto, mentre scrivo. La foto non è netta, precisa. Ma a me dice molte cose.

A me pare di vedere una serie di cose. Ne sono convinto, le guardo, le sento, le ricordo, le snocciolo tra le dita, le penso, e le vivo. Poi incontro sempre qualcuno che mi dice che sono diverse, che non è come sostengo io, che quell’informazione è sbagliata, che quel nome è diverso, che quell’anno era un altro, che quel posto era più in là. L’esattezza o l’inesattezza di quel dato finisce sempre per monopolizzare il discorso: è così, no è diverso, erano tre chilometri non cinque, un grammo non un chilo. C’è sempre qualcosa che “avevamo detto”, qualcosa che “dovevamo fare”, a cui attenerci, da mantenere, con cui verificare. E’ come dicevo io oppure no?! Com’è andata veramente quella volta?

Io in quella storia ci stavo bene. La chiamavo con un nome diverso, sbagliavo data, fraintendevo i nomi? Può darsi. Ma il succo, l’anima, l’ho preso. L’anima di chi, del fatto? Non mi ci sono soffermato mai. Il punto non era quello, ma ciò che provavo, il racconto con cui la vivevo, con cui era possibile comunicarla, gratis, a qualcuno. Un dato corretto, una volta verificato, una volta che ha attivato l’energia necessaria alla vidimazione, è utile per cosa? La storia vale più o meno del numero? Cosa conta, l’informazione o l’emozione? Cosa prevale, sapere o sentire? Imparare o vivere? Guadagnare o spendere? E soprattutto, se il dato certo non genera emozioni, siamo sicuri che sia corretto?

Qualcuno mette energia nell’ordine, qualcuno ordine nell’energia, qualcuno se stesso nel senso. Qualcuno fa le cose in fila, qualcuno no. Siamo diversi. Servirebbe un po’ di precisione nella classifica, l’unica possibile, la nostra, in cosa viene prima, in cosa segue. Alla fine della giornata imparare, sentire, esserci stati, dove, come, facendo cosa. Le parole dette o non dette, che hanno generato storie, sorrisi, oppure no. La mente, il cuore, sono andati via o sono rimasti, hanno fatto il compitino o hanno fecondato vita? A me quella storia piaceva così, la snocciolavo tra le dita come fosse una collana d’avorio. Era congegnata bene, era possibile, ma soprattutto era utile. Renderla più corretta, precisarla, potrà nutrire la vana ossessione per l’ordine, ma non ci salverà.

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