Compleanno (con restyling del sito)

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I miei sono quelli in verticale. Il primo è al centro.

In questi giorni festeggio il mio ventesimo compleanno in libreria. La prima edizione di “Zenzero e Nuvole” usci a maggio del 1995. Io scrivevo da sempre, da quando avevo 9 anni. A 13 anni avevo scritto tre romanzi gialli, clone orrendo delle storie di Ellery Queen che leggevo avidamente e vedevo in tv. Strano, perché il giallo mi è interessato assai poco, nel prosieguo. Poi l’adolescenza aveva fatto il resto. Ragazzino pieno di domande, solitario, tormentato, lettore maniacale. Il mio primo racconto, andato perduto, si intitolava “Archiviazione”: storia di un ragazzo che voleva scrivere un racconto e non ci riusciva. Lo portavo sempre con me, tre pagine dattiloscritte. Averlo in tasca mi faceva sentire un vero scrittore. Era la prima cosa compiuta che avessi davvero prodotto, a parte i romanzetti insulsi di cui mi vergognavo già.

Poi tanti altri racconti. Sedermi, scrivere e poi stampare una storia era un’esigenza continua, ogni pomeriggio libero, ogni momento disponibile. Non potevo iniziare niente che non riuscissi a finire in una sessione di scrittura. Dovevo rigenerare ogni volta il benessere di quel primo componimento. Era una questione fisica. Durante l’università tutto si amplifica. Le suggestioni letterarie, i primi racconti pubblicati su qualche rivista underground. Nel frattempo i taccuini, gli appunti: tonnellate di pagine, le ho ancora tutte, scritte a mano, eccole lì, sulla libreria. Un giorno, con molto coraggio, ci metterò le mani.

Poi un pomeriggio, con un amico, sul terrazzo di casa mia. Entrambi appassionati di cucina, di letteratura, entrambi aspiranti scrittori, anche se facevamo tutt’altro per vivere (soprattutto io). “Pensa: racconti e ricette, cioè cibo, sapori, aromi dentro storie di viaggio, racconti esistenziali, filosofia”. “Beh, sarebbe splendido. Scriviamolo insieme, uno tu, uno io!”. Io la sera scrissi il primo. Poi mi accorsi che andavo avanti da solo. Nacque “Zenzero e Nuvole” apripista di una moda letteraria (cibo e letteratura: prima della Allende, prima di Vasquez Montalban…). Studiai in libreria quali editori potessero essere interessati. Uno mi chiamò dopo una settimana: “Lo vogliamo noi”. Ha venduto sedicimila copie in cinque edizioni (Theoria e Bompiani). Molti lo ricordano ancora.

Da quel giorno sono passati vent’anni, ho scritto una marea di parole, una parte di esse pubblicate in undici libri, di cui sette negli ultimi sette anni. L’ultimo, pochi giorni fa. Eccolo qui, accanto a me. La stessa benefica, inesprimibile, ineguagliabile emozione di allora. A volte mi chiedo cosa sarei se non avessi scritto. Penso che la risposta non mi piaccia…

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Alter ego

Dalla “Nota dell’autore” in calce a “Un Uomo Temporaneo” (Frassinelli):

Ho convissuto con Gregorio per anni. Ho fatto il tifo per lui, ho temuto per lui. Non so quante volte sarei voluto essere lui. E non so quante volte ho immaginato un capitolo ancora di questa storia, dopo quella frase finale: “Nessuno li…”. Come nei film, quando finiscono e tu vorresti sapere come è andata dopo

Ho spesso tentato di immaginare il suo volto, la sua corporatura, le sue mani, la sua andatura, i capelli, il colore degli occhi e la forma del suo sorriso. (…) Tanto il suo viso, quanto molte delle sue plausibili gesta, dovevano restare a disposizione del lettore, libero di vedersi in lui o di vederci un uomo a cui sarebbe voluto somigliare. L’ho fatto anche per me, per non dover combattere troppo con le certezze, per lasciarmi libero le mani quando avevo voglia di gesticolare con la fantasia. (…)

Gregorio è il mio fratello immaginario, il mio alter ego. E solo perché non ho saputo essere come lui. Ci ho provato, quando lavoravo. Timidi tentativi, qualche piccolo successo, tante sconfitte. Forse, sulle prime, sarebbe stato sufficiente avere un incoraggiamento dalla fortuna e tutto sarebbe potuto cambiare. Chissà. Poi, visto che non cero capace, ho lasciato e sono andato via. (…)

Quando riesco a non pensare a Gregorio in questi termini, così personali, ragiono invece sul suo significato politico. Mi affascina la sua totale mancanza d’ideologia, e il fatto che di lui ci si possa chiedere se è un imbecille o un genio senza che la domanda stupisca nessuno. Non ho mai amato le persone di cui è chiaro, fin dal primo sguardo, se siano qualcosa o il suo opposto. Il dubbio è più affascinante della certezza perché ci riguarda, è una domanda rivolta a chi la pronuncia, dunque rivela di me qualcosa di nuovo prima ancora che investigare di altri qualcosa di ignoto. (…)

Nel frattempo continuo a immaginare Gregorio per le vie del mondo, nel tempo che segue il romanzo. A quest’ora quanti anni avrà? Come si sarà guadagnato da vivere? E Vincenzo? E Betta? Ecco, vedete, non so resistere. Riparto subito con la mente e col cuore. Non vedo l’ora che la finiate di leggermi, mi posiate sul comodino e mi lasciate da solo con questa storia. Io e Gregorio abbiamo ancora un mucchio di cose da dirci.

Febbraio 2015 – Istanbul, a bordo di Mediterranea

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Esce (oggi)

Esce oggi Un Uomo Temporaneo (Frassinelli)

Dedico questo romanzo alle vittime del mobbing, dei ricatti sul lavoro, agli esodati, ai licenziati, ai disoccupati, ai precari.

Dedico questo romanzo ai male impiegati, ai sottostimati, ai sottoutilizzati, e agli sfruttati, costretti a fare il lavoro di due persone o a chi percepisce la metà di quello che merita.

Dedico questo romanzo a chi è costretto a subire soprusi sul lavoro, discriminazioni di provenienza, di razza o di genere, o a chi semplicemente è costretto a convivere con l’arroganza del potere, della gerarchia e dell’ignoranza.

Dedico questo romanzo a chi svolge lavori inutili, a chi partecipa alla produzione di prodotti inutili, che servono solo a gonfiare la faretra del consumismo, e a chi lavora su prodotti nocivi, a volte letali… perché dovrebbero smettere di farlo, e dovrebbero smettere adesso.

Dedico questo lavoro a tutti noi, che dovremmo fare molto di più, comportarci in modo diverso, verso un’altra direzione, perché se le regole del gioco non possono più essere cambiate, possiamo e dobbiamo cambiare il gioco.

 

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Temporanea mente

Ecco il booktrailer di “Un Uomo Temporaneo“, il mio nuovo romanzo. Anzi, il dietro le quinte di un booktrailer. Per farne uno vero servono professionisti, mezzi, soldi, set, camere, tempo. Io avevo solo l’ultimo. Dunque un vero e proprio video per promuovere il libro, questo, non è, c’è il backstage, il dietro le quinte di quel video, quello che avrei fatto se avessi avuto soldi e tutto il resto. Tuttavia dentro c’è l’esprit di questa vigilia di lancio del romanzo, e forse anche l’atmosfera con cui è venuto alla luce negli anni.

E’ un nuovo pezzo del mio percorso artistico che nasce ufficialmente il 21 aprile prossimo, che credo sia martedì, e diventa finalmente pubblico con formato, veste grafica e titolo. Una storia come sono sempre più io: anarchica e visionaria. Ma anche romantica. Non c’è niente di falso nella vicenda di Gregorio. Al contrario, sembra più vera della verità. Almeno a me…

I ringraziamenti e le dediche sono già dentro il video, non voglio ripetermi. Ma grazie a tutti voi che lo leggerete, questo voglio dirlo. Grazie, e buona lettura.

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Metodi

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Il nuovo pontile

 

Piccolo bilancio di questi quindici giorni in totale solitudine, rientrato a casa:

ripulita casa; lavato e riordinato indumenti con tre lavatrici piene; fatto cambusa sui fondamentali; tagliato e spaccato circa una tonnellata di legna; smantellato pontile ormai marcio e rifatto più grande; diserbato, concimato e piantato orto (cipolle, pomodori, cetrioli, zucchine, peperoncini, fragole, erbe aromatiche); aggiustata recinzione; letto tre libri; scritto nove capitoli del romanzo; fatto due trasferimenti di barche per denaro; studiato circa ventitré ore; visto dodici tramonti; iniziato riparazione pontile a nord; fatta manutenzione alla macchina del caffè; svuotata fossa biologica; portata irrigazione a timer lato nord est della casa; ricevute undici telefonate; tolto terriccio e rassettato angolo del compos; raccolte otto volte erbe selvatiche (soprattutto asparagi, germogli di pungitopo, germogli di mora, tarassaco, ranuncoli, aglio selvatico); visto dodici film; riordinato bancone da lavoro; sturato tubo scarico acque grigie cucina; pensato molto; fatto cinque telefonate; tenuta corrispondenza per Mediterranea; stato alla posta tre volte; realizzato tre cornici per poster e quadri; realizzata grande scritta sulla scala; bevuto sei bottiglie di vino; fatto esercizi per la schiena; aggiustata crepa scala nord est con cemento; fatto meditazione cinque volte; cucinato trenta volte; ricevute due visite; sofferta spesso la solitudine; gioito molte volte per il silenzio assoluto; avvistati quattro volte gli scoiattoli (Tracy e Alvin); uscito per compere o altro, quattro volte.

L’uomo di mare, in terraferma, ha bisogno di metodo. Ma dato che ogni uomo, rispetto alla sua vita, è paragonabile al marinaio in navigazione, il metodo serve a tutti. Il metodo non ha niente a che fare con l’essere metodici. In mare non si è mai metodici, si procede sempre, e solo, per priorità. Stando sempre nei tempi. Osservare dietro di sé la propria scia e accorgersi di non aver guadagnato acqua, è la cosa più triste che possa capitare in mare. E nella vita.

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Canzoni. Interpretazioni.

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L’ora prima dell’alba

 

Ho finito i soldi. Proprio finiti finiti. Allora ho preso due imbarchi (che fortuna, uno preso chiamando, l’altro a seguito per una sostituzione). Non ero in vena di andare per mare, ma dovevo guadagnare qualcosa. Non navigavo in solitaria da un po’. Il primo di giorno, Spezia – Genova. Il secondo, una notte e un giorno, Santo Stefano – Spezia. E’ salito anche un po’ di mare, e il grecale che aspettavo si è rivelato maestrale, più forte del previsto. Fuori dal porto, la notte, un uomo solo a bordo di una barca, le secche della Meloria invisibili altro che sul monitor, e nella memoria.

Mentre aspettavo l’alba (l’ora che la precede è sempre la più fredda della notte) stavo sul ponte intirizzito. Non so perché mi è venuta in mente una frase: ognuno costruisce la sua canzone. Io penso per frasi, senza non viene alcun pensiero. Un po’ come quando cucino: mi viene in mente il piatto finito, allora lo smonto nella mente e provo a (ri)farlo.

Ognuno costruisce la sua canzone… La costruisce, la impara a memoria e poi la canta. Forse perché convincersi che è andata in quel modo è più importante di capire, almeno sembra così la maggior parte delle volte. Salvarsi più di conoscere. Ma quella canzone spesso è falsa. Anzi, per onestà: è una finzione, che è un’altra cosa. La finzione non è quasi mai vera, almeno non del tutto, ma non è totalmente falsa.

Quando è sorto il sole ho rifatto i conti. Come mi ha detto un’amica, sono troppo severo con me stesso, pretendo troppo da me. Può darsi. Forse è per questo che da un po’ di tempo non canto. Rendermi conto che preferisco qualcosa alla finzione mi ha impressionato. Per un autore è quasi una resa. Meno male che col sole è salito il vento, ho dovuto ridurre la velatura, mi sono anche legato. Poi ero troppo stanco, grazie al cielo, e il pensiero è finito lì. Ma come vedo ora che scrivo, non del tutto.

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Una sola…

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Davanti Al Galatasaray Lisesi, ieri.

Questo post l’ho scritto il 16 marzo, qualche giorno fa.

“Istanbul. Sento una vibrazione, una tensione. (…) vedo una forza che si agita, qualcosa che freme. (…) sento che in ogni momento potrebbe esplodere. In cosa, non si sa.”

Lo ripubblico. La prima parte, alla luce delle notizie di questi giorni, sembra più attuale che mai:


Istanbul. Sento una vibrazione, una tensione. In sei mesi di Grecia non ho assistito a un litigio. Qui in un mese ho visto due discussioni animate, uno scontro automobilista-pedone finito a calci sulla macchina, una megarissa tra una squadraccia di poliziotti in borghese contro ubriachi o comunque ragazzi che stavano facendo casino (scena impressionante: sono sbucati dal nulla, una quindicina, spray al peperoncino, manganelli, calci e pugni da stadio). E poi, davanti al Galatasaray Lisesi, ogni giorno, anche due volte al giorno, manifestazioni e dimostrazioni controllate da centinaia di poliziotti armati fino ai denti, grossi Ariete blindati con cannoni idranti sfollagente. Soprattutto, guardo gli occhi, parlo con la gente. Vedo una forza che si agita, qualcosa che freme. la Città, la Città delle Città, è un enorme serpente che sfila, scorre, si arrovella, incessantemente. Sedici milioni di persone. Istanbul. Qui c’è un’energia fuori dall’ordinario, che si fa gioia, incanto, aggregazione, socialità, ma senti che in ogni momento potrebbe esplodere. In cosa, non si sa.

Oggi ho incontrato G. Mancini, giornalista, storico, blogger. La sua è una lettura della Turchia molto inconvenzionale, molto diversa dalla vulgata che tutti raccontano. Interessante, proprio per la sua differenza. A tratti non credo, a tratti mi appunto, a tratti lo seguo e penso abbia ragione. Mi faccio domande, in tutto ciò. Il motivo del mio lungo viaggio per il Mediterraneo. Domande su domande, ipotesi, informazioni, cose che vedo, di fronte a me, non capisco, realizzo, restano appese. Quante domande… quante di esse avranno risposta? Chissà. Però sento che mi fanno bene tutti questi dubbi. Da qualche tempo ci vivo immerso, nuoto, a volte sprofondo, a volte riemergo. Dal gennaio del 2008 so sempre di meno, questo è evidente. Di anno in anno, in questa mia nuova vita, recedo, regredisco, mi svincolo da certezze, da schemi, da sovrastrutture. Chissà cosa resterà alla fine del lungo percorso. Forse un’unica, enorme, inevitabile domanda. Una soltanto. Nudo.

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