L’uomo che guarda passare le navi

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Stretto dei Dardanelli, aspettando che il vento cali.

Il vantaggio di stare male, non fingere di stare bene, non dirsi stupidaggini che non reggono più di qualche minuto e non cercare scorciatoie dicendo che la causa dei tuoi guai sono gli altri, obiettivamente, è scarso. Ma è essenziale.

Ci pensavo oggi, seduto in un bar sullo Stretto dei Dardanelli, a fare l’uomo che guarda passare le navi. Si stava bene, preparano il miglior espresso dell’Anatolia occidentale, e per qualche istante sono stato felice. Io compilo sempre una mia personale classifica, che si intitola: I luoghi dove sono stato felice. E quel bar l’ho inserito subito. 

Fingendo e raccontandosela, eleggendo un nemico causa dei nostri guai, abbiamo un mucchio di vantaggi: la colpa è sua, non nostra, se non ci fosse stato lui chissà dove saremmo, la vita ci rema contro e noi siamo degli eroi, salvatori di noi stessi e della patria, a sopravvivere controcorrente, ogni problema è originato da quella causa, se le cose peggiorano è solo una conseguenza, il lavoro per capire i nostri guai non dobbiamo farlo, se stiamo male ci sentiamo pure vittime e non degli scemi che stanno male invece di stare bene. Peccato che la premessa è sbagliata, e dunque tutto il resto, che segue, è falso. E il futuro, fortemente compromesso.

Vivendo al contrario di così, cioè tirando tutto sotto la nostra responsabilità, abbiamo solo svantaggi: colpa, fatica, scavo interiore, solitudine, tempi lunghi, nessuna attenuante, etc. Ma guadagniamo che poi, a un certo punto, il segno si inverte, e gradualmente cominciamo a stare meglio, in modo solido, concreto, duraturo, motivato. E pure senza il sospetto che ce la stiamo raccontando. Per come siamo stati male, e così a lungo, sappiamo bene che non è vero.

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Meglio

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Diversi (“pere e mele”, come dice il detto, non le avevo…)

Tre amici mi raccontano storie tra loro analoghe, che io collego alle mie. Il quadro che emerge merita una riflessione. Quando si cambia, intorno a noi il mondo o scherza o fa finta di niente. Risolini, finte curiosità. Prima o dopo emerge sempre il consueto “perché non fai questo o quello, dato che ora non hai niente da fare?”. Piccole banalizzazioni, piccole offese. Ma in realtà il dialogo si ferma, invece che partire. L’irruzione del “diverso” nello spazio del “consueto” destabilizza. Il copione tradizionale va a rotoli, e non ce n’è uno alternativo pronto all’uso. Di che si parla, come si parla, quando c’è un diverso, o comunque qualcosa è cambiato? Di quella cosa no, che poi ci fa la morale. Di quell’altra no, perché non lo riguarda più. Del lavoro no, dei soldi no, della casa no, delle vacanze no. Quando non si possono fare le solite chiacchiere inutili, che si fa?

Altri mi scrivono: “Nessuno mi chiede niente delle nuove cose che faccio tentando di cambiare. Le ignorano, perché?” “Con gli amici mi sento a disagio. I loro discorsi sono sempre gli stessi, da sempre, durano il tempo preciso, al cronometro, che devono durare. Poi stop, si passa ad altro. Io tento di entrare in profondità, ma non c’è verso”. Nessuno vuole entrare in profondità, come nessuno cerca davvero il silenzio o ha mai provato, o proverebbe, la vera solitudine. In profondità, in silenzio e da soli si finirebbe col dover affrontare la vita, i suoi problemi, le domande, l’immensa prateria illibata del senso. Ci si guarda bene dal praticare il senso, salvo poi lamentarci che la vita è tedio. Diamine, è tedio sì senza senso!

Meglio una crisi vera di una finta armonia. Meglio sentirsi fuori luogo che far parte troppo a lungo dell’arredamento. Meglio bisticciare con un amico su questioni di fondo che andar d’accordo sul nulla. Meglio soli consapevolmente che per sempre nel mucchio, ignari e superficiali. Meglio il disagio di una parola vera che il comfort delle solite liturgie. Meglio diversi che omologati. Meglio magri e famelici che gonfi di slogan e bolsi per la finta requie. Meglio in cammino stanchi e assetati che in panciolle satolli con la bolla al naso. Meglio in lacrime per una scelta vera che “sereni” per una vita falsa. Meglio, soprattutto, non sentirsi più a proprio agio nel noto, perché è la prova che stiamo cambiando, che quello che andava bene ieri, oggi, non basta più.

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Liste

Capo Nord

Capo Nord, Paraggi – Qui sono stato bene, due sere fa, con mio cugino Francesco. Motivi: perché il posto è bello; perché ero con lui; perché mi ha offerto la cena. Ok, nella lista allora.

Faccio sempre più spesso delle liste. La lista mi aiuta. Una colonna di parole, cose, definizioni, da verificare. Ultimamente ne faccio una più di quanto non faccia le altre: l’elenco delle volte in cui sono stato bene. Qui però mi blocco sempre. Stavo davvero bene in quei giorni? Oppure lo pensavo soltanto? Non uso la parola felice, che è assurda nella sua banalità e imprecisione. Ma la domanda è corretta: ero dove dovevo essere?

Quando diciamo che stiamo bene, o che stiamo male, sappiamo esattamente cosa intendiamo? Mi sono accorto che studiando la mia vita su questo non ne sono più tanto sicuro. Quella volta, che diciamo sempre che e’ stato bellissimo, era proprio così bello? E, all’inverso, quando definiamo brutto quel periodo, o quel giorno, siamo certi che non lo definiamo brutto oggi, con i criteri odierni, diversi da quelli di allora? E se quel giorno che ci ha messo tanto in crisi fosse invece il giorno bello che vorremmo vivere oggi?

Come facciamo a individuare la qualità di un momento? (da leggere: ‘Lila’ di Pirsig, Grande romanzo sull’immenso tema della qualità). E se ci sbagliassimo nel ricordo, e se le categorie fossero mutate, se non conoscessimo ancora ciò che amiamo davvero? Se dunque il momento adatto a noi non lo sapessimo neppure immaginare, dunque descrivere e sperare?

Di solito a metà della lista i dubbi mi assalgono. Per non perdermi mi alzo e vado a preparare l’olio di peperoncino, perché quello invece sono certo che è buono e necessario per me. Ma la domanda resta: che cosa mi fa stare bene davvero, in piena armonia con me stesso, ma veramente, non a chiacchiere, non per simboli, non perché suona bene, non perché sono abituato a recitare da sempre quei nomi di luoghi o persone?

La lista si accorcia, di giorno in giorno. Tanto quella dei momenti neri quanto quella dei momenti azzurri. Mi accorgo che cercando i giorni dell’armonia ho rincorso spesso stereotipi, o che rifuggendo alcune condizioni ho buttato via ore importanti. Non in assoluto, ma per me.La verità è che cerchiamo qualcosa che si adatta facilmente a ciò che possiamo dirci, ciò per cui possiamo convincerci, se abbia un suono accettabile per l’idea che abbiamo di noi. Ma quell’idea è corretta? La lista va messa in discussione, prima di iniziare a fare. La mappa deve essere vera, altrimenti non conduce ad alcun tesoro.

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Buono per un altro

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Ieri, a Porto Venere

Mi sto angosciando molto del fatto di non sentirmi più come mi sono sempre sentito. Mi preoccupo di non sapere come affrontare la vita che ho sempre interpretato e vissuto. Da parecchio mi dispero di non riuscire a generare e condurre, come prima, le tante cose belle vissute fin qui. Tuttavia, qualche giorno fa, ho capito che stavo commettendo un errore. Grave.

E’ chiaro che in questi anni un lungo percorso di cambiamento si è compiuto. Paradossalmente, sette anni fa, non si è concluso un processo, è iniziato. E da allora ci sono voluti anni per perdere memoria di me. Quando si cambia, si resta ancora a lungo quel che si era, spesso senza sospettarlo neppure. Cambiare fuori è assai più facile che dentro, questa almeno è la mia esperienza. Decidere di vivere un’altra vita, farlo perfino, cambiando luoghi, circostanze, metodiche, è molto, ma non basta a diventare diversi.

Cambiando si perdono parti di sé, dunque è inutile mentirsi: non sarò più alcune cose, fin anche alcune che mi piacevano molto. A me piaceva essere invincibile, avere energia a profusione, non avere fragilità o bisogni impellenti, saper sempre tirare dritto sui miei sogni, non dovermi arrendere mai, sapere sempre la rotta. Mi sento spaesato, oggi, a non essere più così.

Ma dolermi di non poter rifare, riessere, riavere, ritrovare cose del passato è un errore profondo. L’uomo diverso che sto diventando (spero…), quando sarà compiuto, genererà altre vite, dunque farà altre esperienze, in modi diversi, cercando con passione, sofferenza, umanità e soddisfazione (spero…) quel che la sua nuova vita gli consente. Un altro uomo perde quel che era, ma chissà cosa diventa. “Non sarò più come prima, non ci riesco” non è un concetto sbagliato, ma forse non è soltanto una cattiva notizia. Qualcosa ci attende, sempre, dovunque e comunque siamo messi, e lo genereremo noi, per come siamo fatti ora, per quello che siamo diventati. L’uomo che non siamo più spera che avvengano cose che non avverranno più, ma cosa attende l’uomo che siamo diventati? E quanto saranno adatte a lui? Quanto saranno proprio quel che gli serve ora per essere autentico? Vista così, mi sembra meglio….

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Questi non vi piacciono

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La mia postazione di studio e lavoro

Imparo, spero. Senza pelle, nessuna copertura, ancorato senza fondo in mezzo al mare. Mi dispero, poi non dispero, ogni cosa è vera, nessuno in vista, nessuna occasione per mentirmi, nessuna rappresentazione. Solo dentro, in questo dialogo fitto, nella calura idrofaga e allucinata, c’è qualcosa. Il resto sembra falso movimento, rumore. Al metronomo che scocca parole inutili non consegue nessuna musica.

Non mi si capisce, quasi mai. Più sono acuminato, preciso, più rivelo, meno riesco a comunicare. Forse perché non mi so spiegare. Scrivere, per chi non ha dimestichezza con l’autenticità, per chi non la tenta, è uno strumento troppo impreciso. Ma senza precisione non si può scrivere. Le parole vengono così sottovalutate, così sprecate. Leggere, leggere, leggere, prima di capire, prima di rispondere! Sentire! Eppure nell’insieme quello che emerge è tutto vero. Ha del meraviglioso: mentiamo sistematicamente, tutti, perché già una scelta di argomenti, di parole, è fingere, ma nel complesso è tutto vero. Possibile?! Sì, possibile. Però bisogna saperlo, ammetterlo. Non siamo al timone, quella che facciamo non è la rotta scelta. Sbarchiamo, smontiamo dal destriero, che è solo un dondolo. Infatti non nitrisce, anche se bisogna pascerlo.

Nel silenzio, nel sentimento di sé, si finisce con lo spingersi fino ai confini. Quelli che fanno paura. Ci arrivi e sei costretto ad attraversarli. E cosa c’è di là? Meglio non saperlo, non è vero?! Il lamento dell’al di qua è più sicuro. E poi è sempre commento, mai enunciato. Alla dogana si paga l’ingresso. Costa caro, e devi dire chi sei. Per questo ai confini non ci si va.

Sto ragionando molto sulla non-comunicazione. Per questo posso sembrare strano. Come quando cerchi di spiegare il silenzio: fai già rumore, sei già fallito. Come un incendio che pensi all’acqua, che ragioni della sua frescura. Come adesso, ad esempio. Quando faccio il polemista lavoro sotto le mie possibilità, ma è più utile, in generale. Quando studio dentro lavoro al di sopra, ma è più utile a me. In realtà non solo a me, ma nessuno ascolta. Ed è un errore pensarla così, questo andrebbe capito. Non comunicare, a valle dei fallimenti e del lavoro per capirli, finisce coll’essere più utile, dignitoso. Come tagliarsi un piede blu per la cancrena: terrorizza, immagino. Ma può salvare la gamba.

Mi commuovo molto. E solo per i successi. Quando uno ce la fa, in un film, in un libro, nello sport, mi viene da piangere, urlare, fare il tifo. Io sono per quelli che ce la fanno, sono dalla loro, da sempre. Immagino tutte le volte che hanno sperato, tutte le volte che sono stati come me adesso, senza pelle. Eppure, eccoli lì, con un sorriso sempre inferiore alla circostanza. Non conta più nulla, per loro, adesso. Per me sì.

Un altro post di quelli che non vi piacciono. Non c’è niente di utile. Ma vi sbagliate.

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Un giorno

Natura - se viva o morta questo non saprei

Una giapponese alta 1.60 che vince l’oro battendo le sue ali armoniose nei 200 farfalla; un’insalata di patate, ananas, noci e cetriolo con maionese modificata al wasabi e prezzemolo; due capitoli, stamattina, neppure brevi, un po’ cappa e spada, belli; lo sfinimento a folate, la pancia soprattutto; 70 anni oggi dal bombardamento atomico di Hiroshima, i ricordi e l’impressione che mi fece quando la vidi nel 1986; la crisi di profonda solitudine di Dragut nel 1550, tutti che gli voltavano le spalle, stronzi e opportunisti (ma anche lui non era un santo); le sei pagine di ‘Un uomo temporaneo’ rilette prima di iniziare, alle 6.00; il barcone capovolto nel Canale di Sicilia, con tanti morti, non sapremo neppure mai quanti, figuriamoci i loro nomi; i pensieri torvi di ieri a fronte del nuovo e paradossale pensiero di oggi; le melanzane innestate che crescono molto bene, a giorni pronte da mangiare; la quarta frazione assolutamente esaltante della Pellegrini nella staffetta 4×100 femminile, e splendida medaglia d’argento; l’aria immobile del mattino, il fresco sotto l’incannicciata nuova; tre email commoventi di lettori, che avrei voluto abbracciare; il silenzio della controra, a leggere; le mie lacrime e quel mio sorriso; un vaffanculo detto a voce alta.

E il giorno che sfinisce nella sera, adesso.

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Con cura

Granciporro

Circa due ore per togliere tutta la carne da alveoli e chele. Poi occorre condirlo, il minimo possibile. Un po’ come quando si vive: tanto tempo per preparare un piacere, che vola via.

Progetto una dieta molto povera di grassi e alcool, ricca di verdure e fibre; solo di tanto in tanto un gelato, voglio provare per tutto agosto le varie marche, assaporandole con calma alla temperatura giusta, per stabilire quale sia il migliore; scriverò molto, ho iniziato subito, addirittura ieri, fuori orario, come dovessi salvarmi da un imminente affogamento, ma ora ho una data, e le date arrivano presto; farò meditazione, e anche esercizi per la schiena; tutto il tempo in cui non scrivo lavorerò alla casa, a cominciare dall’incannicciata sopra al tavolo LIFE; metterò a posto il capanno degli attrezzi, è uno spazio che va liberato e reso funzionale; per la casa sull’albero non ho tempo, ma voglio preparare l’area e studiare bene la questione; forse andrò a correre, se la debolezza e il caldo lo consentono; curerò l’orto, che quest’anno sta dando tanto, sia sopra sia in fondo al terreno; soprattutto leggerò i pochi libri che mi mancano per sapere tutto sull’uomo di cui sto scrivendo, non il pirata, l’altro; ci sarebbero le decine di sagre paesane, qui intorno, ma non sono sicuro che ci andrò; voglio godere del verde, dell’aria fresca del mattino e della sera; ascolterò molta musica; proverò a pensare solo al romanzo, e se non ci riuscirò guarderò dei film; se riesco, come non ho mai fatto, voglio dormire, il rischio di essere svegliato da una visita lo vedo trascurabile. E poi ho sempre dormito poco in vita mia. Forse ho sbagliato…

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