Quello che volevo dire

Egeo

Adesso

Scrivere del Mediterraneo è talmente difficile che oggi che volevo farlo non l’ho fatto, cioè, l’ho fatto, ma non ci ho messo dentro questo, e voi direte questo che? questo, quello che ho di fronte adesso, che teoricamente vedete nella foto, ma non basta, la foto è Flatland, bidimensionale, simula la quadridimensionalità ma senza potersi neppure avvicinare, perché non c’è l’uomo! cioè chi quella scena la guarda, e che ne fa parte perché un giorno ha deciso di smettere di fare lo spettatore e si è fatto un culo quadrato per essere qui adesso, che nella fattispecie sarei io, dunque l’uomo che non vede ciò che vede, ma vede se stesso riflesso nello specchio, ed eccolo il Mediterraneo, è lo specchio, era così facile… cioè il se stesso capovolto, sinistra dritta, e perfino alto basso, dunque ciò che non sai di te, ciò che non sospetti, o meglio, forse un sospetto ce l’hai, ed ecco il guaio, quel sospetto, se non ce l’hai è molto, ma molto meglio, oppure devi darti un gran daffare, e la vita è dura per quelli che hanno il sospetto, la domandina, il tarlo, dunque sanno che devono stare lì, ma non ci stanno, e per una vita si chiedono, ma che forse io dovrei stare lì? esatto, solo che esatto non se lo dicono, perché alla fine mettono un mucchio di belle frasi su facebook, sono tutti scrittori in quest’epoca, tutti filosofi, ma poi alla fine se ne stanno col culo bello inchiavardato dove sta (il culo, e anche loro), ma è giusto! devono stare lì! e infatti avete mai visto uno che deve stare in un posto e sta in un altro? ma figuriamoci, quello che c’è si vede, avviene, perché le scelte vengono fatte, perché la storia si ripete, immutabile, e ci definisce, e quello che odiamo e quello che diciamo di amare sono tutte stronzate, quando poi non avvengono, e infatti eccoci alla scena d’apertura, equipaggio a terra, tutti a vedere la cittadina, che è carina, e chi lo nega, e il comandante resta a bordo, perché c’è vento, e anche se ho una linea d’ancoraggio di un traghetto non mi fido, il comandante a bordo non si fida mai, in terraferma si fida troppo, e infatti guarda lì, ma lasciamo perdere, e allora si siede sulla tuga e guarda, e che vede? ma vede se stesso, ovviamente! anche se ha il nome di un’isola, di una baia, un cazzo di nome qualunque, ma qualunque non è, perché guardando, mirando, gli interminati spazi di là da quella (siepe, ma nel mio caso: prua), scorge se stesso, vede la rifrazione del mondo, il riflesso di sé, e dato che per settimane non si è visto, finisce che si scopre, e quel momento (sole che va giù, pensieri, emozioni, carne, sangue, memoria e tutto il resto) vale il viaggio, ed eccolo il Mediterraneo! quel momento, preceduto da settimane senza, seguito da settimane senza, ma impreziosito da un momento con, e quel momento, beffardo, assurdo, inestimabile, è costato un lavoro enorme per garantirselo, e infatti si chiama col suo nome, si chiama essenza, si chiama se stesso. Ecco, cos’è. Il Mediterraneo. Per me, s’intende… No, in assoluto.

Share Button

Cosa mi affascina

IMG_20150930_091659

Stati mediterranei all’alba

Navigare nel Mediterraneo, per chi non fosse familiare con la cosa, è un eterno transeunte di ipotesi. Non si prende e si va così, perché si decide nel tumulto di un’idea. I piani migliori vengono sempre modificati. Altri esseri, e maggiori, decidono sempre al nostro posto. Noi possiamo solo fallire o far bene quel che ci indicano. Nel Mediterraneo dominano infatti la serendipità, il trovare ciò che non si cerca (Enea), e la delusione, il non trovare ciò che si rincorre (Ulisse). Tra i due estremi c’è lo spazio per ipotesi e sogni, incerti come lo è la mutevolezza del tempo (Giasone).

Non so cosa mi affascini tanto di questo mare. Può essere che sia il suo vuoto, silenzio di grida e spazio gremito di assenze. Oppure la ricca scena delle sue isole equidistanti. Forse è la lentezza del suo tempo immemore. O il suo essere rivelazione della nostra cecità. Quando ti guardi in un angolo del Mediterraneo fai fatica a vederti, perché spesso non ci sei. Non esserci è molto frequente qui. Il tuo corpo è lì, intendo dire, ma questo non basta. In questa epoca, càpita che frequentiamo le cose più intense della vita senza esserci altro che in minima parte, o solo nominalmente.

Il Mediterraneo non può essere nominato, invece, perché il suo nome è come dire “uomo”, contiene tutto e il suo contrario. Soprattutto, Mediterraneo non è una terra, e neppure un mare, semmai una linea di costa, una collana di porti. Un limite, ma di cosa? Il paradosso è anche qui: Mediterraneo immagine di armonia. L’armonia è l’equidistanza dagli estremi? La sicura distanza dal limite? Forse no. Se le cose stanno così, ho capito cosa mi affascina.

Share Button

Che dire sul mare…

IMG_20150928_172832

Non parlo mai del mio amore per il mare. Ne ho scritto molto in almeno tre dei miei romanzi, quelli che definirei “nautici”, e mare ce n’è tanto dovunque in quello che scrivo. Forse è per questo che poi non mi ci soffermo ancora. Il mare, in fondo, non è cosa semplice di cui parlare. Anche quando torno in terraferma, non racconto molto. Chi ne sa, immagina meglio di ciò che potrei spiegare. Chi non ne sa, farebbe comunque fatica a capire.

Ad ogni buon conto, stare in mare molti mesi l’anno, ha qualcosa di ipnotico, che pure anima la sensibilità. Scorrono i porti, scorre la superficie del mare, scorre il tempo in modo del tutto asincrono. Scorre il cuore, che si sofferma su pensieri impossibili per la terraferma. In mare un’ora non è un’ora, ma uno schizzo d’eternità che rapido asciuga sull’intonaco di un muro assolato. Ciò che manca a bordo, è sempre più in là; ciò che c’è, è ancora più vicino. In mare si sente di più, se si deve sentire, e si patisce di più, se si deve soffrire. Il mare non è cosa per uomini che desiderino poco, che tendano alla quiete interiore. Per vivere in mare occorre stipulare degli onesti patti. Uno è con se stessi. Un altro, almeno, con la solitudine.

Ciò che avviene in mare è un antico confronto, tra se stessi e se stessi, che ha luogo al di fuori, in campo aperto, nessuno mai nel suo, nessuno mai col favore del campo, ognuno senza rete, solo con la sua storia. Chi è stato male quando era a bordo di una barca, lo sa. Quello che avviene su una barca, tuttavia, è sempre la verità. In terraferma, nel caos dell’agio, si mente molto più facilmente. Anche perché all’asciutto si cerca vanamente di essere felici, mentre in mare ci si accontenta di vivere. Che è assai più vero e difficile.

Share Button

L’elencuccio

IMG_20150926_111602

Nell’elencuccio ci va anche la barchetta, ovviamente. Con la “e” aperta…

Paradossi. A poche miglia da qui transitano indisturbati (e preda degli scafisti) migliaia di migranti senza documenti, che passano frontiere su frontiere con il beneplacito della polizia. Qui invece, a Izmir, l’antica Smirne, non c’è un luogo dove fare dogana regolarmente per una normale barca a vela. Il mondo alla rovescia. Poi qualcuno si sente offeso quando tuono veementemente contro la burocrazia e l’assurdo di questa nostra società regolamentata (quando gli pare…). Invece che farsi prudere le mucose basse, provasse a ragionare su quello che scrivo, così magari fa un salto evolutivo verso la comprensione non già di me, ma di sé e del mondo in cui vive.

Basta dogane che bloccano i viaggiatori e favoriscono i trafficanti. Basta. E basta a tutto quello che è insensato e illogico, e che subiamo come fosse un karma inevitabile. Basta fare i finti tonti, turisti distratti, passeggeri eterei nel mondo pesante. Basta. Buddisti e varie anime belle diranno che non va bene arrabbiarsi. Barricaderi e nostalgici della lotta dura invocheranno l’indignazione radicale. Fate voi. Basta che siamo tutti d’accordo che quando osserviamo questo mondo vediamo un groviglio assurdo. Basta che questa nostra società non la difendiamo come fosse il meglio del meglio. Basta che ci togliamo dagli occhi la narcolettica indifferenza, sorella siamese del menefreghismo e dell’atarassia culturale. Se noi galleggiamo in un mondo che non esiste, tra il bar e l’ufficio, strafottendosene altamente del ruolo politico del giudizio dell’individuo (possibilmente colto) e di quello culturale della critica, non è affatto detto che la nostra sia l’opzione migliore, la più utile, la più doverosa.

Occhio, ma occhio vero, a non dormire sonni perenni. Se la vacanzina è andata bene, se l’investimentuccio ha reso più dell’inflazione, se nel prossimo programma di licenziamenti di massa non siamo inclusi per un miracolo, se la leggina sugli sgravi fiscali ci include, se il nostro figliolo è entrato nelle graduatorie dell’asilo pubblico (per miracolo o per spinta), questo non vuol dire molto. Fuori da questo elencuccio miserrimo c’è un caos di follie, un gomitolo di leggi idiote, una liturgia di stronzate planetarie con cui da un lato si crea il miraggio dell’elencuccio, e dall’altro la realtà di quando domani in quella lista non ci sarà niente. Dunque, datemi retta, occhio a fare i buonisti, occhio a non esercitare il dovere dell’osservazione e della critica. Occhio ad avere occhio. Anzi, a non chiuderli entrambi.

Share Button

Oltre il muro

IMG_20150922_133711

Ruhollah e Perisa. Afgani. Persone.

Tra i migranti sul confine greco-turco.

Mitilene, Lesvos, Grecia, 22 settembre 2015

Luce di piombo sul porto, aria di scirocco distratto, che appiccica i vestiti addosso. Un peso invisibile sul cuore di questa linea di confine, dove sui muri trovi le offerte di lezioni di turco, dovunque locali di kebab e dove i capitali anatolici hanno costruito un marina molto attrezzato e gestiscono gran parte degli alberghi.

La cittadina è invasa di stranieri. Un esercito silenzioso, che sciama per il lungomare, l’angiporto, e si raduna sul molo, tra tende e bivacchi. “Aspettiamo il traghetto di questa sera”, mi dice Alis, “abbiamo già i biglietti”. Me li mostra con una certa soddisfazione.

Poco fa mi sono avvicinato alla zona occupata, lentamente, con qualche angoscia. Volevo parlare con loro, i migranti che riempiono le pagine dei quotidiani. Volevo entrare in contatto, rompere il muro. Sono radunati tutti nella parte orientale della città, assiepati sulla banchina principale, oppure a gruppi o isolati sull’estremità di un molo, con lo sguardo all’orizzonte, verso la terra turca lasciata da poco. Chi devo fermare, mi chiedevo, a chi devo rivolgere la parola per fare qualche domanda?

Il più, per decidere, l’hanno fatto gli occhi. E’ bastato smettere di non guardarli, come avevo fatto un giorno fa. Un misto di rispetto e paura, di ritegno e timore, uno giustificato, l’altro no. Dopo una decina di passi, subito un sorriso, un cenno d’intesa: “Prego, siediti” mi dice Alis, ventotto anni, siriano di Aleppo, studente di scienze della nutrizione, con occhiali un po’ storti, rotti in una estremità, e un sorriso persistente sulle labbra. Mi accomodo sulla stuoia a bordo molo, mi presento, offro qualche sigaretta. Sono in otto, tre sono amici, gli altri si sono conosciuti in viaggio. Uno di loro lavora, fa il fabbro, gli altri studiano economia, ingegneria, storia. Tutti parlano un discreto inglese. “Lui è di Damasco, io e gli altri di Aleppo. Sempre se esiste ancora Aleppo…”. Mi parlano della città distrutta, delle violenze, dei bombardamenti in ogni angolo del paese, visti di persona o saputi da amici e famigliari. “Non si può più vivere laggiù, siamo dovuti partire”. Come avete fatto a passare il confine turco? “Ci hanno accompagnato dei frontalieri. Quasi mille dollari a testa. Di notte. Ci hanno radunato in una casa e poi ci siamo mossi. Abbiamo camminato ininterrottamente per ventiquattro ore. Qualcuno non ce l’ha fatta e si è staccato, seduto per riposarsi. Ma i frontalieri sono andati avanti, e noi li abbiamo seguiti. Tutta in salita, sulle montagne, e poi giù a strapiombo”. Gli chiedo se hanno usato violenza contro di loro. “No, solo qualche gesto… Ma qualcuno ha sparato, non lontano. Abbiamo visto i lampi dei fucili a ripetizione, ci siamo messi a correre”. Gli chiedo se sa il perché di quegli spari, ma sorride, scuote la testa. “E dopo, quando siete arrivati in Turchia?”. “La gente che abbiamo incontrato è stata gentile, non tutti, ma la maggioranza sì. Ci hanno dato da bere, da mangiare. La polizia turca ci ha sistemati su un autobus per Izmir, ventiquattro ore di viaggio”. E da Izmir? Come avete fatto a trovare un imbarco? “Altri siriani ci hanno detto dove andare, abbiamo incontrato gli scafisti, pagato ottocento dollari per un posto a bordo”. Su che barca? “Un gommone di nove metri, eravamo quarantacinque” ma un altro ragazzo lo corregge: “Quarantasei”. Faccia paffuta, sguardo buono, non chiedo il suo nome. Un miliziano dell’Isis ha ucciso sua sorella a colpi di mitra, ma oltre un accenno a questa tragedia non fa. Racconta della traversata: “dovevamo togliere l’acqua da dentro con un secchio continuamente, senza mai fermarci. Entrava  in grande quantità, perché eravamo al limite con l’affondamento. Eravamo zuppi, faceva freddo. Ma almeno io sono riuscito a farcela al primo colpo. Lui è stato meno fortunato”. Accanto indica un ragazzo magro, il più giovane del gruppo, Rashid, 21 anni, studente di economia, sguardo vispo, occhi rapidi, intelligenti. Lui ci ha provato addirittura otto volte, e in sette tentativi la guardia costiera greca li ha rimandati indietro. “L‘ottava volta lo scafista voleva farci ripagare il prezzo,” racconta “ci siamo azzuffati, avevano dei coltelli, ma noi eravamo tanti, e alla fine ci hanno imbarcati. E ce l’abbiamo fatta. Mi chiedo se i tentativi fatti a vuoto non fossero un caso…”. Ridono tutti, scambiano qualche battuta in arabo. Lo prendono in giro, credo, per quello che ha appena detto.

I greci che hanno trovato sulle coste di Lesvos li hanno aiutati, offerto cibo e acqua, indicato la via del porto. Anche i pochi poliziotti greci che hanno visto, solo in due occasioni, sono stati cortesi. In effetti in tre giorni non ho mai visto un gendarme, a parte da lontano, un’auto della polizia con i lampeggiatori accesi. In porto ci sono una decina tra pilotine e corvette di capitaneria e marina militare, ma oltre a questo non c’è alcun servizio d’ordine sull’isola, dove sta il grosso delle migliaia di migranti che quotidianamente si danno il cambio tra chi riparte e chi arriva. Non si avverte alcun bisogno di reprimere o arginare, non si ascolta alcuno schiamazzo, nessun litigio, nessun gesto violento. C’è più confusione a Civitavecchia, ad agosto, per imbarcarsi verso la Sardegna.

Penso che infatti questi non sono migranti, è improprio chiamarli esuli, disperati, perché sono viaggiatori. Hanno tutti deciso di andare via, hanno del denaro con sé, hanno una meta (“amici siriani in Svezia, che ci aspettano, che sia fatta la volontà di Allah”), si siedono a centinaia sulle banchine, ma altrettanti popolano i locali del porto, che stanno facendo affari d’oro, mangiano qualcosa, bevono, usano il wifi. Sono vestiti ordinati, per quello che consente un simile viaggio, si lavano alle fontanelle, o direttamente in mare. Ho più macchie e buchi io nei pantaloncini che uso per navigare di loro che viaggiano da cinque giorni. Mi guardo e mi vergogno un po’.

Mi raccontano che a Damasco ci sono spesso attentati, bombe, e che in molte parti del paese regna la violenza. Per questo sono partiti. “Qualunque cosa è meglio di quella vita. Stasera andiamo ad Atene con la nave, poi andremo in Macedonia, poi in Serbia e poi vediamo. Pensavamo all’Ungheria, ma lì c’è un governo di destra che non fa passare nessuno. Per chi va in Germania non è molto difficile a quel punto. Per chi va in Scandinavia c’è ancora molta strada”. Stimano quattro settimane di viaggio almeno. Sorridono, come a dire “stiamo freschi, hai voglia la strada che manca ancora”.

Ci salutiamo. Mani sul cuore, invocazioni alla sorte e a Dio. Anche se mi pare che di Dio qui non ci sia molta traccia. Mentre di coraggio e voglia di vivere ne vedo dovunque.

Poco dopo gli sguardi s’incrociano con Ruhollah, che viaggia con la nipote. Sono entrambi afgani, due facce dolci, gentili, la ragazzina avrà tredici anni, lui ne ha diciannove. “Siamo afgani ma siamo dei senza terra”. Mi spiega che sono dovuti fuggire in Iran perché i Taliban li avrebbero uccisi. “Noi siamo mussulmani sciiti, e i Taliban dicono che se uccidi sette sciiti vai in paradiso. Mi chiedo dove stia scritta una bestemmia del genere. Non certo nel Corano. Io il Corano l’ho letto tutto”. Ruhollah è un ragazzo educato, parla un ottimo inglese, è vestito molto bene, ha una camicia bianca linda. Mi spiega che tutta la loro famiglia ha studiato, ma che in Iran erano dei senza terra, senza patria, senza diritti. “Siamo dovuti fuggire, purtroppo non insieme, in momenti diversi. Io e Perisa abbiamo valicato il confine con la Turchia a est di Aleppo, circa sessanta chilometri a est, camminando quarantotto ore senza fermarci mai, notte e giorno. Lei era sfinita, e io anche ad essere sinceri. Chi ci ha condotto ci ha dato bastonate per farci muovere quando ci sedevamo per un momento. Poi quando abbiamo incontrato i turchi, loro sono fuggiti”. Gli chiedo quanto hanno dovuto pagare. “Ottocento dollari a testa”. “Di che nazionalità erano i frontalieri?” “Siriani. Uno forse iracheno”. “E i turchi come vi hanno trattato?” “Molto bene. Curdi e turchi ci hanno aiutato, e non solo la gente comune, anche i militari. Ci hanno consegnato un pacco con dentro acqua e viveri e ci hanno messi su un autobus per Ankara. Poi siamo arrivati a Istanbul. Lì abbiamo incontrato gente che ci ha spiegato come fare per la traversata. In tutto abbiamo viaggiato dieci giorni per arrivare qui a Lesvos”. Le storie coincidono con quelle dei ragazzi siriani, ma il prezzo pagato per la parte a mare è maggiore: mille dollari a testa. Ruhollah mi spiega che è stato terrorizzato fino all’ultimo, perché “a bordo di un gommone di non so quanti metri, ma non tanto grande, eravamo in trentacinque. Io ho pensato che saremmo morti tutti. C’era anche un bambino piccolo, non so, forse di un anno appena, che piangeva, e Perisa stessa era in lacrime. Era notte, non si vedeva niente. Chi non aveva le scarpe sugli scogli si è fatto tagli profondi. Poi, grazie alla volontà di Dio, siamo arrivati qui. Adesso finalmente siamo in salvo, e ora è anche tutto legale”. Mi colpisce questa affermazione. Gli chiedo se abbiano documenti o altro per l’identificazione: “No, nessun documento”. E come fate allora? “Siamo rifugiati, il diritto internazionale è molto preciso su questo”. Sto parlando con un migrante che conosce il diritto internazionale a diciannove anni. “Io studio legge, cioè, studiavo, ero al primo anno, poi sono dovuto partire. Ma spero di ricominciare appena arrivo in Svezia”.

Stasera partirà anche lui, partiranno tutti, per lasciare posto sui moli ad altre migliaia in arrivo. Li guarderò passare a bordo del traghetto, che sfila avanti piano a poche decine di metri da Mediterranea e poi passa su avanti tutta con la prua a sud. Speriamo vedano che li saluto, che auguro loro buon vento. Tutti in viaggio per un’altra vita.

Share Button

Cominciamo da questa guerra

IMG_20150919_182239

Lesvos, accanto ai migranti. Mi ha impressionato perché sono piccole, da donna, diverse, e puntavano una a nordovest, l’altra a est.

Mitilini, Lesvos, su Mediterranea: Migrano perché c’è la guerra. C’è la guerra per la sete di potere tra fazioni sunnite e sciite, un’autentica resa dei conti che i mancati concili teologici dell’Islam, mai rinnovato, mai evoluto, e mille altre cause, hanno trascinato fin qui; per la voracità economica e politica tra signori del petrolio nel periodo coloniale, poi in Africa occidentale, in Maghreb e Mashreq, dunque in Iraq, e ancora oggi dovunque; per la follia dei tiranni come Isaias Afeworki, dittatore eritreo che schiaccia e umilia il suo popolo, che il nostro ex Presidente del consiglio ha ospitato sul suo yacht privato, che Italia e stati occidentali continuano a legittimare; per il cinismo della politica estera, che gioca sulla pelle della gente, dell’una e dell’altra parte, nella questione palestinese, israeliana, e più in generale mediorientale; per lo sporco calcolo delle convenienze nel Paese Curdo, in Siria, in Turchia, terreno di scontro indiretto tra grandi potenze e nuove emergenti follie. Ecco perché migrano. Senza questo elenco, e uno ben più lungo che potremmo fare, migrerebbero meno. Alcuni, forse, per nulla.

E invece fuggono, come farei certamente io, dai disequilibri che conseguono a scelte prese altrove, dalla violenza in cui termina una firma su un contratto commerciale spregiudicato in Niger, in Sudan, in Cina, dai soprusi in cui si manifesta l’effetto della mazzetta presa da un politico greco, albanese, o di chissà dove, dalle discriminazioni in cui si palesa il disprezzo del dolore di politici fondamentalisti, o solo ignoranti, che non hanno sogni per sé e per i loro popoli. L’intellettuale turco in prigione per reati d’opinione, come il migrante che muore, come l’armeno perseguitato, come il darfuriano esule, non sono eventi inevitabili, inspiegabili, fatali, sono effetti di azioni, oltre che endemici fatti di questa assurda vita. Cominciamo a non fare il prossimo errore, a non siglare il prossimo contratto, a non perdonare la prossima corruzione, a non tollerare il prossimo gesto diplomatico dettato dall’avidità e dall’analfabetismo culturale, a stigmatizzare con forza il Comitato per i Diritti Umani dell’ONU che chiuse il fascicolo sulla morte sospetta di Thomas Sankara. Cominciamo da questa guerra, come dice Gino Strada, senza preoccuparci che sia impossibile la pace nel mondo. Cominciamo dal prossimo mitra che vendiamo, dalla prossima mina antiuomo, dal prossimo gommone, dal prossimo giubbotto salvagente, dal prossimo pieno di gasolio. Cominciamo dal prossimo campo petrolifero nel Mediterraneo, dalla licenza estorta o avuta oliando politici che andrebbero defenestrati. Cominciamo da gesti ancor più semplici, quotidiani, ognuno i suoi. Cominciamo dalle parole che usiamo. Dai libri che non leggiamo per pigrizia. Dalle scuse con cui ci assolviamo sempre. Dai pensieri. Che non facciamo. Dalla vita. La nostra, che non scegliamo. Con cui, spesso, avalliamo tutto.

 

«Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità. » (Thomas Sankara)
Share Button

Vita

migranti lesvos

Mentre si lavano

Io non avevo mai visto i migranti. Ieri ci ho passeggiato accanto, dentro, mi sono seduto con loro, li ho osservati, fotografati, ho tentato di vivisezionare i loro volti, capire. Erano stanchi, coi vestiti fradici, bisognosi di tutto…. Avevano nostalgia di casa, alcuni si sentivano soli, seduti con le braccia sulle ginocchia, e guardavano intorno a loro con un’espressione di spaesata e fatale attesa. Poca basilare assistenza intorno a loro, bottiglie d’acqua passate di mano in mano con trepidazione, solo una decina di bagni approntati alla bell’e meglio, odore di piscio, feci, corpi sudati, giubbotti salvagente dovunque, l’arancione, il colore accecante del naufragio. Certo, ho visto tutto questo. E mi ha fatto molta impressione. Con loro non c’era che qualche sparuto volontario. Non erano chiusi in alcuna gabbia, ma in un’area aperta, sul porto, e per la città, quasi rispettosamente al limitare di essa, fusi con i greci, eppure separati da un filo invisibile.

Eppure… ho visto sorrisi, tra loro. Ho visto bambini che giocavano, mamme pronte a intervenire, uomini che si raccontavano stesi su un molo, abbracci, selfie, qualcuno che si lavava con un goccio d’acqua preziosa, ragazzi dal volto di studente che lavavano in mare i propri vestiti. Non ho visto straccioni, miserabili, ma persone. Ho visto che gli asiatici tendevano già a riunirsi tra loro, come i mediorientali, riproducendo una città migrante di quartieri. Ho visto l’intraprendente che provava a vendere acqua avuta chissà come. La ragazza che guardava il ragazzo che non conosceva. L’uomo che guardava il vicino di tenda. La famiglia seduta a circolo, qualcuno che alzava un braccio, mi lanciavano un sorriso, accompagnato dalla ricchezza inesauribile della parola. Ho visto la vita che corre, inesorabile, sui destini veri degli uomini, non quella che pensiamo noi. E ho visto che dai nostri occhi erano dei derelitti senza nulla, ma dai loro erano dei vincenti, tutt’altro che disperati, speranti migranti che ce l’avevano fatta, perché avevano avuto il coraggio di partire, di non arrendersi, e non erano morti per la via, e stanotte nessuno li avrebbe aggrediti, violentati, uccisi. Erano in salvo.

Ingenui, immemori, inconsapevoli. Ma cosa pensavamo, che gli uomini non migrassero? Che non cercassero una vita migliore? Lo fanno da sempre, a miliardi sono migrati, sempre, da un milione e mezzo di anni. L’uomo primitivo nasceva nell’Africa lussureggiante e meravigliosa, mai contaminata dall’uomo, dal suo sfruttamento, dal suo colonialismo, eppure si mise in marcia, prua a nordest, l’Egitto, la Georgia caucasica, lì si divisero, prime intemperanze sulla meta, qualcuno accostò per l’Europa, altri per l’Asia. Dove andavano? Cosa li spingeva? Cosa cercavano? Alla base del castello di Mitilene ieri leggevo che le case del borgo settentrionale furono occupate nel 1922 dai 180.000 migranti che provenivano dall’Asia Minore, fuggiti da un cataclisma geologico. Oggi ci vedo i migranti che fuggono dalle guerre. La storia si ripete. la storia dell’uomo vero, non di quello che inventiamo noi. Che non esiste. Quella vita assurda, che non abbiamo fatto noi, che è tragica, immotivata, addolorata, eppure speranzosa, possibile, che non può che essere tentata, dove un sorso d’acqua ha valore, dove un sorriso ha valore, dove la speranza è un miraggio, ma è l’unica cosa che abbiamo.

(Che il loro arrivo trovi noi europei impreparati, divisi sui valori dell’accoglienza, incapaci di condividere le nostre fortune, dunque di aiutarli davvero, è tutt’altro discorso, troppo lungo per queste mie prime impressioni).

(Sono qui con Progetto Mediterranea. Segui quel che “vediamo” del Mediterraneo su www.progettomediterranea.com)

Share Button

Confini

lesvos2

Uno degli accampamenti, entrando a dritta, porto di Mitilene

Veder galleggiare dei giubbotti salvagente mentre navighi verso un porto. Uno, due, quattro. Non mi era mai capitato. Dentro c’erano degli esseri umani. Spero se li siano tolti all’arrivo. Spero ce l’abbiano fatta, qualunque fosse la loro rotta. Quei giubbotti, in ogni caso, fanno impressione. E le decine, centinaia, di bottigliette d’acqua che galleggiano anche di più: bocche riarse da dissetare.

La barca è arrivata a Mitilene, Lesvos, cittadina dal nome affascinante, antico. Entrando in porto, sul lato di dritta, tende e accampamenti. Su quello di sinistra, il marina, dove siamo atterrati. Per qualche centinaio di metri siamo stati sul ciglio del confine, di qua l’Europa, tutto quello che sappiamo, di là l’oriente, il meridione, tutto quello che non immaginiamo neppure. La ragazza del porto, poco dopo l’ormeggio, mi dirà: “Sono tanti, ogni giorno, tra poco saremo di nuovo alla settimana scorsa, e sarà un disastro. Con le elezioni tengono tutto sotto il tappeto”. Stamani all’alba è rientrata veloce una nave della capitaneria di porto. Troppo veloce. Dall’ormeggio è partita un’ambulanza, sirene a squarciare il mattino. Era per una bambina, che non ce l’ha fatta, naufragata a un passo dalla costa, qui vicino.

Ce la farà questa gente? Ce la farò, mi chiedo? Giubbotti, uomini, sogni, pensieri, tutto viaggia su questo lembo di mare. Oggi lavori a bordo, abbiamo ribaltato la barca, pulita a fondo. Le rotte procedono. E quei giubbotti? A due nodi arriveranno a Chios domani sera. Guscio galleggiante di uomini in viaggio. Anche la barca sarà a Chios, tra una decina di giorni. Dall’altro lato del porto sento i megafoni della polizia che tenta di arginare la folla di migranti. E’ settembre, ma è caldissimo, come un tragico agosto, in cui essere bagnati, stanchi, sudati, impauriti, deve essere terribile. Tra poco vado a vedere la situazione. Forse ne racconterò.

Essere sul confine impressiona. Esserci arrivati, anche. Incrociare la rotta con dei giubbotti galleggianti, ancora di più. I confini non sono più tra paesi, ma tra mondi. E sul confine del mondo senti sempre il viaggio. Pesi le tue parole, perché non sembrino eccessive. Senti che è terribilmente duro, a volte, ma occorre procedere. Se possibile, capire…

Share Button

Fungibili

lymnos1

Lymnos

Ricordo di aver messo su da zero un’intera direzione aziendale. Ero giovanissimo, e la disegnai e costruii da manuale, anche perché ne sarei dovuto essere il direttore. Andò tutto bene, un’azienda che cresceva e mieteva successi sul mercato. Un impegno enorme, eravamo sempre in televisione, decine di migliaia di articoli in rassegna ogni anno. Il mio motto era “una notizia al giorno”, avevo un gruppo splendido, tutti assunti da me. La gente lavorava a fianco, eravamo uniti, avevamo un metodo tutto nostro. C’era entusiasmo, profitto, riconoscimento, formazione. Poi, un giorno, cambio di vita, andai via da Roma e da quell’azienda. Oddio, finirà tutto, che accadrà?!

Non accadde niente. Chi mi sostituì fece il lavoro che doveva, con gente diversa o uguale, con obiettivi che cambiarono col tempo. Tutto identico. Io ne rimasi colpito. Pensavo di essere insostituibile, ne erano certi i miei collaboratori. Mi sbagliavo. “Tanto di noi si può fare senza, chi vuoi che noti mai la nostra assenza?” (P. Conte).

Capii in quella circostanza (e in molte altre) che siamo totalmente fungibili. Esseri apparentemente insostituibili destinati a non essere mai stati, non solo a non essere più adesso. C’eravamo, qualcuno potrebbe perfino ricordarlo, giurarlo, ma ora non ci siamo più. Spazio trasparente, oppure occupato da altri. Il senso messo nelle cose, il misto di aspettativa e speranza, d’impegno e creatività, di desiderio ed energia, si è diluito nel tempo, si è espanso fino a diventare aria fuggita nel vento, divenuta respiro di chissà chi, lontano ormai. Il maledetto ego estinto, quello su cui un tempo si poteva far leva per la schiavitù, rivela la sua illusorietà. E io che credevo di essere speciale

Niente per niente, tanto valeva niente da sempre. Su questo occorre ragionare, prima o dopo. Segniamocelo. Ogni forma di unicità è illusoria, ogni manifestazione dell’ego è destinata a naufragare. Non siamo niente, e si vede l’istante dopo che siamo andati via, (quando non si è già visto mentre c’eravamo).

Il presente allotropo ed egocentrico è la menzogna a cui crediamo più ingenuamente, più facilmente. Come fosse vera. Ma è una pura illusione. Non c’è niente, non siamo niente, ma abbiamo in noi tutte le illusioni di essere unici, irripetibili, insostituibili, del mondo. Fungibili. Come galeoni di cenere che appaiono e scompaiono nella nebbia di fronte a un cieco. Oggi mi sento così.

Share Button

Colori

goekceada5

L’azzurro del Mediterraneo non lo puoi capire‎, solo vedere, e non mi riferisco al mare, semmai al cielo, neppure, lo stacco della terra arsa di stoppie tra cielo e mare, dunque è il giallo che non puoi capire, solo inquadrare, senza notare il cespuglio verde poco prima del crinale, che quando lo noti fa scomparire cielo, mare, terra, dunque è il verde del Mediterraneo che non puoi capire, solo scuro punto perso agitato dal grecale che spazzola le tue memorie attive, anche se non ha colore, dunque è il vento del Mediterraneo che non puoi capire, e nemmeno vedere, solo provare sulla pelle abbronzata che non sai descrivere, su cui si posa il sale a righe bianche insondabili che non puoi lavare, solo ricordare, dunque è il rosa bianco bronzo del Mediterraneo che non puoi capire, solo vedere, semmai quello che contiene, viscere, tendini, vasi‎, sangue, umori, neppure…, pensieri, dunque il Mediterraneo non lo puoi capire, solo sentire.

Share Button