Oltre il muro

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Ruhollah e Perisa. Afgani. Persone.

Tra i migranti sul confine greco-turco.

Mitilene, Lesvos, Grecia, 22 settembre 2015

Luce di piombo sul porto, aria di scirocco distratto, che appiccica i vestiti addosso. Un peso invisibile sul cuore di questa linea di confine, dove sui muri trovi le offerte di lezioni di turco, dovunque locali di kebab e dove i capitali anatolici hanno costruito un marina molto attrezzato e gestiscono gran parte degli alberghi.

La cittadina è invasa di stranieri. Un esercito silenzioso, che sciama per il lungomare, l’angiporto, e si raduna sul molo, tra tende e bivacchi. “Aspettiamo il traghetto di questa sera”, mi dice Alis, “abbiamo già i biglietti”. Me li mostra con una certa soddisfazione.

Poco fa mi sono avvicinato alla zona occupata, lentamente, con qualche angoscia. Volevo parlare con loro, i migranti che riempiono le pagine dei quotidiani. Volevo entrare in contatto, rompere il muro. Sono radunati tutti nella parte orientale della città, assiepati sulla banchina principale, oppure a gruppi o isolati sull’estremità di un molo, con lo sguardo all’orizzonte, verso la terra turca lasciata da poco. Chi devo fermare, mi chiedevo, a chi devo rivolgere la parola per fare qualche domanda?

Il più, per decidere, l’hanno fatto gli occhi. E’ bastato smettere di non guardarli, come avevo fatto un giorno fa. Un misto di rispetto e paura, di ritegno e timore, uno giustificato, l’altro no. Dopo una decina di passi, subito un sorriso, un cenno d’intesa: “Prego, siediti” mi dice Alis, ventotto anni, siriano di Aleppo, studente di scienze della nutrizione, con occhiali un po’ storti, rotti in una estremità, e un sorriso persistente sulle labbra. Mi accomodo sulla stuoia a bordo molo, mi presento, offro qualche sigaretta. Sono in otto, tre sono amici, gli altri si sono conosciuti in viaggio. Uno di loro lavora, fa il fabbro, gli altri studiano economia, ingegneria, storia. Tutti parlano un discreto inglese. “Lui è di Damasco, io e gli altri di Aleppo. Sempre se esiste ancora Aleppo…”. Mi parlano della città distrutta, delle violenze, dei bombardamenti in ogni angolo del paese, visti di persona o saputi da amici e famigliari. “Non si può più vivere laggiù, siamo dovuti partire”. Come avete fatto a passare il confine turco? “Ci hanno accompagnato dei frontalieri. Quasi mille dollari a testa. Di notte. Ci hanno radunato in una casa e poi ci siamo mossi. Abbiamo camminato ininterrottamente per ventiquattro ore. Qualcuno non ce l’ha fatta e si è staccato, seduto per riposarsi. Ma i frontalieri sono andati avanti, e noi li abbiamo seguiti. Tutta in salita, sulle montagne, e poi giù a strapiombo”. Gli chiedo se hanno usato violenza contro di loro. “No, solo qualche gesto… Ma qualcuno ha sparato, non lontano. Abbiamo visto i lampi dei fucili a ripetizione, ci siamo messi a correre”. Gli chiedo se sa il perché di quegli spari, ma sorride, scuote la testa. “E dopo, quando siete arrivati in Turchia?”. “La gente che abbiamo incontrato è stata gentile, non tutti, ma la maggioranza sì. Ci hanno dato da bere, da mangiare. La polizia turca ci ha sistemati su un autobus per Izmir, ventiquattro ore di viaggio”. E da Izmir? Come avete fatto a trovare un imbarco? “Altri siriani ci hanno detto dove andare, abbiamo incontrato gli scafisti, pagato ottocento dollari per un posto a bordo”. Su che barca? “Un gommone di nove metri, eravamo quarantacinque” ma un altro ragazzo lo corregge: “Quarantasei”. Faccia paffuta, sguardo buono, non chiedo il suo nome. Un miliziano dell’Isis ha ucciso sua sorella a colpi di mitra, ma oltre un accenno a questa tragedia non fa. Racconta della traversata: “dovevamo togliere l’acqua da dentro con un secchio continuamente, senza mai fermarci. Entrava  in grande quantità, perché eravamo al limite con l’affondamento. Eravamo zuppi, faceva freddo. Ma almeno io sono riuscito a farcela al primo colpo. Lui è stato meno fortunato”. Accanto indica un ragazzo magro, il più giovane del gruppo, Rashid, 21 anni, studente di economia, sguardo vispo, occhi rapidi, intelligenti. Lui ci ha provato addirittura otto volte, e in sette tentativi la guardia costiera greca li ha rimandati indietro. “L‘ottava volta lo scafista voleva farci ripagare il prezzo,” racconta “ci siamo azzuffati, avevano dei coltelli, ma noi eravamo tanti, e alla fine ci hanno imbarcati. E ce l’abbiamo fatta. Mi chiedo se i tentativi fatti a vuoto non fossero un caso…”. Ridono tutti, scambiano qualche battuta in arabo. Lo prendono in giro, credo, per quello che ha appena detto.

I greci che hanno trovato sulle coste di Lesvos li hanno aiutati, offerto cibo e acqua, indicato la via del porto. Anche i pochi poliziotti greci che hanno visto, solo in due occasioni, sono stati cortesi. In effetti in tre giorni non ho mai visto un gendarme, a parte da lontano, un’auto della polizia con i lampeggiatori accesi. In porto ci sono una decina tra pilotine e corvette di capitaneria e marina militare, ma oltre a questo non c’è alcun servizio d’ordine sull’isola, dove sta il grosso delle migliaia di migranti che quotidianamente si danno il cambio tra chi riparte e chi arriva. Non si avverte alcun bisogno di reprimere o arginare, non si ascolta alcuno schiamazzo, nessun litigio, nessun gesto violento. C’è più confusione a Civitavecchia, ad agosto, per imbarcarsi verso la Sardegna.

Penso che infatti questi non sono migranti, è improprio chiamarli esuli, disperati, perché sono viaggiatori. Hanno tutti deciso di andare via, hanno del denaro con sé, hanno una meta (“amici siriani in Svezia, che ci aspettano, che sia fatta la volontà di Allah”), si siedono a centinaia sulle banchine, ma altrettanti popolano i locali del porto, che stanno facendo affari d’oro, mangiano qualcosa, bevono, usano il wifi. Sono vestiti ordinati, per quello che consente un simile viaggio, si lavano alle fontanelle, o direttamente in mare. Ho più macchie e buchi io nei pantaloncini che uso per navigare di loro che viaggiano da cinque giorni. Mi guardo e mi vergogno un po’.

Mi raccontano che a Damasco ci sono spesso attentati, bombe, e che in molte parti del paese regna la violenza. Per questo sono partiti. “Qualunque cosa è meglio di quella vita. Stasera andiamo ad Atene con la nave, poi andremo in Macedonia, poi in Serbia e poi vediamo. Pensavamo all’Ungheria, ma lì c’è un governo di destra che non fa passare nessuno. Per chi va in Germania non è molto difficile a quel punto. Per chi va in Scandinavia c’è ancora molta strada”. Stimano quattro settimane di viaggio almeno. Sorridono, come a dire “stiamo freschi, hai voglia la strada che manca ancora”.

Ci salutiamo. Mani sul cuore, invocazioni alla sorte e a Dio. Anche se mi pare che di Dio qui non ci sia molta traccia. Mentre di coraggio e voglia di vivere ne vedo dovunque.

Poco dopo gli sguardi s’incrociano con Ruhollah, che viaggia con la nipote. Sono entrambi afgani, due facce dolci, gentili, la ragazzina avrà tredici anni, lui ne ha diciannove. “Siamo afgani ma siamo dei senza terra”. Mi spiega che sono dovuti fuggire in Iran perché i Taliban li avrebbero uccisi. “Noi siamo mussulmani sciiti, e i Taliban dicono che se uccidi sette sciiti vai in paradiso. Mi chiedo dove stia scritta una bestemmia del genere. Non certo nel Corano. Io il Corano l’ho letto tutto”. Ruhollah è un ragazzo educato, parla un ottimo inglese, è vestito molto bene, ha una camicia bianca linda. Mi spiega che tutta la loro famiglia ha studiato, ma che in Iran erano dei senza terra, senza patria, senza diritti. “Siamo dovuti fuggire, purtroppo non insieme, in momenti diversi. Io e Perisa abbiamo valicato il confine con la Turchia a est di Aleppo, circa sessanta chilometri a est, camminando quarantotto ore senza fermarci mai, notte e giorno. Lei era sfinita, e io anche ad essere sinceri. Chi ci ha condotto ci ha dato bastonate per farci muovere quando ci sedevamo per un momento. Poi quando abbiamo incontrato i turchi, loro sono fuggiti”. Gli chiedo quanto hanno dovuto pagare. “Ottocento dollari a testa”. “Di che nazionalità erano i frontalieri?” “Siriani. Uno forse iracheno”. “E i turchi come vi hanno trattato?” “Molto bene. Curdi e turchi ci hanno aiutato, e non solo la gente comune, anche i militari. Ci hanno consegnato un pacco con dentro acqua e viveri e ci hanno messi su un autobus per Ankara. Poi siamo arrivati a Istanbul. Lì abbiamo incontrato gente che ci ha spiegato come fare per la traversata. In tutto abbiamo viaggiato dieci giorni per arrivare qui a Lesvos”. Le storie coincidono con quelle dei ragazzi siriani, ma il prezzo pagato per la parte a mare è maggiore: mille dollari a testa. Ruhollah mi spiega che è stato terrorizzato fino all’ultimo, perché “a bordo di un gommone di non so quanti metri, ma non tanto grande, eravamo in trentacinque. Io ho pensato che saremmo morti tutti. C’era anche un bambino piccolo, non so, forse di un anno appena, che piangeva, e Perisa stessa era in lacrime. Era notte, non si vedeva niente. Chi non aveva le scarpe sugli scogli si è fatto tagli profondi. Poi, grazie alla volontà di Dio, siamo arrivati qui. Adesso finalmente siamo in salvo, e ora è anche tutto legale”. Mi colpisce questa affermazione. Gli chiedo se abbiano documenti o altro per l’identificazione: “No, nessun documento”. E come fate allora? “Siamo rifugiati, il diritto internazionale è molto preciso su questo”. Sto parlando con un migrante che conosce il diritto internazionale a diciannove anni. “Io studio legge, cioè, studiavo, ero al primo anno, poi sono dovuto partire. Ma spero di ricominciare appena arrivo in Svezia”.

Stasera partirà anche lui, partiranno tutti, per lasciare posto sui moli ad altre migliaia in arrivo. Li guarderò passare a bordo del traghetto, che sfila avanti piano a poche decine di metri da Mediterranea e poi passa su avanti tutta con la prua a sud. Speriamo vedano che li saluto, che auguro loro buon vento. Tutti in viaggio per un’altra vita.

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13 pensieri su “Oltre il muro

  1. L’Europa e l’europeo non possono dimenticare il peso specifico che hanno avuto anche in tempi recenti per quanto riguarda la situazione attuale nei Paesi africani. E con maggior ragione in Libia ed in Siria.
    L’Europa ha bombardato la Libia. E’ stata parte in causa del crollo di Gheddafi.
    La mai affrontata Questione Palestinese ha prodotto Integralismo. Ha creato L’Isis.
    Certo. Ci sono molte altre ragioni.
    Ma la Storia ci dice questo. Che l’Europa ha sempre creato e prodotto cambiamenti politici e sociali in Africa.
    Adesso l’Europa si chiama fuori. Vorrebbe chiamarsi fuori.
    La Storia non glielo permette.

  2. Simone, vedo che stai approfondendo molto i motivi che spingono queste persone a migrare. Ti chiedo, e mi chiedo, solo una cosa: perchè quando questa gente fugge dalla guerra, dai regimi oppressivi ecc. e arriva in Turchia, non si ferma e punta ad ogni costo all’Europa ? In Turchia dovrebbero essere già al sicuro, tanto più che i turchi li hanno accolti tutto sommato bene: sono musulmani tra musulmani, no ? In Turchia non gli spara nessuno, insomma.
    La Svezia credo dodici anni fa costruì un bel ponte che la collega con la Danimarca. Il ponte finisce a Malmo, cittadina che è stata soggetta a un flusso migratorio massiccio, e pare che si sia trasformata in un incubo in cui gli immigrati si fanno guerra a vicenda e proprio i musulmani sono quelli che causano più problemi di tutti. Malmo è stata ed è il fallimento della tanto decantata “integrazione”, in altre parole. E gli svedesi si sono pentiti amaramente di aver gettato quel ponte avveniristico. Intendo, gli svedesi che abitano a Malmo, non i politici che vogliono fare la bella faccia con l’ONU.
    Non lo so, Simone. Ai tempi della guerra nella ex Jugoslavia non siamo stati “invasi” da profughi, solo qualche famiglia. Terminato il conflitto, lì si sono rimboccati le maniche e hanno ricostruito il loro paese e la pace senza andare a cercare benessere in casa altrui. Francamente, li ammiro anche di più.

    • Ciao Dario. Non so, non conosco abbastanza la situazione. E non so dirti circa le motivazioni delle persone. Certo e’ che assisto alla creazione di un vero e proprio corridoio tra turchia e grecia e poi su verso nord. Un transito consentito nonostante l’illegalita’ dei passaggi. Come se ogni stato volesse farli andare senza trattenerli. E di questa ‘decisione’ pero’ non ci e’ stato comunicato nulla. Interessante, e anche un po’ sospetto. Io penso che ogni persona su questo pianeta dovrebbe muoversi e andare dove vuole, senza barriere, e se sta male in un posto dovrebbe potersene andare anche solo per provare cosa c’e’ piu’ in la’. Mi spiace sempre veder fare dei confini una religione. Io non credo ci sia un merito particolare nel ricostruire un Paese. Penso che ognuno sia un Paese.

  3. Un reportage che richiama il miglior Terzani, che nel video-testamento “Anam il senza nome” racconta di come quel misto di intuito e casualità, lo abbia portato per tutto l’arco della sua vita di giornalista e scrittore ad essere ogni volta esattamente nei luoghi e nel momento in cui la storia stava passando… proprio li, in quel periodo cruciale, in Cambogia come in Vietnam, da viaggiatore e cronista nello stesso tempo.
    Terzani che ci lascia un altro grande insegnamento… Quando ci dice di non cadere nell’assuefazione! Lui che ebbe una profonda crisi personale quando si accorse che era arrivato a contare i morti per strada, per scrivere il pezzo, facendo diventare tutto un numero, la contabilità della tragedia, la metrica della notizia, la misurazione della distanza tra chi osserva un dramma e chi lo vive sulla propria pelle.

    • Grazie per la Tua risposta, pacata e misurata. Al di là delle buone intenzioni, la signora storia insegna che fin quando i numeri sono piccoli, stiamo tutti in pace e andiamo a braccetto: i primi coloni ebrei camminavano a fianco dei palestinesi, possiedo le foto. Ma a furia di scaricarne dagli aerei, quando gli ebrei sono diventati troppi, si è scatenato l’inferno che tutti conosciamo. Numeri !
      Il concetto di mondo senza confini seduce ma è utopistico; i confini esistono da quando è nato l’uomo. Un esempio pratico è: io salgo bagnato e infreddolito sulla tua barca, tu mi accogli e mi rifocilli. Dopo qualche giorno, asciutto e nutrito e in forze io ti dico: bene, adesso qui comando anch’io, si prega il dio che piace a me e si fa rotta dove dico io… A quel punto mi butteresti a mare, vero ? Io possiedo una campagna , altro esempio stupido – e non mi piacerebbe che a cento metri da me si piazzasse un centinaio di rom perchè “gli piace il posto e non esistono confini”.
      Il fatto è che non siamo tutti educati, acculturati, silenziosi e rispettosi: non siamo tutti così, questo è il dettaglio che FA la differenza.
      Ma ritorniamo alla questione dei numeri e delle religioni: non dimentichiamo che nel 2005, credo, a Milano successe un putiferio con gli immigrati egiziani che pretendevano una scuola araba tutta per loro. Voglio dire, adesso questa gente siriana spaesata e sbattuta qua e là fa pena, fa pensare, fa… gli diresti “venite tutti in Europa”, certo. Ma dopo? Torneranno al loro paese e lo ricostruiranno ( bè, io lo trovo lodevole ) o resteranno nella gelida Svezia e costituiranno una comunità a parte, frustrata e foriera di problemi ? ( gli scontri alle periferie di Parigi insegnano …) Un caro saluto –

  4. Persone che ad un certo punto hanno deciso di rivendicare il diritto ad un’altra vita mettendosi in viaggio. Non migranti. Sono d’accordo.

  5. Questi sono i racconti che vogliamo!
    Questi i racconti, le parole, le immagini… Questi sono sguardi, mani, persone…Non serve altro per comprendere!

    Questo è un video della trasmissione “Gazebo”, uno tra i tanti di questa trasmissione, che, a mio parere, aiuta a capire, a non avere pregiudizi, a comprendere di cosa stiamo parlando… Questo è quello che la TV e i Media, in generale, NON fanno…se non in casi limitati.

    Nel ringraziare Simone, e con il suo permesso, pubblico qui un video che vi invito a guardare. Credo ci siano molti punti in comune con quanto scritto da Simone, che, seppure in una differente “narrazione”, colgono nel segno. Il resto non serve. Tutto il resto è da rigettare al mittente!

    http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a75f2307-0a81-45e2-aa9e-1064a3d3164f.html#p=0

    • Ricordo benissimo anch’io quella puntata di “Gazebo”.
      Leggendo il bellissimo reportage di Simone, anche a me è ritornata alla mente, come un flash della memoria, la storia di questa coppia di siriani, rifugiatasi ad Amburgo, attraversando il territorio greco.
      Quando vidi la trasmissione, seguii attentamente e fui colpita in particolare da un aspetto dirompente in questa drammatica e nello stesso tempo coinvolgente vicenda : fui colpita dalla grande DIGNITA’ di queste persone.
      Una commovente e nello stesso tempo ammirevole espressione di dignità, che trasuda anche dalla testimonianze dirette , di cui anche Simone ci ha resi partecipi con altrettanta efficacia.
      Chi ,come me, non ha visto fenomeni di migrazione in diretta, in un immaginario collettivo distorto e spesso inficiato di pregiudizi, puo’ pensare a persone prostrate e distrutte, fisicamente e psicogicamente, da stenti e privazioni; benchè il dolore e lo smarrimento siano effettivamente palpabili, l’aspetto che più colpisce e stupisce da lontano è questa incorruttibile dignità di persone che scappano, ma che credono con tutta la forza del proprio animo ed anche della propria cultura nella possibilità di ricostruire un futuro migliore per se stessi e per chi in Europa puo’ ancora credere che un futuro migliore possa esistere per chiunque, anche per un rifugiato, privo di una identità anagrafica certa.
      Per chi , come noi , è abituato ad esibire un documento di identità in qualsiasi luogo ed in qualsiasi occasione, sembra surreale poter viaggiare o migrare senza la possibilità di poter dimostrare senza ombra di dubbio o di sospetto come ti chiami e da dove vieni.
      Non conosco il diritto internazionale , ma mi piacerebbe sapere come un rifugiato possa dimostrare di essere una persona o un cittadino del mondo, con il sacrosanto diritto alla tutela e alla difesa della propria dignità di uomo.
      Il problema, che in questo momento della storia l’Europa e le Organizzazioni Internazionali dovrebbero cercare di risolvere, è uno dei più spinosi della nostra epoca: mi auguro che anche la comunità europea, con i suoi organismi e sopprattutto con le sue persone, sappia salvaguardare concretamente il valore della DIGNITA’ UMANA.

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