Navigare nel Mediterraneo, per chi non fosse familiare con la cosa, è un eterno transeunte di ipotesi. Non si prende e si va così, perché si decide nel tumulto di un’idea. I piani migliori vengono sempre modificati. Altri esseri, e maggiori, decidono sempre al nostro posto. Noi possiamo solo fallire o far bene quel che ci indicano. Nel Mediterraneo dominano infatti la serendipità, il trovare ciò che non si cerca (Enea), e la delusione, il non trovare ciò che si rincorre (Ulisse). Tra i due estremi c’è lo spazio per ipotesi e sogni, incerti come lo è la mutevolezza del tempo (Giasone).
Non so cosa mi affascini tanto di questo mare. Può essere che sia il suo vuoto, silenzio di grida e spazio gremito di assenze. Oppure la ricca scena delle sue isole equidistanti. Forse è la lentezza del suo tempo immemore. O il suo essere rivelazione della nostra cecità. Quando ti guardi in un angolo del Mediterraneo fai fatica a vederti, perché spesso non ci sei. Non esserci è molto frequente qui. Il tuo corpo è lì, intendo dire, ma questo non basta. In questa epoca, càpita che frequentiamo le cose più intense della vita senza esserci altro che in minima parte, o solo nominalmente.
Il Mediterraneo non può essere nominato, invece, perché il suo nome è come dire “uomo”, contiene tutto e il suo contrario. Soprattutto, Mediterraneo non è una terra, e neppure un mare, semmai una linea di costa, una collana di porti. Un limite, ma di cosa? Il paradosso è anche qui: Mediterraneo immagine di armonia. L’armonia è l’equidistanza dagli estremi? La sicura distanza dal limite? Forse no. Se le cose stanno così, ho capito cosa mi affascina.