Lo rifarei?

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Il mattino è il momento dell’indicativo affermativo. La sera quello del condizionale interrogativo.

Ho detto troppe cose mie, ho fatto troppe cose che spargevano benefici intorno, ho agito troppo spesso per primo, invece di aspettare che altri facessero la loro quota di fatica, ho insegnato troppo e tutto quello che so, come se fosse gratis, ho coinvolto in sogni troppo belli, vissuti come fosse normale esserci, ho consolato troppo, ho sostenuto troppo, sono stato troppo attento alle parole utili in quel momento per quella persona, ho difeso troppo, in loro assenza, senza essere difeso, in mia assenza, ho ricevuto troppe confidenze, come se fosse normale riversamele addosso, ho risposto troppo velocemente a troppi messaggi, come se fossi sempre pronto per chi mi scriveva, ho lavorato troppo perché qualcuno avesse benefici tangibili (un lavoro, del denaro, un insegnamento, un’opportunità), ho dato troppo spazio, per includere, per far partecipare, ho dato troppe attenzioni gratuite, come se vi fosse qualcosa a cui prestare attenzione, ho offerto slanci e entusiasmo troppo intensi, e troppo spesso, ho mantenuto troppo aperte le porte, anche quando dovevano essere chiuse da tempo, ho donato cose di valore, rare, preziose, anche quando capivo che venivano prese per moneta corrente, ho preso parte a troppe cose di altri, come se fossero interessanti, ho detto troppi sì, troppo pochi no, e poi troppi no, troppo pochi sì, a seconda dei casi, quando invece no e sì potevano essere in quota più prossima a quel che mi conveniva, e poi, soprattutto, ho pensato troppo, a troppe persone, troppo intensamente e autenticamente, collegando davvero i miei stati d’animo a qualcosa che non ero io, ma loro, tenendo troppo a poca cosa.

Di solito, quando faccio questo elenco, penso sempre che comunque lo rifarei

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Maschio Enne

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Nuove carte geografiche, per nuovi viaggi

La faccenda del “Maschio Alfa” va messa in discussione, smontata e i suoi pezzi vanno sparsi al miglior vento del nord. Che sia arduo rimetterli insieme.

Secondo la vulgata zoologica, e poi antropologica e psicologica, esisterebbero alcune gradazioni di “essere maschio”, di cui la prima, e preminente, sarebbe quella del Maschio Alfa. E’ colui che guida, che occupa posizioni preminenti rispetto agli altri, che ha più voce in capitolo, che pretende sottomissione e seguito, che non ama il dissenso, che non tollera altri maschi dominanti. Basterebbe il concetto di “dominante” a farmi esprimere ogni dissenso verso questa visione dell’uomo.

Tenderei, con pensieri parole opere e omissioni, ad abolire questa tetragona schematizzazione con una definizione più adeguata, aggiornata e significativa. Quella del “Maschio Enne”, nel senso di “Nuovo”, cioè un maschio che tende all’autenticità della sua natura, sia essa quella dell’immobilità o dell’azione; che ha a cuore, e può lottare se necessario, solo per le proprie migliori emozioni; che si svincola da qualunque pretesa di ruolo; che preferisce la libertà al potere; che considera la comprensione di sé e l’equilibrio tra le sue capacità ed energie come un dovere morale inalienabile; che invoca la propria fragilità e pretende che non venga fraintesa con debolezza; che oggi potrebbe condurci tutti nella terra promessa con una buona intuizione ma domani potrebbe abbandonarla senza dare spiegazioni di sorta; che vuole attorniarsi di persone migliori di sé per goderne e bearsene; che non cerca alcuna responsabilità che non sia quella connaturata alla passione per ciò che fa; che igienizza periodicamente la sua esistenza dai simboli che lo vorrebbero deciso sempre, coerente sempre, asciutto alle lacrime sempre, affidabile sempre, pronto sempre, capace sempre di sostenere e proteggere, e sempre aderente all’idea di uomo maschio che qualche retrogrado pretende da lui; che ammette, accoglie, accarezza, rappresenta, usa le sue paure; che dichiara i suoi desideri sul lavoro, nell’amore, nel sesso, nell’amicizia, nella vita; che cerca e difende la propria terapeutica solitudine; che tende ad affermarsi con le idee e la rispondenza tra esse e l’azione; che quando ha talenti e sogni opera per condividerli pretendendo che chi non ne ha non gli rompa le scatole per nascondere la propria mediocrità; che non accetta nulla di inspiegabile e fideistico per mancanza di spirito critico; che sfugge a ogni omologazione; che ha il coraggio della diversità, anche a prezzo dell’isolamento.

Credo che avremmo molti meno problemi, così, tanto gli uomini quanto le donne. Credo che sarebbe dura fare una guerra, ad esempio, perché il “Maschio Enne”, chiamato al fronte, scoppierebbe a ridere e salperebbe per rendersi irreperibile. Credo specialmente che tanti degli uomini che non vengono classificati Alfa, riuscirebbero finalmente a riconoscersi. E soprattutto, sono certo che riusciremmo finalmente a far sentire ridicoli gli amanti delle definizioni sommarie, giacché un uomo, un maschio, non è affatto quello che pensano loro. Il fatto che noi non abbiamo mai rivendicato nulla, non li assolve dalla loro superficialità.

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Vivere

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“Il mattino ha l’oro in bocca”

Stamattina mi sono svegliato e ho pensato che bisogna muoversi, dare corpo a quel che si è sempre pensato, mettercisi, adoperarsi, dare atto alle cose che si sperano, che si immaginano, per potersi trovare domani, non tra cent’anni, quando sarà tardi, a fare proprio quelle cose, quelle che amiamo, senza cercare scuse, senza trovare nemici, senza soggiacere a limiti che a volte ci sono, a volte sono alibi perfetti per l’inerzia, e che intorno a noi c’è una marea di gente che ha molto meno, che è molto meno, che può molto meno, e se anche non bastasse il fatto di dover tentare la via dell’essenza, la nostra, dell’autenticità, ciò che dunque davvero siamo, e della concretezza, che altrimenti tutto resta aria e basta, dovrebbe bastare il rispetto verso le doti, le opportunità, le circostanze di cui possiamo godere e che altri invocano, anelerebbero di avere, (e spesso hanno, tra l’altro…), e non farlo, non muoversi, non generare, non produrre, per noi e per gli altri che di questo godranno, è un peccato capitale, una forma di spreco grave, che pesa sui nostri cuori continuamente, oppressi tanto dalle cose che vorremmo e non facciamo, quanto dalla consapevolezza che non onoriamo la nostra condizione, fosse anche solo quella della consapevolezza, che è già tantissimo, e allora mi sono seduto al tavolino, caffè, carta, penna, e mi sono messo a progettare, erano le 6.00 circa, sorgevano i primi chiarori rosa del nuovo giorno, un giorno che ho davanti e che non tornerà, e mi sono giurato due o tre cose, altre le ho segnate da fare, altre ancora ho giurato di non rifarle mai più, e ora sono qui, mentre sta per spuntare il sole, con una bella poesia davanti, la poesia della mia storia di uomo, un foglio bianco con vergate su parole cariche di senso, il mio senso, pregne di sale, sapide, e questo mi pare inossidabilmente, indifferibilmente, febbrilmente, serenamente, energeticamente, sensatamente e dolcemente… vivere.

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Ho capito

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“Sono placide le ore che noi perdiamo, se nel perderle, come in un vaso, mettiamo fiori” (J. Saramago)

Poco fa tornavo a casa, dopo aver fatto la spesa. Seguivo il filo di un pensiero cupo, in cui meditavo di reagire a qualcosa, perché lo ritengo ingiusto… Iniziava a piovigginare, e per radio ho iniziato a poco a poco ad ascoltare una storia: l’amore politico, culturale, gravido d’impegno tra Oriana Fallaci e il poeta greco Alexandros Panagulis. “Il suo eroismo era la naturale conseguenza del suo essere poeta”, aveva dichiarato di lui la scrittrice. Che frase ricca di evocazioni, di spunti, di indirizzi! Gradualmente ho smesso di ascoltare, mi sono perduto a pensare a molte cose che ho letto, a storie dei miei libri, e poi ad altre ancora, da scrivere, che chissà se scriverò mai. Il mio pensiero cupo era scomparso. E allora ho capito

Ho capito la ragione principale del mio radicalismo, del cambiamento di vita netto e indifferibile dato alla mia vita: per poter vivere il più possibile nelle storie, nella cultura, nell’arte, cioè nel mondo che ha, lui solo, questo straordinario potere taumaturgico, senza il quale non mi era più possibile restare un essere umano. Ho capito dunque a cosa serve la cultura, a cosa servono i libri, i personaggi che non c’erano e che d’improvviso spuntano su una pagina, parlano di noi, ci appartengono e rappresentano. Servono a svilupparci dal groviglio della realtà minima in cui viviamo, dalle beghe del rancore e del bisogno, dalla nostra mediocrità, e a trasportarci nella parte migliore di noi. Là dove avvengono le cose che, se ci vedessimo da fuori, ci renderebbero donne e uomini orgogliosi della propria vicenda umana, avvinti dalla nostra personale avventura. E lì, su questo pensiero, ho capito anche perché scrivo: per trasportarmi io stesso in quel mondo.

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Voci del Mediterraneo

Voci dal grande viaggio di Mediterranea. Primi diciotto mesi di navigazione. Grande esperienza, grandi visioni, grandi uomini, grandi parole.

Buona visione.

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Quarta

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Motivo ispiratore: il Mu-Ga giapponese. L’empty mind. Un cerchio vuoto che racchiude e focalizza. Sul mio braccio.

Fortezza libertà resiste. A gennaio sono otto anni, di cui almeno sei per smaltire le tossine della vita precedente. Fuori è cambiato tutto subito, dentro no. Ci pensavo stamattina, notando che anche solo andare in auto per me è diventato poco concepibile. Lo faccio per necessità quando devo, ma ormai percorro meno di 600 km l’anno in macchina, e quando osservo che milioni di persone in auto ci vivono ore al giorno, ho una delle misure del mio cambiamento. Se lo traduciamo in soldi lo capiscono anche i soliti money-maniaci, anche se il senso, al solito, è un altro.

Grandi riflessioni sul futuro, anche organizzativo-logistiche, in questo periodo. Mi sento meglio, sto scavallando questi due anni durissimi, crisi finale di rigetto tipo il Cristo nel Getsemani. Cose che, ho notato, interessano poco i miei interlocutori, giustamente presi dai loro anni durissimi. Io però mi sono stancato di dolermi e ora penso a me. Oggi, col dentro che ha fatto il suo corso, posso lavorare al fuori con maggior titolo. Ne deduco che: per quanto ne fossi cosciente e ne facessi un’alta bandiera, ho cambiato il fuori prima del dentro. Errore, prenderne debita nota. Mi accorgo anche che quando ne parlo tutti fanno sì con la testa come a dire “certo, certo, ovvio…”. Altra nota: battaglia persa, fine delle spiegazioni, tanto nessuno capisce. La vita corre ma o lo sai oppure la perdi. Non si può spiegare a nessuno. Score di questi anni, comunque: 8-0 per me. Punteggio ragguardevole. Ognuno calcoli il suo.

Cresce la voglia di fare due cose: costruire (da un lato) e svuotare (dall’altro). Costruire: strade, percorsi, roba che stia in piedi, che duri, anche cose concrete, oggetti grossi, forse enormi. Svuotare: togliere da dentro quel che non serve, focalizzare, circoscrivere, rendere armonico, circolare. Il passaggio dalla mia prima vita alla seconda sortì un tatuaggio dello Spray (la navigazione, spalla dx); il passaggio dalla seconda alla terza, una penna d’oca (la scrittura, spalla sx); quello dalla terza alla quarta un cerchio (foto sopra, avambraccio sx). Se continuo a cambiare vite il mio cadavere somiglierà a quello di un maori, o a una carta nautica, piena di canali, isole, approdi, mede con miraglio. Quanto alle rotte segnate… impossibili da interpretare.

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Chi vince?

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Questo è un uomo che ha vinto. Guardate il suo sguardo…

“Che quel dipendente non avesse avviato una causa di lavoro, poteva anche andar bene. Ma che se ne gironzolasse gioviale per gli uffici e che la maggior parte dei dipendenti lo guardasse con simpatia o il sindacato addirittura lo osannasse, questo proprio non poteva tollerarlo.
Un uomo così non l’aveva mai visto. Che uomo è uno che non si cura del giudizio degli altri, che non teme la precarietà, che non si sente emarginato? Fosse capitato a lui, sarebbe stato sconvolto. Quel Gregorio invece, continuava a salutarlo con cortesia quando lo incontrava nei corridoi, o nel parcheggio. Sorrideva. Cosa c’era da sorridere, senza più la scrivania, senza una mansione definita, senza riconoscimenti? Era in bilico, ma non barcollava. Era appeso a un filo, ma non sembrava preoccupato…”.
 
Leggo le notizie del linciaggio del direttore delle risorse umane dell’AirFrance, e sorrido. Non è tanto la paradossale attualità del mio romanzo, a farmi pensare, quanto piuttosto la tipologia della lotta scelta dalle parti sociali. Chi rischia di più, chi viene più sconfitto, quel direttore con la camicia strappata che vediamo fuggire in televisione o Sebastiano Taramelli, il suo omologo nel romanzo? E chi vince di più, chi prevale, i dipendenti dell’AirFrance o Gregorio?
 
“Si ricordi. Se la lotta è per lo stipendio è una lotta destinata alla sconfitta. Se la lotta è per la felicità allora occorre lottare diversamente“. (brani da: “Un uomo temporaneo“, Frassinelli)
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L’occhio di Istanbul

“Ogni volta che ho fatto una foto, ho cercato di andare in profondità nell’uomo. Io sono un fotografo dell’uomo”.
“Nessuno può sapere quali foto di Capa siano sue effettivamente, né quante siano state fatte dalle sue compagne. La famosa foto del miliziano spagnolo, ad esempio, non è la sua“.
Questa città è magica… ma vive un’epoca di demolizione”.
“Guarda questa foto. Questo è il Mediterraneo“.
“Fare foto è una questione di composizione. E la composizione è nella mente”.

Intervista all’ultimo mito della fotografia ancora vivente. Ara Guler, nell’AraCafé di Istanbul, il suo bar.

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Tra cielo e prua

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Se avessero potuto, avrebbero preso quella nave a qualunque costo…

Quante volte siamo usciti di casa con questo dolciastro Scirocco, per la stessa via, per la stessa meta, favoleggiando futuri possibili che non giungono, viaggi che non facciamo, progetti che non realizziamo? Quel giorno era ieri. Dunque, sebbene in ritardo, è oggi ancor più. Un tempo, per legge, nei Balcani era vietato prendere decisioni nei giorni di Scirocco. Poco lucidi, malmostosi, indolenti col vento umido del sud. Dunque oggi non è un buon giorno per partire, ma per decidere di farlo al primo cambio di vento.

Alla prima rotazione a ovest, dopo l’orrido Libeccio, diminuiranno l’umidità e la temperatura, l’aria si farà più tersa, le nuvole si romperanno a brandelli, salirà la pressione e il cielo verrà trascorso dal Maestrale. Quel giorno, sarà buono per partire, per dare avvio a un’opera tanto immaginata, per cercare quel che manca al progetto che ci accompagna da troppo tempo. Quel giorno è già capitato, ed è andato perduto. Quando si viveva a stretto contatto con la natura, si sapeva bene che quei momenti vanno presi al volo, va rispettato il loro transito terrestre e interiore, e bisogna giungerci pronti.

Immemori, maniacali, reiteranti, transumanti dal vano al nulla, sviliamo spesso le nostre doti, esaltando il peggiore dei difetti: l’inerzia, sorella dell’utopia, madre del lamento, moglie del rimpianto. Che cambio di vento è il prossimo? Il centoventesimo? E quanti ne mancano ancora prima dell’ultimo? Non saperlo genera ansia, quando dovrebbe attivare sensibilità. Curioso essere l’uomo, che ansima per ciò che non può sapere e non si duole per ciò che sa certamente di aver perduto. Occhio al cielo, dunque. Non quello delle foto vacanziere, non quello irreale dei sogni nati morti nell’eterno rivolo strozzato delle chiacchiere inadeguate. Il cielo, proprio quello vero. Ai primi squarci d’azzurro facciamo cadere in acqua le cime, stacchiamo l’ombra da terra, distogliamo lo sguardo dal molo. Ogni cosa che abbia senso, è tra lui e la prua.

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