Quanto basta

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Aghios Nikolaos, notte.

Giorni di verità, di scoperte, di sensibilità. Giorni pieni, profondi, dolci e ruvidi, dove è giusto addentrarsi, anche se non è semplice. Giorni di sorprese, di emozioni mai provate, in cui è possibile affondare provando sconcerto, ma senza sentirci soli. Giorni lontanissimi da slogan e citazioni, dagli occhi chiusi che non vogliono vedere che sé, che non accettano la diversità, a partire dal proprio cuore. Giorni di cambiamento, ancora una volta, e di viaggio, come sempre. Giorni che finiranno tutti nelle mie pagine, anche se sarà difficile distinguerli, perché sembreranno i vostri.

Quando si entra così profondamente nella propria vita, quando si affondano le braccia fino ai gomiti nel miele amaro delle autentiche emozioni, si prova un ronzio, una spossatezza, come se si fosse corso, si fosse faticato. E’ la libertà a spossarci, e a riattivarci. Non va confusa con la stanchezza dei momenti difficili, dello stress. Il calore del circuito in cui passa energia racconta il suo funzionamento. Grazie, sempre, a quel giorno di sole in cui mi sono alzato, sono sceso per le scale, e sono uscito da quell’ufficio.

Il coraggio. La parola chiave del prossimo futuro è il coraggio. Quello delle scelte, di perdere ciò che sono alla volta di ciò che non sono ancora. Quello della prosecuzione del viaggio sotto la mia responsabilità, per poter dire “sono arrivato fin qui”, qualunque sia quel luogo. Appuntamenti pieni, quelli del viaggiatore che non si nasconde nulla sugli ostacoli della via. E grande orgoglio di proseguire dopo l’oltrepassamento. Risposte complesse a domande complesse. Nessuna tentazione di semplificare. E mai troppa paura. Quanto basta

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Chissà

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Olymbos, Karpathos. Poco fa.

Febbraio e marzo a Istanbul. Poi Mar Nero, Bosforo, Marmara, Dardanelli, tutto l’Egeo da agosto ad oggi, da Lymnos al Dodecaneso, solo un breve stop in mezzo. Nel frattempo, tutto. Cose mie, cose personali, ma anche altre, luci che illuminano la scia. Anche un gatto, ad esempio, quel pomeriggio a Kadikoy. Pomeriggio trafelato di polizia e doganieri, corse, attese, mazzette e traghetti. Un gatto grigio e bianco, duro maschio della costa. Mi ha guardato con aria interrogativa, occhi acuti, smorfia di disappunto esistenziale. Mi sono sentito giudicato, e aveva probabilmente ragione. Chissà…. 

Chissà se il nostro amico marinaio è ancora nella sua tana a Messolongi, accenna a cose grosse che possono accadere, o ha deciso di rompere gli indugi e salpare. Chissà se la barista di Kithyra ha terminato il suo fitto dialogo d’amore al telefono. Chissà se a Chanakkale ci sono ancora quei bambini che giocano a pallone sotto al monumento di Piri Reis. Chissà se il pescatore di Rize accoglie ancora i forestieri con una cassetta di acciughe e triglie. Chissà se i poliziotti di Batumi sono ancora in combutta con l’agente navale, come in quel pomeriggio umido e teso. Chissà se il vento tra Lymnos e Chios è calato, insieme alle onde che ci facevano impazzire. Chissà se quella ragazza sfuggita al bombardamento del villaggio vicino a Aleppo è riuscita a raggiungere la Svezia. Chissà come stanno quei poveri ragazzi esausti, giunti a Kos a remi, neppure la forza di rispondere a un saluto. Chissà se il figlio della sorella, ventotto giorni, sopravvissuto già a un naufragio, sta bene. Chissà se a Leros i giramondo italiani a vela cenano ancora insieme e si ricordano di noi, come noi di loro. Chissà come stanno le miriadi di delfini del Mar Nero, che saltavano giocosi ad ogni miglio. Chissà come stanno i due skipper stanchi di Rodi, innamorati della Sardegna, delusi del presente. Chissà se a Nisiros hanno preso un altro pesce spada, ieri il tempo era ideale. Chissà come sta il mendicante che salutavo ogni mattino sotto casa a Tiblisi, e chissà se lungo i viali di Salonicco c’è ancora il bel passeggio di splendide ragazze in fiore. Chissà se all’alba a Goekcheada i militari escono ancora a fare la traina, e se si ricordano di una bella barca con quattro vele a riva che navigava verso lo stretto accolta dal loro saluto. Chissà che fa il direttore del porto di Tsarevo, e come sta la sua giovane e bella fidanzata italiana. Chissà cosa pensano ora del Mediterraneo Vassilikos, o Murat Belge, Omer Livaneli e Petros Markaris, che si complimentarono così tanto con noi. Chissà come sta Babis, nella sua romantica casa di Kavala. Chissà come stanno gli amici di Samsun, e le loro figlie che non volevano sposarsi, ma viaggiare.

Chissà, chissà… se quel gatto ha finito di mangiare il suo piccione. Lo aveva difeso soffiando, mostrando i denti, e se lo meritava. Guardando me preoccupato, che divoravo una pita col kebab, in attesa del traghetto, deve essersi fatto delle domande. Tutto sommato, nessuno stava tentando di portarmela via. Dunque, qual era il problema?

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Prendersi cura (invece che pena)

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Occupiamoci del Mediterraneo, come faremmo con un figlio, con un caro amico, con un padre.

L’illusione di poter vivere tranquilli mentre il mondo affonda nelle guerre e nell’ingiustizia è soltanto una chimera. L’unica protezione è prenderci cura degli altri, fare di tutto per condividere le nostre fortune, agire per la pacificazione, smettere di mandare aerei e uomini, per motivi di predominio, a spodestare tiranni che noi stessi abbiamo sostenuto e legittimato (vedi la Francia con Gheddafi), agire per dialogo e scambio, integrare e accogliere, comprendere i problemi e tentare di risolverli. Smettere, ad esempio, di fare la prossima guerra, per la quale non c’è alcuna giustificazione. Senza una nostra vera e profonda cultura della pace, vivremo sempre in guerra. Pagheremo sempre dei prezzi, brutali, orribili, legittimi, rari, frequenti o inconcepibili che siano.

E piantiamola di citare Oriana Fallaci per queste questioni. Anche a una grande scrittrice, in età ormai avanzata, capita di dire scemenze sotto il peso del ricordo e del cattivo carattere. Smettiamola di far emergere a ogni attentato la rabbia xenofoba che alberga latente in ognuno di noi, frutto dell’inconsistenza culturale e dell’alienazione delle nostre vite, che generano odio e risentimento gratuiti e dannosi. Le bombe russe, americane, inglesi, francesi, forse domani italiane in territori su cui non abbiamo alcun diritto d’azione e operazione, lanceranno sempre schegge su di noi. E ogni volta che qualcuno cade, stupirsene non ha che il senso del paradosso.

Accanto a questo, che è la nostra parte di lavoro, ci occuperemo dei folli e dell’assurdità degli altri, ma avendo fatto la nostra parte. Prima.

Intanto, mentre facciamo questo, ricordiamoci anche che la mia generazione è la prima senza guerre, violenze, carestie sul proprio suolo da almeno un milione e mezzo di anni. Il mondo non è quello che qualche buontempone pensa. Non aver visto mai il mare non implica che il mare non ci sia. Tra quello che non vediamo e quello che c’è, passa la nostra capacità di capire. Il nostro dovere di tentare.

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Dire

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Parole, porte attraversabili dai fatti. Ma, comunque, porte.

Perché non dire le cose? Come anche perché dirle… Che accade a dire? Che accade a non dire lo sappiamo già. E quali cose? Quelle, quelle lì….

Le parole sono conseguenza delle cose, così si dice, ed è vero. Eppure anche le cose sono conseguenza delle parole. Quelle dette implicano fatti a suffragio, quelle non dette non impongono azioni particolari, almeno se si è disposti a mentire a se stessi. Forse il punto è proprio questo: dire significa anche ascoltarsi mentre si dice. Il che rende più difficile mentirsi. Finché non dico qualcosa posso fare finta che non ci sia, anche se quella cosa che dovrei dire c’è, solo che agisce dentro. “E’ un periodo che mi sento un po’ giù”. Beh, è il minimo che possa accadere.

Dire per assumere responsabilità, dunque. Dire quelle cose lì, a sé per primi, alzando la fronte mentre le si pronuncia, come fosse una promessa. Dire all’altro, poi, per comunicare a un testimone ciò che ci stiamo promettendo. E anche per trovare un compagno di equipaggio, dando per assunto che ascolti e sottoscriva. Dire, dunque, anche per selezionare. Ed ecco (presumo) perché non diciamo: per paura che chi ci ascolta risponda. A volte, negativamente. Meglio un no esplicito, tuttavia, che un sì mai pronunciato. Attenzione: il silenzio a ciò che non diciamo non vale affatto un assenso.

Dichiarare, pronunciare, chiedere, affermare, intimare, proclamare, descrivere, progettare, esporsi, assentire, dissentire, raccontare, illustrare, promettere, ribadire, specificare, dettagliare, rispondere, perché non ci siano troppi dubbi, perché sia possibile dirci “anch’io!”, perché il tentativo almeno dell’intenzione, gemella della volontà, non abbia a generare rimpianto, fratello bastardo e cattivo del rimorso. Che non sarà un fior di ragazzo, ma almeno ci ha provato.

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Almeno bello

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Ieri, salpando da Tilos. Direi bello, sì…

Vento a Rodi. Sprofondati in fondo al porto, ci dedichiamo ai lavori alla barca, sempre un lungo elenco, tutto da soli, senza sprecare mai denaro chiedendo ad altri, almeno fino a che possiamo.

La vita raminga per il Mediterraneo ci sta dando tanto. Lo sentiamo quando siamo fermi, quando abbiamo tempo per girare nei vicoli, esplorare gli angoli del nostro mondo, sederci in un bar di fronte al mare a scrivere, e quando riusciamo a ripensare alle baie, alle rotte, agli incontri. Con molti nuovi amici incontrati nelle isole, navigatori che vivono a bordo come noi gran parte del loro tempo, ci scriviamo email affettuose, ci raccontiamo la gioia di quella sera, nella baia di Leros, o di quell’altra guardando una partita in una bettola del porto di…

A ognuno che da terra ci chiede, spieghiamo che non è facile, non sempre almeno, vivere a lungo in mare. Lontani da cose che ci riguardano, anch’esse, a volte moltissimo, sempre secondi al vento, secondi al mare, secondi alla luce del sole, secondi al sopravvento, secondi alle notti incerte. Quando qualcuno ci raggiunge, tuttavia, riparte commosso. Sarà forse per la dignità del tentativo, l’impegno quotidiano, la meraviglia che sempre ci accompagna. Le cose difficili, che ti fanno sudare, a volte preoccupare, a volte temere, che sempre ti costano impegno, devono almeno essere belle. Altrimenti verrebbe da chiedersi: perché? Saltare questo passaggio non è proprio degli spiriti liberi, che si cibano dell’autenticità. E dà il via all’insensatezza.

 

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Idea di sé

Ormos Megalo, Tilos. Una barca a vela. L’estate a novembre. Ma soprattutto il silenzio e la solitudine, cioè gli occhi di ogni anima viva. Il mare, dunque la quinta dello spettacolo migliore della migliore esistenza. Mezzi nudi, brezza e sale sulla pelle. Un’idea della vita migliore. Un’idea del pensiero. Un’idea di sé.

La mancanza di un’idea di sé implica la difficoltà di dove recarsi, e di come farlo, per poter somigliare a quella ipotesi. Ma anche si fosse aiutati dal caso, e per ventura si arrivasse nella condizione ideale, si farebbe fatica, comunque, a identificarsi con essa. Senza sapere non ci si può riconoscere. E prima non si sapeva come arrivare nel luogo adeguato.

Poco fa guardavo questo silenzio, osservavo il vuoto, così pieno, e ho ricordato la mia confusione di molti anni fa. E’ un bene che si sia dipanata. E qui mi riconosco. Diverso da allora. Non essere diversi, anni dopo, è una pessima notizia.

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Massimo

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Ho un librino in cui segno i luoghi che sono, per me, il centro del mondo. Ecco, questo l’ho segnato.

Sai quando dici: “ho combattuto tutta la notte per arrivare fin qui” (Cit. “I Guerrieri della Notte”). Ecco: oggi entrando nel porto di Nisiros, costa settentrionale dell’isola. Dodecaneso. Mi capita talvolta, di esserci dove dovevo, dopo tutto quello che è costato. Non spesso quanto meriterebbe lo sforzo per la pugna, ma abbastanza rispetto a quanto potrebbe generare il rischio della sconfitta. Questo posto, dopo tante miglia, dopo tanta vita, dopo il Mar Nero che non dovevo, dopo l’Egeo a risalire, dopo i tragici giorni di Porto Kajo, dopo tutto, dopo quella sera che tirava forte… è il posto dove stare, dove entrare, a torso nudo, il 4 novembre, cioè adesso.

Adesso anche rispetto a questi ultimi giorni. Giorni di dubbi, di paura, di sconcerto, di disincanto, di delusione, di illusione, di speranza, di fede, dio la fede quanto la odio, ma quanto serve in certi casi…, di lotta interiore. Poi che fai, ti fai un lungo bagno il 4 novembre, tra le sogliole e i cannolicchi, nel turchese, accanto a una cava di pomice, poi navighi, e atterri qui. Un posto più bello di così, meno bello di così, ma giusto così… Ne avevo bisogno. Si diventa esigenti quando si tenta per il massimo. Tentate per il massimo, voi che state leggendo? Per il massimo, è il massimo eh… niente sconti. E se non lo fate, domanda: perché no?

Ieri, appunto, non ancora qui dove tutto pare a posto, tutto giusto, tutto possibile, pensavo proprio a questo: il massimo. Concetto controverso. Cattiva stampa per il massimo. Ti dicono: “Eh, figurati, il massimo… qui anche il minimo è difficile…”. Poi uno pensa: “Va bene. Ma difficile per il massimo è meglio che difficile per il minimo”. E non fa una piega. Almeno dal punto di vista dell’ethos.

Sarà un caso. Però oggi entro in questo porticciolo sepolto, e sorrido. Il discorso di ieri non vale niente. Non vale più. Avevo ragione io.

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Sono stati bravi…

Li vediamo arrivare per caso, gettando un’occhiata sul mare immobile di questa splendida giornata a Kos, Grecia orientale. Li vediamo come si scorge per pura fatalità un tronco a pelo d’acqua. Come fossero un oggetto. Invece sono esseri umani. Remano lentamente, non ce la fanno più. Hanno un motorino elettrico che deve averli abbandonati da molte ore. Uno di loro mi sorride. Gli dico “Welcome!” lui mi ringrazia con la mano sul cuore. Gli faccio segno che l’entrata del porto è dalla parte opposta, sul lato nord. Restano incerti, faticano a dirigere la prua, caracollano in mare.

Prendiamo una cima, per gettargliela dal molo e trainarli, poi arriva un gommone del porto. Sono in salvo. Li guardo arrivare a terra. Forse hanno controllato la meteorologia, hanno calcolato le correnti, il vento. A bordo sono il giusto numero per un piccolo gommone. Hanno navigato bene, sono stati bravi! Faccio il tifo per loro, come se fossi io a sbarcare. Ce l’hanno fatta. Un misto di gioia, lacrime e commozione. Ce l’hanno fatta, per Dio, almeno loro ce l’hanno fatta

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