Cin(quanta…)

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Cinquanta nodi

Cinquanta. Forse erano di più, forse sembrano di meno. Cinquantamila baci e cinquanta milioni di parole. Cinquanta amici. Cinquanta cose dette che non dovevo dire. Cinquanta cose fatte che non dovevo fare. Cinquanta silenzi, quarantanove volte sacrosanti. Zero virgola zero cinquanta compromessi (e assai di più che sai). Zero virgola cinquanta miglia fuori rotta. Cinquantamila schiaffi e carezze. Cinquanta battiti al minuto. Cinquanta emozioni al giorno. Cinquantaquattromila tra albe, tramonti e notti, diciottomila giorni in cinquant’anni per cinquantamila ricordi. Duemilanovecentoventi giorni da uomo-che-tenta-di-essere-libero. Cinquantamila miglia navigate, chissà quante, ancora, da percorrere. Cinquanta tentativi, da sempre, di chiedermi e non sapere che rispondermi. Cinquanta ipotesi, ogni giorno. Quattro vite, per cinquanta cambiamenti. Cinquanta volte togliti d’intorno.

Cinquanta. Forse di più, forse di meno. Quasi cinquanta (per dieci milioni) di respiri, di cui cinquanta milioni, almeno, fatti d’emozione. Cinquanta milioni di pensieri, forse cinquanta buoni, gli altri utili comunque. Cinquanta volte, per la cosa che sai, tornerei indietro… Cinquant’anni dietro le spalle, chissà quanti di fronte. Cinquanta tentativi, almeno, per dirti quella frase. Cinquanta volte in cui non ci sono riuscito. Cinquanta (per chissà quante volte mille) speranze, molte vane, nessuna che non valesse la pena. Cinquanta progetti realizzati, più uno che scintilla, cinquantamila invidie, cinquantamila pernacchie, cinquanta romanzi da scrivere. Cinquanta e cinquanta e ancora cinquanta baci al giorno da ricevere. Cinquanta volte grazie. Cinquanta volte “peccato…”. Cinquanta volte fìdati. Cinquanta volte scusami.

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Chi eri prima?

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Ricordati sempre di chi ha ispirato il tuo cammino. Di quella parola, detta quel giorno, da quella persona, di quel regalo, un gesto, che ti ha aiutato, di quel mondo, sempre sognato, a cui hai avuto accesso.

Ricordati chi eri senza quel gesto e quella parola, chi eri prima. (Chi eri prima. Ciò che non eri)

Non fare mai, nel tempo che va, l’errore di dimenticare ciò che ti è stato prezioso IN QUEL MOMENTO, e che qualcuno ha regalato a te senza contropartita, che non fosse la generosità di spendersi.

Saggio sarai, se aspiri autenticamente a questo, quando smetterai di mescolare le paure, le sofferenze, con le gioie di un tempo, e saprai discernere nel fascio, ricordare, ogni cosa con il peso dovuto.

Mostrati ogni giorno le tante cose avute, e ringrazia con cuore sereno chi te ne ha fatto dono, senza permettere allo sconcerto di confondere le carte, inquinare i giudizi, rovinare la memoria. Ogni sofferenza caricatela addosso senza colpa, eppure senza assolverti. Chiediti perché, eppure anche non chiedertelo col tono dell’inquisitore. Ogni regalo, ciò che ha contribuito a emanciparti da dove ti trovavi, attribuiscilo a chi te lo ha offerto, quel giorno ascoltandoti, quel giorno aprendoti la sua casa, quel giorno offrendoti l’occasione di essere e fare a modo tuo ciò che tuo ancora non era, ed oggi è.

Non chiederti ciò che lui o lei ci guadagnavano, questo è IL LORO bilancio. Il tuo è la conta delle parti di te che senza di loro forse ancora non avresti conosciuto, forse non frequenteresti. Forse non avresti assaporato mai.

Quando saprai distinguere tutti i doni, che oggi compongono la tua ricchezza, dai torti che ti sei inferto per come eri, per come eri, per come eri! allora inizia a pretendere. Senza avere avere altri che te da cui farlo.

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Non si sono trovati

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Per anni, essere stati sulle nuvole. Di altri.

In questo momento nell’anno accadono generalmente delle cose, si fanno incontri Ad esempio con persone che emergono da tempi sconfinati, perduti nella memoria, simboli di una vita che non è più la mia da decine di anni. Volti e parole (sempre le stesse…) che pure sono vissute in quel tempo, sono state fiato, vibrazione, tentativi di significato.

Le guardo, queste persone, penso a cose care mentre parlano, poi colgo una parola, m’impegno perfino a rispondere. Mi guardano come un oggetto sconosciuto. Fanno fatica a farmi domande, hanno paura (di che?), forse non vogliono ascoltare quello che potrei rispondere. Allora lo faccio. Lascio trapelare qualcosa dei miei mondi: il silenzio del fienile, le baie all’alba, il parnaso favoloso della mia fantasia, la mia libertà, i cambiamenti a venire. Vedo che i loro occhi si perdono, vacui, lasciano ciò che vedono per sfiorare ciò che non vedranno mai. Rimuginano le domande che dovrei far loro, che non faccio tuttavia, forse s’indispettiscono per le persone di cui dovrei mostrare curiosità, e di cui invece non ho mai voluto più sapere nulla. Essermi mosso, l’essere salpato per orizzonti instabili, lontanissimi, perdendomi, non ha cancellato solo il me che ero, come se alla partenza di qualcuno che ci riguarda terminassimo anche noi di esistere, almeno per ciò che eravamo in sua presenza. e se non ci fosse altro?

Vanno via, alla fine. Tornano dove stavano, da dove non si sono mai mossi. In me non hanno trovato il passato in cui mi facevano risiedere. Non si sono trovati.

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Come (e dove…) non avremmo pensato mai

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Qui, ad esempio, credevo di aver avuto molto coraggio

Sono giorni che mi dibatto tra un’idea confortevole della vita e una che mi mette a dura prova. Mi rendo conto in modo lucidissimo di tutto ciò che mi dispone a mio agio, mi asseconda, mi sostiene. Allo stesso tempo ho piena visuale su ciò che mi sfida, mi chiama al confronto con i miei limiti, rompe i miei equilibri. Mi accorgo di quanto acutamente e pedissequamente, per tutta la vita, cerchiamo la via più confortevole, assicurandoci una serenità che l’altra via, capace di recare conoscenza ed esperienza, ci impedirebbe.

Tendiamo a trovarci sempre, volontariamente, nelle circostanze che non ci sfidano, che non ci sradicano da dove siamo già, che non ci portano alla nostra altra realtà di sconfitti o vincitori consapevoli. Siamo naturalmente portati a ripetere la frase che conosciamo bene, detta nel momento in cui sappiamo che fa effetto, capace di generare il sorriso su cui facciamo affidamento. Mentre altrove, dove quel tempo è sbagliato, quel sorriso è assente, quella frase è inefficace, risiede “l’altra parte”, di noi, della vita, della realtà.

Il viaggio, in sostanza, lo evitiamo perché l’orizzonte dove ci porterebbe è inaffidabile, richiede coraggio, non c’è riparo, e l’esito della nostra azione è incerto. Eppure in quel luogo ci attendono emozioni nuove, scoperte importanti e la vista su un panorama ignoto. Ecco dove la vita di tutti noi fa differenza: nel coraggio di tentare la nostra diversità, ciò che non ci appartiene, che ferinamente scansiamo, per confrontarci con mondi altri, trovarci soli, senza scudo, senza somigliarci, laddove non avremmo pensato mai.

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Senza neppure l’isola

Complici i fatti della vita, e grazie a questo posto incantato, sperimento ogni cosa dentro di me, nel silenzio e nella solitudine. Non si tratta della passeggiata che puoi immaginare quando avresti bisogno di stare da solo, o del pomeriggio a casa quando vorresti riposare e fuggire dalle incombenze. Piuttosto di una condizione sospesa, indefinita, che pende dalle labbra del tempo, della luce, del vento.

E’ sorprendente come il mondo resti per lo più vivibile, a tratti perfino meraviglioso, senza che nessuno faccia esperienza di questo. Vista da qui, pare impossibile pensare alla vita, o che si riesca anche solo a rimanere degli esseri umani, senza la pratica della solitudine come ingrediente quotidiano, alimento almeno periodico. Addirittura, la gran parte di noi potrebbe fare fatica a ricordare un giorno soltanto della sua intera esistenza passato nel silenzio, in effettiva, completa solitudine. I più, assuefatti al consesso umano, mi pare che fuggano l’isolamento, cioè la condizione interiore insulare, che prevede necessariamente un’isola e molto mare circostante, privo di bastimenti in arrivo.

E tuttavia questa sospensione non è una condizione ma un percorso. Senza mai neppure un giorno d’inizio, tanto meno si riesce a comprendere ciò che significa questo stato il suo secondo giorno, o il quinto, o il ventesimo, che sono tutt’altro, come scrivere trenta volte una lettera su un foglio, da bambini, non somiglia in nulla al nostro primo racconto, la nostra prima adulta lettera d’amore.

Chi non è mai stato in mare, da solo, di notte, su una barca a vela con mare formato e vento sostenuto, lontano dalla terraferma e dai ripari, non può dire cosa sia la paura. Così come nulla può dire sensatamente della sua vita, non dico della vita in generale, chi non abbia trascorso almeno una settimana in solitudine effettiva, in un luogo dove sperimentare se stesso come uomo-su-un’isola, poi come fosse l’isola stessa senza neppure quell’uomo, poi solo il mare senza neppure l’isola.

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Bisogno di risonanze

(Grazie a una domanda di Fulvio [a cui ho risposto nei commenti di uno o due post indietro] sul perché di certi miei articoli scritti in modo lirico, ecco qualcosa per tutti sulla mia visione della comunicazione in questo sito. Grazie Fulvio)

Ciò che a me preme, qui, è raccontare una storia, la nostra di uomini e donne in cambiamento, delle nostre vite sensibili. Storia articolata, cangiante, meticcia, controversa, spezzata, a volte inafferrabile. Dunque un sentiero che cambia di continuo, e impone la frequente sostituzione del tipo di auto per percorrerlo. I miei romanzi sono diversi uno dall’altro, per la stessa ragione. Mi chiedo come facciano molti miei colleghi a scrivere sempre lo stesso.

La lingua, il ritmo, lo stile, le parole, la sintassi, la prosodia, la retorica, e tutti i numerosi altri strumenti della scrittura narrativa, descrittiva, poetica, che studio e affino da una vita, sono gli attrezzi della grande avventura della scrittura, e vanno usati a ragion veduta, con cognizione di senso. Ma senza mai piegarli a nulla che non sia la precisione, lo scavo, la capacità di incidere, andare giù profondi.

Se a volte la mia scrittura si liricizza, se dunque a volte il legame tra quelle immagini non lo faccio io con la sintassi e l’organizzazione del discorso ma deve farlo il lettore con l’immaginazione e la musica che sa rintracciare tra le mie parole, ma dentro di sé, lo si deve al terreno su cui mi spingo. Io non faccio nulla per rendere facile qualcosa, ma faccio di tutto per renderlo possibile. Il che implica necessariamente la relazione, la partecipazione di chi legge. Se quello che scrivo non risuona dentro di lui/lei, la comunicazione è fallita. Dal canto mio sacrificherò sempre l’attenzione di molti alla comprensione di uno. Il che è l’opposto delle regole “social“. Avrete notato che chi qui cercava solo “Adesso basta“, ce lo siamo perso per strada. Non era interessato alla sua vita, tantomeno alla nostra. Voleva la pillola, ma qui non si spaccia Viagra.

La descrizione (soggetto, predicato, complemento) non è dunque sempre il miglior media possibile. Descrivere l’indescrivibile non si fa con le descrizioni. So bene cosa dovrei fare per evitare imbarazzi e aumentare i “follower”: video di trenta secondi; brani di trecento caratteri; foto e cartelli da poter condividere, e molte altre cosette. Cioè, parafrasando la nota battuta di un grande film: “scrivere quello che l’italiano medio può leggere e comprendere nel tempo di una cacata media” (Lawrence Kasdan).

La forma contemporanea più grave e dannosa della comunicazione è questo tragico surf, questo galleggiamento perenne da un video a un altro, da una citazione di qualche santone a un articolo di giornale non confermato. Tramite questi frammenti di un discorso evanescente e mai compiuto, le persone si drogano, si anestetizzano. Se mai v’è stato uno strumento di potere morbido, perfino piacevole con cui si fa di tutto per governare menti e coscienze, vendere prodotti e politica, cloroformizzare il pensiero unico depotenziando l’azione, beh quello è internet

Io questo, come si sarà compreso, voglio evitarlo. A me interessa scavare nella comprensione per cercare e comunicare ciò che vedo laggiù. Che poi, senza tanti giri di parole, è quello che unica sa fare l’arte, da sempre.

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Il buon Devis

Davis Bonanni, Il buon selvaggio, Marsilio

Bravo Devis

Vi consiglio un libro: “Il buon selvaggio”, di Devis Bonanni. Ve lo consiglio prima di tutto perché l’autore è un montanaro, della Carnia, ragazzo carino e simpatico, con cui dopo una presentazione insieme a Trieste e una bella serata con alcuni amici e lettori mi sono preso una sbronza degna di memoria. Ricordo che verso l’una di notte, già parecchio alticci, iniziammo a bere grappa e io pensai “ora il montanaro ci mette tutti a dormire”. Dopo un’oretta, quando stavo tutto sommato ancora in piedi, lo vidi socchiudere gli occhi e crollare a corpo morto all’indietro, dove grazie al cielo c’era un letto. Il marinaio non è facile sdraiarlo con l’alcol, ma soprattutto Davis ha molte lune meno di me sulle spalle, e per bere, in certe notti, serve avere esperienza. 

Ma a parte i ricordi personali, vi consiglio il nuovo libro di Devis perché trovo assai cresciuto il suo autore. Dalla timida eppure interessante testimonianza di Pecoranera (sempre per Marsilio) in cui riferiva come avesse abbandonato l’attività di tecnico informatico per mettersi a fare l’agricoltore, registro una sua crescita marcata, il permanere di una fondamentale autenticità e sincerità, la metamorfosi della sua esperienza in coscienza pedagogica. La sera della sbronza mi parve incerto circa l’intento politico della mia testimonianza, e vedo che si è ricreduto. Ottimo segno.

Il libro inizia a pag. 79, cioè dopo un lungo e fin anche piacevole excursus di ordine antropologico botanico. Da lì in avanti le cose crescono, la testimonianza si fa puntuale, i racconti sui suoi compromessi vengono almeno accennati (forse qui sarebbe dovuto essere più dettagliato), e sopratutto usa l’acronimo PIL solo a pag 270, che è già un ottimo segno.

Dopo molti anni ormai, Devis, come me, non ha mollato. Semmai ha accentuato e vivacizzato la sua esperienza di alternativo, il più possibile controcorrente, fabbro del proprio sistema di vita, essere senziente che cerca di capire e agire in concordanza perfetta. Hanno mollato invece i suoi detrattori, come anche i miei. Non hanno avuto costanza sufficiente nel pretendere coerenze, ortodossie e non contraddizioni che loro non avrebbero saputo assicurare per se stessi. Li ha sconfitti l’evidenza: sono passati anni, noi siamo ancora qui, e loro che hanno fatto?

Non condivido molte delle cose che scrive Devis, naturalmente. Il mito rousseauviano del buon selvaggio non mi ha mai convinto, certo come sono che l’uomo sia un essere assai più complesso di quel che lui stesso crede, così come del fatto che la naturalità sia solo una componente della nostra anima universale. Inoltre, sono un marinaio, dunque un nomade, e se amo la terra, amo l’orto, amo la natura, gli alberi, il bosco, non posso abbracciare la filosofia agricola se non come ingrediente periodico della mia natura metamorfica. Tuttavia rispetto chi lo fa. Particolarmente rispetto chi, come Davis, lo fa con indipendenza intellettuale, idee proprie, autenticità, ed è consapevole della portata rivoluzionaria della propria azione. Bravo Bonanni, alla via così.

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Ricomincio a scrivere

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Da qui

Tornare a casa, lupo solitario che rivà nella tana, in viaggio sempre, qui come per le rotte mediterranee, a braccetto con i mostri e gli angeli, inevitabilmente, mai al riparo dalle emozioni, mai dietro il separè dell’irrealtà. Ritrovare il Fienile dell’Anima, il luogo dove si deve essere, stare, per poi riandare, unico luogo a cui tornare. Ogni uomo deve avere una bitta a cui dar volta con la cima del senso. Per non naufragare.

Metà del romanzo, ed oltre, da costruire. E ora c’è una data, che cambia tutto. La seconda metà, quella più difficile. Nella prima i personaggi ti rincorrono, faticano a starti dietro. Nella seconda tu corri dietro a loro, scompostamente, difficilmente, trappole narrative che si moltiplicano, rischio di perdersi. I personaggi che hai creato, che pure sono appesi al filo della tua penna, vivono di vita propria, scelgono inopinatamente, differentemente. Cattivi che si rivelano migliori, buoni che si rivelano orribili. Amore che genera disamore, vita che genera morte. Sogni. Che romanzo scrive un autore? Quello che i suoi personaggi decidono. i suoi infiniti sé a confronto. Difficile spiegare. Dare vita impone il rispetto della vita data. Anche perché non c’è alternativa.

Come i monaci. Ogni mattina alle 6.00. Ogni giorno fino a sole alto, quando si perde tutto, quando la spossatezza intorpidisce la visione. Pieno di errori, perché l’alba è il tempo dell’immaginazione e dell’imperfezione. E poi ogni pomeriggio, quando non sapresti creare neppure un’immagine, ma sai correggere, smontare, rimontare. Lo scrittore immagina al mattino, aggiusta nel pomeriggio. Architetto e artigiano. Poi passeggia nei boschi, costruisce oggetti, ripara. E la sera, di fronte al fuoco, nella solitudine assoluta, nel silenzio inviolato, patisce, accarezza la stanchezza a volte affranta, a volte esaltata, del procreatore. Scrivere è fare l’amore, tantrica e saltuaria eiaculazione d’inchiostro.

In mare a lungo, mesi, per anni. Nella cristallizzata perfezione di questo luogo che ho costruito, a lungo anche qui. Molteplicità che non deve negarsi, non deve nascondersi: eccolo il privilegio di cui essere orgogliosi. Qui nascono le immagini, i pensieri. Qui nascono i personaggi. Qui si traccia il filo sottile delle storie. A seguirlo, non si va verso l’autore, tuttavia. Ci si immerge nell’abisso del proprio mondo negato.

Ho ricominciato a scrivere.

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