(S)nodi

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I peperoni hanno certamente qualcosa che mi riguarda. Ogni volta che li preparo (e li mangio) cerco di capire cosa.

Spellare i peperoni rossi arrostiti seduti sul divano guardando il Giro (la salita, l’impresa di Nibali, le lacrime all’arrivo) con porte e finestre aperte sull’estate, il verde della natura che sfila dovunque, senza impegni, senza pendenze, soli ma sereni, con una bella gioia nel cuore, nell’imminenza di una partenza, di venerdì, ore 15.00… è bellissimo. E pensi: se non fossi qui (terminale di molti passaggi, scelte, porte, bivi) dove sarei?

Ci pensate mai? Dove saremmo se non fossimo qui? Nel bene e nel male, evidentemente, senza alcuna tesi. E andando indietro, com’è affascinante (e a volte terribile) individuare gli snodi! I momenti in cui abbiamo scelto (se abbiamo scelto noi!), o in cui siamo stati costretti (mmm, siamo mai davvero costretti? Del tutto?) a prendere una delle decisioni, o LA decisione che ci ha portati qui, adesso, così. Eravamo coscienti delle conseguenze di quelle decisioni? Già è tanto scoprire che le abbiamo prese, vista l’inerzia generale dilagante, e che siamo stati davvero noi ad assumerle. Quel bivio, l’hai fatto davvero tu per decisione tua consapevole? Sapevi dove andare, almeno a spanne? Sei sicura/o? Ti stai ricordando davvero bene, onestamente? Pensaci…

Quando capitano momenti come poco fa occorre anche che chi, osservandoci, ci ha criticati, non ci ha capiti, o biasimati, o a volte perfino maledetti, termini il suo lungo unico assoluto pensiero di sé su di noi e provi, una volta tanto, a formulare un pensiero di noi su di noi. Cioè prenda atto che non saremmo così, adesso, se non avessimo fatto quel percorso, prendendo quelle decisioni. Conta (anche) il risultato. Forse avevamo delle ragioni, avevamo dei bisogni? Forse stavamo cercando qualcosa che ci faceva questo effetto? Forse… Ma qualcosa certo accadeva. Speriamo di essercelo chiesto, almeno noi, prima di agire. Speriamo che chi ci biasima se lo chieda, pensando a noi e non a sé, una volta tanto. Le/gli farebbe bene.

Ma al di là di questo, oggi, siamo o no dove dovevamo trovarci, dov’era sensato essere? E se no, perché? Tutta sfortuna, sempre? Mmmm… E dove potevamo fare qualcos’altro? E soprattutto, immaginando un momento così spostato in avanti, in un futuro in cui guarderemo indietro, cioè guarderemo ad oggi, cosa dovremmo fare?

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Entra…

 

Frammento

Una mappa. Per arrivare lì…

Dragut è lì, di fronte al portale del castello, entra Dragut, entra, prima volta che trema, chi può far tremare il rais? una donna, no non è quella donna che lo fa tremare, e allora cosa? il portale, il niente di legno di un ingresso che una mazza farebbe esplodere di schegge, una soglia, un altro passaggio, la linea che demarca i mondi, anche se Dragut i mondi non li conosce, sa solo il suo, ma oltre c’è qualcosa, è come scomparire, contumace, assente, mai stato, fuori dalla bolgia orrenda dell’odio della memoria e della morte, finalmente un altrove senza l’urlo della follia del mondo e la cassa di risonanza del cuore, l’anta del portale che scricchiola, l’uscio che cede, un passo verso l’ignoto, e l’esperienza del giorno è che ci vuole più coraggio a varcare una soglia che ad uccidere, a incontrare il proprio destino che ad avere un nemico, a fronteggiare una donna che un esercito, donna che non puoi rapire, donna che non puoi offendere, donna che non puoi stuprare, incatenare, dare in pasto ai cani, perché morderebbero te, metteresti te stesso ai ferri, donna che devi, non donna che deve, l’ultimo scorcio sacro dell’adolescenza perduta, l’altro raggio di luce, che offusca il faro ormai perduto della madre, a questo pensa Dragut, solo che non sa pensarci, non sa capire, almeno fino a che sale la scala condotto da un’ancella impaurita, percorre in solitudine l’ultimo budello tra le mura, fa ingresso nella grande stanza, e finalmente la vede.

(mentre monto il mio nuovo romanzo…)

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Tutto uguale

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Qualche sera fa ho rivisto “Una donna in carriera”, (1988) cult movie di Mike Nichols. Ricordo benissimo tutto, film e anni. Ambizione, simboli, quei picchi di incontenibile soddisfazione per un aumento, una promozione, l’ufficio due metri più grande, la kenzia, la segretaria. Giovani, eravamo stati allevati con la droga del capitalismo consumista già nel biberon. Continue crisi d’astinenza da sedare in quel modo. Pensando a quei trent’anni trascorsi, e sentendomi ad anni luce da quella cultura, ho sorriso. 

Almeno fino a che non è capitata una coincidenza: in una scena, Sigourney Weaver spiega a Melanie Griffith che “se vuoi essere trattata in un certo modo, devi vestirti in un certo modo”, icastica headline estetica di quegli anni. Subito dopo, pausa del film e stacco pubblicitario: in primo piano appare una Mazda rossa dal design aggressivo e un giovane vestito in modo qualunque che allunga la mano e la tocca sul cofano. Come per una corrente elettrica o un’onda magnetica, immediatamente il ragazzo si trasforma negli abiti, diventando elegante e trendy, perfino il suo portamento se ne compiace. Incredibile. Passati trent’anni, il riferimento culturale dell’essere a posto, riusciti, di successo, è rimasto lo stesso: esteriore e formale.

Appena dieci anni prima di quel film l’estetica e la filosofia di vita erano molto diverse. Come mai, salvo che per una minoranza (forse…) la cultura sociale e individuale si è fermata a quegli stilemi? Come mai una cultura nuova non si è imposta, come sempre accade, rendendo obsoleta la precedente? Un po’ come per i pantaloni da donna a vita bassa (cui invano la moda tenta di sostituire la vita alta, da quasi dieci anni, senza che le donne abbocchino), consumismo, competizione, arrivismo e capitalismo sembrano aver cristallizzato ogni possibilità di cambiamento. Non dovremmo, di generazione in generazione, sorridere delle precedenti? Nietzsche, dove sei!?

Il giorno dopo, ore 10.30, sento al telefono il mio amico F. (54 anni), a cui sottopongo il quesito. Mi risponde così: “Ma se io poco fa mi sono svegliato con la voglia di sentire “After the gold rush” di Neil Young, e mi sono pure seduto sul divano leggendomi i testi dell’LP, come facevamo da ragazzi… ma cosa vuoi che cambi!?”. Strana generazione, la nostra. Ci penso su…

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Due (Tre)

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Una con tutti noi non ce l’ho. Dunque metto questa, che così ci rappresenta tutti. I Mediterranei e gli amici che vogliono salire a bordo una volta almeno per condividere la rotta.

Due. Che poi, se si considera l’anno prima, sono tre. Due-tre, che è meglio ancora, incerti sull’arrivo, come saremo tra tre anni (o quattro?), incerti sulla durata della rotta (in totale cinque o sei anni?), poiché incerti sulla partenza. Fatto sta che tre anni fa Mediterranea perlustrava il golfo di Corinto e di Patrasso, risaliva per tutti i Balcani fino all’Istria e poi scendeva l’Adriatico fino a San Benedetto del Tronto, faceva nuove amicizie, rischiava di affondare, salvata da angeli amici che mai dimenticheremo, e poi salpava, due anni fa, proprio oggi, il 17 maggio. Ed eccoci qui, dopo Adriatico, Ionio, Egeo, Mar Nero da est a ovest, Egeo ancora. Barca a Samos, adesso, e una bella rotta in prua. Noi sparsi dovunque, oltre che a bordo, come sempre, ma con un occhio sempre in mare.

Niente sponsor o aiutini, anzi, un mucchio di inciampi per la via, grandi e piccoli, non fa differenza, perché poi li superi e te ne dimentichi. Ma lo sapevamo, e chi non lo sapeva lo ha imparato. Non si va per mari alti senza avarie, senza defezioni, ma non si resta in porto per paura di affrontarle. L’ostacolo che ti frena nasce il giorno che non riesci a superarlo, non prima, e fino a quel momento su di randa, su di mezzana, fuori genoa e trinchetta. Si va.

Quasi cento intellettuali intervistati, decine e decine di prelievi di plancton, settimane a studiare microplastiche e a insegnare e imparare l’astrofisica. E poi ancora test di validazione di sistemi di forecast meteorologico, test di prodotti biologici per la pulizia, qualche aiuto tecnico di amici dell’ambiente e delle rinnovabili, l’Ansa come grande partner media, decine di servizi tv e sui giornali, e via discorrendo. Soprattutto un test: un esperimento sociale. Noi. Un gruppo di quarantacinque persone, persone qualunque ma non gente comune, nessun campione della vela, nessun nome da rotocalco, nessun magnate. E tanti tanti uomini e donne che ci sono venuti a trovare, centinaia di lettori, osservatori, o gente che ha solo letto il sito, si è fatta affascinare e ci ha raggiunti. Con noi, con loro, Mediterranea ha navigato per seimila miglia, tre volte la traversata atlantica (rotta ARC) con rigore, con rispetto, con ordine. Ha preso botte, ma non si è spezzata. Ha preso pioggia, ma è rimasta asciutta dentro. E’ entrata in cento porti, ed è stata sempre accolta.

Il Mediterraneo, casa di Mediterranea. Casa nostra. Che ora conosciamo meglio. Una dimora splendida, un peccato che nessuno, o quasi, possa descriverla. E ora si prosegue: ancora isole, poi Rodi, Turchia, Cipro, Libano e Israele. Nessuno ferma una buona idea e gente motivata che la ama. Nessuno ferma il tempo buono, speso bene, che ha costruito migliaia di momenti indimenticabili, sempre grati a chi ha iniziato, che ci sia ancora o che sia andato a fare altro. Ma ancor più orgogliosi, e tanto, di chi va avanti, oltre gli ostacoli sempre, dando valore alle idee e ai progetti che li riguardano davvero, e per cui nutrono autentica, personale passione. Quelli (mi piace pensare) che quando l’universo intero vibra, suona per loro. Noi

www.progettomediterranea.com

Dal minuto 42′, su Linea Blu, Rai1, il giorno della partenza.

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Prima di quella mattina

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La figlia di Dio nel film “Dio esiste e vive a Bruxelles”

Dio non esiste, come è noto (altrimenti in un milione e mezzo di anni ne avremmo avuto prova), ma se esistesse vivrebbe a Bruxelles. E sarebbe proprio come in questo bel film, che ho visto ieri, buon ultimo. Un pazzo, che si diverte a far piovere nei weekend e  a far cadere la fetta di pane burro e marmellata sempre dal lato sbagliato. Un sadico alcolizzato di birra, annoiato e ignorante, solo soddisfatto di scatenare guerre, mescolare le carte sempre a favore del banco. E sic stantibus rebus, ovviamente, il protagonista del film non è lui.

La battuta chiave della pellicola la pronuncia l’ex manager, che appena saputo che gli restano dodici anni di vita butta la valigetta e si mette a osservare il mondo per la prima volta: “Come mai questo uccello che può volare dovunque resta sempre in questo parco?” e la risposta della figlia di Dio, che comprende il linguaggio animale: “Stava per chiederti la stessa cosa”. Se questa domanda ve la fate anche voi, buon pianto e insonnia stanotte.

I protagonisti li troviamo tutti sfasati: cercano l’amore, ma si accontentano del sesso virtuale e a pagamento; hanno una sensibilità, ma vivono una vita arida e assurda; sono belli, ma si negano la bellezza; hanno desideri, ma vivono senza passione; cercano di uccidere, quando vorrebbero vivere; vogliono cambiare, ma non osano. Bravo il regista a non cercare situazioni limite, bensì esattamente come le nostre.

La domanda allo spettatore scaturisce spontanea: vorresti conoscere la data della tua morte? Vorresti dunque sapere quanto ti resta? Gran dibattito, naturalmente. Io pagherei qualunque cifra per saperlo, ma il punto non è questo. Dopo essersi visti in questa pellicola, dopo essersi risposti Sì o No a questa domanda, e dopo essere tornati alla nostra realtà in cui non sappiamo se moriremo domattina, tra cento mattine o tra trent’anni… Che facciamo? Adesso. Cioè prima di quella mattina.

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Vòltati

Kalymnos

Kalymnos, dopo venti ore

Ieri per venti ore ho sentito ffffhhh. Era la prua di Mediterranea che entrava nell’onda. Ricordo una telefonata, tanti anni fa: “Puoi portare una barca da Rodi ad Atene?” Dovetti rispondere di no. Guardai la scrivania, la finestra su via Moscova, il telefono emise un rumore simile: ffffhhh. Misi giù la cornetta per non sentire la prua del mio “no”. Ho ripensato a quella telefonata un’altra volta, uscendo dal porto di Madeira, rotta sulle Bermude, poi verso il Maine per non prendere di petto la corrente del Golfo, poi a sud ovest lungo il Massachusset, fino a New York. Era una cosa buona aver risposto “” alla telefonata seguente, anni dopo, e trovarmi lì. In quel momento a mezzo miglio dalla prua saltò un capodoglio. Sorrisi.

Ieri per venti ore, da Creta a Kalymnos, ho pensato qualcosa in più. Bene. Non è mai sano pensare le stesse cose al correre del tempo. E’ come quando salpi ma la barca non va: una cima, evidentemente, la trattiene. Puoi issare vela o dare gas, ma devi constatare che non ti sei ancora mosso da lì.

Il pensiero è stato che navigare a lungo non basta. Una constatazione che avevo già fatto, dopo quasi venti giorni di oceano, poco prima che la nebbia si alzasse dal golfo di Manhattan e io vedessi il Ponte di Verrazzano. Le emozioni non hanno a che fare con la quantità di tempo, né con la quantità di miglia, o di denaro, o di metri. Le emozioni non sono una faccenda che ha a che fare con la lunghezza. Anche se ammetto che il tempo serve, spesso, per l’evaporazione minima alveolare di cui la sensibilità ha bisogno per esprimersi. Insomma un po’ di tempo serve, ma il punto non è quanto. Bensì come.

Ieri per venti ore ho navigato da Creta a Kalymons, venti ore di Mediterraneo, contro venti giorni di Oceano. Il parallelo non è sensato, ma l’ho fatto. Tema notturno: la qualità. Molte considerazioni note, molte altre nuove. In piena notte ricordo di aver dovuto poggiare con decisione di fronte a un’isola nera. Una rotazione del maestrale, venti gradi, che impedivano il passaggio a ovest. Quell’isola disabitata, un po’ sinistra, nera, mitologica, austera, mi ha fatto pensare all’Atlantico, e a molte altre cose. Laggiù neppure un’isola a impedire la rotta, semmai isole a bordo, inevitabili. Niente da guardare, sfilandola, dopo aver manovrato.

Dov’è l’isola che devi aggirare? Dov’è l’ostacolo sulla rotta che il giro del vento ti spinge a superare diversamente da come avevi pianificato? Un ostacolo a bordo non lo puoi superare, in mare sì. La prova è che devi poterti voltare, guardare l’isola che si allontana, capire che non è più una minaccia, poi di nuovo guardare a prua, verso la tua meta. E’ in quel momento che puoi sorridere

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