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A partire da oggi
per due settimane potete aiutarci a scegliere la copertina di RAIS, il mio nuovo
romanzo, da ottobre in libreria.

Votate, basta andare su questo link di facebook e mettere un “mi piace” sulla copertina che preferite. Se poi volete condividerlo, aumentiamo la base dei votanti.

Se volete, prima, guardate il video sul romanzo e anche il video  su questo sondaggio.

Ciao, grazie. Simone

 

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Non vi innamorate mai…

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Esiste, lo so, la spiaggia della compassione e del dialogo. Dove nessuno cerca un nemico, un cattivo che ci faccia sembrare buoni. La più volgare, semplice, dannosa, involuta delle soluzioni…

Il tempo rivela tutto. Animi, pensieri, comportamenti. Il che facilita terribilmente le cose. Quello che accade mostra quel che c’è da sapere. Solo un consiglio, ma non per me o per lui, per voi, e per il futuro: non vi innamorate mai di una versione dei fatti. Potete essere certi che non è andata così.

In quell’altra parte della storia, quella che avete eliminato, dimenticato, nascosto, che non volete ricordare, che non avete ancora rivelato, quella che non ammettete per salvarvi il culo dalla colpa, c’è un pezzo di come sono andate le cose, e di voi che così le avete condotte. Un brano essenziale della storia. C’eravate voi lì, non solo gli altri, non dimenticatevelo. Voi con i silenzi, con le parole non dette, il contributo non dato. Voi con la vostra quiescente distrazione, con le cose che avete fatto finta di non vedere, che vi faceva comodo non notare, quelle che sapevate ma avete fatto finta di non sapere, quelle che non avete voluto ascoltare, i gesti che avete compiuto accanto ai vostri atti mancati. E’ lì che risiede la vostra, nostra responsabilità su come sono andate le cose. Vale per l’altro, vale per voi. E’ lì dove ci siamo salvati o ci siamo condannati. Ogni volta che vi convincete di poter essere assolti al di là di ogni ragionevole dubbio, a ogni passo della storiella che coi vostri bislacchi avvocati avete architettato ad arte per essere solo la vittima innocente e per fare dell’altro il carnefice, vi state procurando un danno. Siete profondamente responsabili di ogni atto che avete avallato, accettato, reso possibile, generato protetti dal sipario insincero di averlo solo subito. Ogni cosa che ci accade, accade col nostro contributo. Ogni fatto della vostra vita lo avete prodotto, ne siete stati autori, coautori o complici consensuali.

Non perdetevi la grande occasione di vedervi in quei momenti, di capire la vostra diversità da oggi, o la vostra immutabile identità. Le cose (ripetetevelo, fatevi del bene) non sono andate così come le avete imparate a memoria. Sono andate diversamente, dunque non c’è alcuna possibilità di condanna dell’altro e di vostra assoluzione. Come sarebbe utile, oltre che bello e salvifico, per voi!, per tutti, riuscire a comprendere, potersi raccontare e ascoltare con la comprensione che l’altro complice, palo e ideatore come voi della medesima rapina, così simile a voi nelle sue mediocrità e nella sua gloria, meriterebbe. La stessa comprensione che meritate voi.

Non interessatevi di ciò che avete fatto per bene, perché lì non c’è nulla di utile. Anche l’altro ha fatto cose per bene, voi ne avete goduto, e in ciò anche lui non può trovare alcuna consolazione. Una buona storia per assolvervi oggi è una sentenza di ripetizione dell’errore domani. Domani è il giorno in cui occorrerà essere diversi, per vivere le nostre vite possibili invece dell’unica che reiteriamo da sempre, ma è oggi che la costruiamo. Dove abbiamo accusato, guardiamoci. Dove avete perdonato, analizzate con obiettività i fatti, alla ricerca di ciò che effettivamente non vi riguarda. Dove tutti si sono manifestati solo comprensivi e partigiani, dove siete stati solo consolati, dove avete assistito alle accuse di chi ne sapeva ancor meno di voi e non poteva giudicare neanche volendo, dove per onestà e amicizia avrebbero dovuto dirvi le cose scomode che voi non volevate ascoltare, non c’è stata qualità, nessuna umanità. Se nessuno al mondo vi ostacola, se nessuno al mondo vi critica, chiedetevi dove avete sbagliato. Ma se qualcuno lo fa, almeno di nascosto, pensateci.

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Il primo degli altri

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Se sai dov’è quest’isola, puoi stabilire se è un’alba o un tramonto. Se non sai dove sei, neppure che ora è puoi sapere. E infatti…

L’inesorabile insolenza della realtà, quella che tu puoi dire quello che vuoi, fare finta quanto vuoi, ma agisce, opera, spinge, e ti fa venire la gastrite se non l’assecondi, oppure ti fa bene al cuore se la incarni, ma ha sempre ragione lei.

L’inossidabile pertinacia di ciò che sei, anche se non lo sai, soprattutto in quel caso, e tu puoi anche travestirti, camuffarti, darti un tono come ti pare, indossare la cravatta della metamorfosi, tentare di sembrare altro, ma si vede.

L’indisponente cecità di chi ti sta accanto, che a un certo punto si stupisce, sgrana gli occhi, ma aveva avuto mille occasioni per vederti per quello che sei, anche e soprattutto se tu stesso non ti sapevi vedere così, perché da fuori è decisamente più semplice e i ciechi sono doppiamente colpevoli, per non aver visto, per non essere intervenuti quando si poteva ancora.

L’inevitabile gesto di mollare la cima, ripetuto cento e mille volte, e ogni volta pur tuttavia salvifico rituale della partenza, che paga sempre, come paga sempre il ritorno.

L’ineffabile, indescrivibile sensazione di quando ti muovi nel tuo, la vibrazione che ti scuote, il sentimento senza nome dei tuoi cent’anni di mancata solitudine, la voglia che avresti di urlare ciò per cui non trovi le parole.

Il miracolo sempre inatteso della condivisione, araba fenice, “che ci sia ognun lo dice, dove sia niun lo sa”, ma che quando capita stupisce, sconvolge, ispira.

La barzelletta consunta e bisunta della menzogna, che non si dice mai a un altro, semmai si ripete, perché è già stata detta, nel silenzio del pensiero incatenato e schiavizzato degli istanti prima di dormire.

Il dramma eterno della clessidra, che sgrana sabbia come fosse tempo, spizza tempo come fosse niente, svuota senso come fosse senso.

L’impietosa evidenza della prassi, che ti sta mostrando tutto dai risultati, da ciò che accade, e più chiaro di così non si può, ma tu continui a pensare che la colpa è di altri, che t’ha rovinato la guerra, che nessuno ti capisce, che non hai i soldi, che ti emarginano tutti, che i sogni li vivono solo gli altri, che hai dato ma sei stato sfruttato, mentre tu applichi il pedissequo, perfetto, professionale metodo di restare sempre quello che non devi essere, perché la parassi decennale ti dimostra che non funziona, e infatti tutto va com’è sempre andato.

L’acutezza del lavoro di autodistruzione, quel quotidiano indurire il mattone per poi sbatterci col grugno, l’opera continua di danneggiamento cui attendiamo con una cura maniacale, convinti invece di tentare l’equilibrio, ma proprio in testa non ci entra, perché l’uomo se non s’impegna e non studia e non vive tende naturalmente all’infelicità e alla morte. Solo che se lo dici tutti fanno “ohhhh…!

L’esilarante e truffaldina ignoranza di chi parla di soluzioni, metodi, scuole, vie valide per tutti, perché si fa così! Che ridicoli imbonitori del nulla. “Venghino siori venghino, l’ultimo ritrovato della farmacopea esistenziale”! Che sagome

La spettacolare presbiopia della solitudine, la malattia degli illusi, che scambiano compagnia con droga, comunicazione con rumore, gossip con confidenza, intimità con i cazzi degli altri, e il primo degli altri sei tu.

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Tanto, ma lì.

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Ieri l’altro. Alimia. Egeo sudorientale. Io in posti così divento una ventina di uomini che sentono ognuno come cento…

Devo dire qualcosa sul rumore, sul volume a cui parliamo tutti. Devo dire un mucchio di cose sulla questione del razzismo e della violenza di questi giorni. Devo dire molte cose sull’affollamento estivo del mare. Devo dire molte cose sul concetto di “vacanza”, cioè tecnicamente un’“assenza” (semmai dovrebbe essere una forma di “presenza“!). Devo dire molte cose sul vento apparente, risultato vettoriale tra vento reale e vento di velocità, e sul fatto che il marinaio naviga con l’apparente, dunque non è uomo che si occupi della realtà, ma della sua proiezione diversa per intensità e direzione (avete idea, per metafora, quante ne ho da dire su questo applicato alla vita!?). Devo dire molte cose ancora sui roditori che per fare le proprie cose sfruttano le relazioni degli altri senza vergogna o rispetto di sé. Devo dire un mucchio di cose sui pirati. Devo parlare del caldo, della sua taumaturgica facoltà mitopoietica. Devo dire una cosa che non posso dire, un progetto artistico che andrò a realizzare a breve, che trovo eccitante. Devo dire una gran quantità di cose su Mediterranea, su alcune cose dette a bordo che mi hanno fatto capire che non basta una barca e un po’ di marinai per vivere la magia in mare, serve anche un concetto, un’idea, un sistema di valori che diano senso al tempo: una spedizione con idee originali, non rubacchiate, proprie, non altrui, e una rotta, non dei giretti. Devo dire alcune cose sulla selettività delle relazioni, e sulle illusioni. Devo dire qualcosa sul cambiamento, sui momenti in cui diventa inevitabile, quando ci si accorge che è troppo tempo che ci giriamo intorno, forza! Devo dire due o tre cosette sul cibo. Devo raccontare di pirati, carte segrete, storie andate e ancora vive. Ho cose da dire sulle isole. E molto da riferire sul tempo. Inevitabile che io abbia anche cose da dire sull’amore.

Ma sto scrivendo. Questo groviglio di pensieri, emozioni, sentimenti, lo infilo lì.

Poi, riprendo.

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Sul filo

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Kos

Quando sono entrato qui, nel porto antico di Kos, l’altro ieri, ho avuto la mia vibrazione, un lieve formicolio tra orecchie, collo, nuca. Da quando faccio il comandante sulle barche è la mia stella polare. La mattina mi sveglio, e se ho quel formicolio sta per capitare qualcosa. E’ quasi sempre riferito alla meteorologia, ma non solo. Un mese e mezzo fa sono salpato da Kalymnos e ho detto all’equipaggio: “ragazzi stiamo all’occhio che ho il formicolio”. Detto fatto, fuori dal porto la barca non sale di giri. Una rete nell’elica. Bagno, coltello e via. Formicolio sparito. L’altro ieri entrando stessa scena. Pensavo fosse perché qui tutti si danno catena addosso ormeggiando. Invece oggi faccio per salpare e ho un’avaria all’impianto elettrico. Motore non parte, mentre sale vento e rischio un po’ nell’ancoraggio. Metto in sicurezza la barca e faccio check generale. Individuo il problema. Stasera alle 19.00 dovrei risolverlo. Intanto il formicolio si attenua, va a scomparire. Sono certo che l’ultima vibrazione si dileguerà a lavoro finito.

Ora attendiamo i pezzi di ricambio. Dunque giornata senza occupazioni. Farò piccoli lavoretti, scriverò, leggerò, altro. Il tempo ritrovato, come lo chiamava un francese amante del tè e dei salotti, cioè tempo che non avrei avuto qui e che invece appare per incanto. Come quando attendiamo qualcuno che non arriva. Non è tempo perso, ma liberato, ritrovato, apparso. Le cose per mare cambiano, senza preavviso. Come nella vita. Tutto si evolve, muta, e va sempre come deve andare. Ogni cosa che possiamo e dobbiamo e soprattutto vogliamo consolidare, far evolvere con sogni, passione, progetti, coinvolgendoci, compromettendoci, coinvolgendo, si sviluppa in quel senso. Il resto si spegne, si distanzia, si liquefà. Salvo i colpi di mano della sorte, che può sconvolgere tutto inopinatamente, costringendoci ad ampi fuori rotta o a constatare di aver perduto l’attimo.

Il tempo. Ci rifletto ora, in questo bar sulla marina. Ne parlavo anche ieri con F., passeggiando. Sperperarlo e iperutilizzarlo sono i due estremi, mentre sul filo sottile tra utilizzo e spreco il tempo rivela la sua natura possibile. Prima che tutto cambi, che sia tardi per ogni cosa, occorre usarlo, masticarlo, gustarlo, inghiottirlo. Eppure, non dobbiamo farci prendere dall’ansia di fare, progettare, lavorare, foss’anche ai nostri sogni. Cosa deve prevalere, relax o azione, attesa o marcia, progetto o libertà dai vincoli dell’immaginazione? Noi che siamo qui, dobbiamo restarci o andare? E quando saremo lì, dovremo sostare o muoverci? Cos’è “presto”, il fratello o il nemico di “tardi”? Domande. Sul filo.

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Napoli. La sconfitta dello Stato, anche quando vince.

Ricevo questa accorata lettera da un amico che vive nel napoletano. E’ un documento di prima mano di questa epoca. Non dice cose nuove, ma dice cose tragicamente vere. Provo a fare la mia parte dandole visibilità. Nella speranza che contribuisca a smuovere la sensibilità del mondo politico, di quello culturale e delle persone, l’anello più debole e al tempo stesso fondamentale di ogni catena sociale.

“Ciao Simone come stai.

Sai che sono molto legato a Napoli e al territorio circostante, la mia terra, e quindi attento a quello che accade. Da un po’ di anni le forze di polizia e la magistratura hanno fatto un lavoro straordinario sgominando organizzazioni criminali che da anni, come un cancro, si erano inserite in tutti i settori nevralgici della società. In particolare quelli economici. Si tratta di organizzazioni pericolosissime che, forti della loro antica presenza, sul territorio si sono confuse con le parti sane della città. Controllano, o controllavano, tutte le attività economiche principali, in parte la vita politica, di sicuro condizionavano la vita quotidiana dei cittadini. Non solo in senso negativo ma anche, al fine di assicurarsi il consenso della popolazione o quantomeno la non ostilità, anche in senso, passami il termine, positivo. Nella mia città, che fa parte dell’hinterland napoletano, non si spacciava droga, non si rubavano auto, i negozianti non subivano estorsioni, non era tollerata la delinquenza comune. Una sorta di parastato al quale ci si rivolgeva per risolvere questioni anche di natura non squisitamente criminale ma che trovavano soluzione molto più rapida ed efficace di quella ortodossa.

È chiaro che per più di venti anni le forze dell’ordine e la magistratura hanno ignorato questo fenomeno consentendo l’espansione di questa organizzazione nella misura che ti ho velocemente descritto. Da due anni, grazie al lavoro imponente, oserei dire, delle forze dell’ordine e dei magistrati che da un po’ si occupano del territorio (come vedi è sempre questione di uomini!) queste organizzazioni sono state letteralmente smantellate. Capi e gregari tutti in carcere a scontare pene severissime. La conseguenza è che il territorio è diventato terra di conquista dei nuovi clan. Questi, formati sempre di più da criminali giovanissimi, al fine di affermare la loro presenza sul territorio stanno mettendo a “ferro e fuoco” il territorio. Furti, rapine sono all’ordine del giorno. Non di rado ci sono regolamenti di conti per strada in pieno giorno con ami da fuoco.

E che accade intorno?

Tra la gente sempre più spesso si sentono pronunciare frasi tipo “meglio quando c’erano quelli”… “Stavamo tranquilli”… “Si lavorava “…. Quando la gente esasperata è portata a rimpiangere organizzazioni come quelle che ti ho descritto penso siamo al fallimento plateale dello Stato sotto tutti i punti di vista. Lo Stato, dopo la repressione, doveva infatti avviare il lavoro sicuramente più difficile della normalizzazione dei territori e quindi della prevenzione, per ristabilire l’ordine, le condizioni di lavoro, le regole. Forse questo lavoro non procura gli stessi titoli sui giornali degli arresti eccellenti, e forse anche per questo non ci se ne è occupati a dovere. Occorre che la politica si riappropri della sua funzione fondamentale, quella nobile e necessaria della coltivazione delle idee, della progettualità per il benessere e della capacità e il diritto di avere dei sogni, tentando poi di realizzarli con il contributo individuale.

Scusa lo sfogo, ma al contempo, se puoi, prova a sensibilizzare un po’ la gente su questi temi. Io temo di non avere grandi strumenti per provare a smuovere un po’ le coscienze della gente che sembra si eccitino e si animino solo quando vedono il sangue.

Ovviamente non ti voglio passare la palla o lavarmene le mani dando a te il peso di fare qualcosa. la responsabilità di quello che accade su un territorio spetta sempre principalmente e soprattutto agli individui che ci abitano. Ma conforta, credimi, sapere che ci sono persone come te sicuramente sensibili all’argomento con i quali scambiare qualche parola, qualche idea, senza sembrare marziani“.

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