Se sai dov’è quest’isola, puoi stabilire se è un’alba o un tramonto. Se non sai dove sei, neppure che ora è puoi sapere. E infatti…
L’inesorabile insolenza della realtà, quella che tu puoi dire quello che vuoi, fare finta quanto vuoi, ma agisce, opera, spinge, e ti fa venire la gastrite se non l’assecondi, oppure ti fa bene al cuore se la incarni, ma ha sempre ragione lei.
L’inossidabile pertinacia di ciò che sei, anche se non lo sai, soprattutto in quel caso, e tu puoi anche travestirti, camuffarti, darti un tono come ti pare, indossare la cravatta della metamorfosi, tentare di sembrare altro, ma si vede.
L’indisponente cecità di chi ti sta accanto, che a un certo punto si stupisce, sgrana gli occhi, ma aveva avuto mille occasioni per vederti per quello che sei, anche e soprattutto se tu stesso non ti sapevi vedere così, perché da fuori è decisamente più semplice e i ciechi sono doppiamente colpevoli, per non aver visto, per non essere intervenuti quando si poteva ancora.
L’inevitabile gesto di mollare la cima, ripetuto cento e mille volte, e ogni volta pur tuttavia salvifico rituale della partenza, che paga sempre, come paga sempre il ritorno.
L’ineffabile, indescrivibile sensazione di quando ti muovi nel tuo, la vibrazione che ti scuote, il sentimento senza nome dei tuoi cent’anni di mancata solitudine, la voglia che avresti di urlare ciò per cui non trovi le parole.
Il miracolo sempre inatteso della condivisione, araba fenice, “che ci sia ognun lo dice, dove sia niun lo sa”, ma che quando capita stupisce, sconvolge, ispira.
La barzelletta consunta e bisunta della menzogna, che non si dice mai a un altro, semmai si ripete, perché è già stata detta, nel silenzio del pensiero incatenato e schiavizzato degli istanti prima di dormire.
Il dramma eterno della clessidra, che sgrana sabbia come fosse tempo, spizza tempo come fosse niente, svuota senso come fosse senso.
L’impietosa evidenza della prassi, che ti sta mostrando tutto dai risultati, da ciò che accade, e più chiaro di così non si può, ma tu continui a pensare che la colpa è di altri, che t’ha rovinato la guerra, che nessuno ti capisce, che non hai i soldi, che ti emarginano tutti, che i sogni li vivono solo gli altri, che hai dato ma sei stato sfruttato, mentre tu applichi il pedissequo, perfetto, professionale metodo di restare sempre quello che non devi essere, perché la parassi decennale ti dimostra che non funziona, e infatti tutto va com’è sempre andato.
L’acutezza del lavoro di autodistruzione, quel quotidiano indurire il mattone per poi sbatterci col grugno, l’opera continua di danneggiamento cui attendiamo con una cura maniacale, convinti invece di tentare l’equilibrio, ma proprio in testa non ci entra, perché l’uomo se non s’impegna e non studia e non vive tende naturalmente all’infelicità e alla morte. Solo che se lo dici tutti fanno “ohhhh…!“
L’esilarante e truffaldina ignoranza di chi parla di soluzioni, metodi, scuole, vie valide per tutti, perché si fa così! Che ridicoli imbonitori del nulla. “Venghino siori venghino, l’ultimo ritrovato della farmacopea esistenziale”! Che sagome…
La spettacolare presbiopia della solitudine, la malattia degli illusi, che scambiano compagnia con droga, comunicazione con rumore, gossip con confidenza, intimità con i cazzi degli altri, e il primo degli altri sei tu.