Arcipelaghi

Storie di ordinaria miseria. Gente che si spaccia per altro su questi maledetti luoghi d’impostura (e di splendida comunicazione) che sono i social network. Uomini (soprattutto) che fingono ciò che non hanno, portatori di ciò che non sono, dunque aspirano a un incontro inautentico, certi di non esserci per qualcosa di vero. Non è giusto, tuttavia, dire che queste nuove modalità di relazione ci stiano cambiando. Rivelano solo ciò che siamo da sempre. Una bomba non rende un uomo violento: gli consente solo di uccidere più uomini, con la stessa cattiveria di quando brandiva solamente un coltello.

Sto scrivendo di isole, in questo periodo, per il nuovo libro. Un “Atlante” che pare ovvio per me, quasi obbligato. Eppure l’onda di emozioni rotola con la schiuma-parola, travolge fino alle lacrime. Isole del Mediterraneo, luoghi della prigionia, della solitudine, della nostalgia, della pazzia, dell’omicidio, della resurrezione, luoghi limite del sogno, dell’amore e del silenzio, il materiale di cui sono fatte le voci. Isole e social network sembrano avere assai più elementi in comune di quanto non potrebbe sembrare. Un mare di bottiglie che contengono una richiesta d’aiuto. O di antri in cui sono sepolti tesori. Prevarrà l’urlo o l’omertà? Il nascondiglio o il ritrovamento? Chissà…

Ascolto qualcosa di armonico, stamattina, per risollevarmi dalla miseria e fare prua sul rapimento emotivo. Cos’è un coro, se non un arcipelago? Un gruppo di terre che, per un istante, rinunciano a rimanere soltanto isole

 

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Sul palato

In via del Campo

Genova è come Palermo con la sciatica. Un po’ come Napoli è Genova con l’otite. Un po’ come Palermo è Napoli di domenica, o Genova quando si distrae. E tu, marinaio temporaneamente a terra, coi tuoi pensieri in tasca, sei come tutte e tre le gemelle in un cuore solo. E poi, l’inverno… le lame d’aria gelida che vengono giù dall’entroterra. T’immagini avere il freddo dentro, con questo vento fuori? Non restava che salpare…

Il mar dei pirati, il Tirreno, è grigio e scuro, oggi. Pensoso. Lo guardo vicino alla Lanterna. Provo ad aprire gli occhi, chiudendoli, e a vedere le galere uscire dal porto, salpare per meridione e levante. Cosa avrà pensato Andrea Doria quando partiva? Avrà guardato indietro, il suo palazzo, avrà pensato al gatto tigrato, di nome Dragut, anche solo per abitudine? Mi volto verso di me… anche se non sto andando.

Le città di mare servono a sopravvivere. Sono la patria di cui hai sempre bisogno. La casa, il porto, se e quando soffia uno spiffero gelido sui nostri cuori. E loro danzano, cantano, generose come nessun’altra città, pronte a prenderti la cima. Sostegno melanconico, a volte, come quel giorno a Marsiglia, o come a Istanbul, due inverni fa. Finché i nostri ricordi sono qui, ad ogni modo, siamo al sicuro. Il fatto, poi, è che masticare amaro, o sognare, è sempre meglio farlo col sapore di una testa di gambero ancora sul palato. Poi, dopo, ci mancherebbe…

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One-night

“le petit pomme de mur jeune”

Viaggiare, ogni giorno una città, parlando del tuo romanzo, convivendo ancora, e ancora, con i tuoi personaggi, è struggente, bellissimo, tragico, inutile, essenziale. Non c’è relazione tra sforzo, impegno, fatica, tempo, utilità, piacere. Un frammento della famosa “Love Song of J. Alfred Prufrock” rende in modo chirurgico uno dei volti di tutto ciò:

Let us go then, you and I, / When the evening is spread out against the sky / Like a patient etherized upon a table; / Let us go, through certain half-deserted streets, / The muttering retreats Of restless nights in one-night cheap hotels / And sawdust restaurants with oyster-shells: Streets that follow like a tedious argument / Of insidious intent To lead you to an overwhelming question… / Oh, do not ask, “What is it?” / Let us go and make our visit.”

Ieri da Roma fin qui. Oggi ancora via, e ancora altra gente da incontrare. Parlare di un romanzo, facendo migliaia di chilometri, spostando atomi di anima nell’era dei miliardi bite guizzanti. E guardare un vicolo, al mattino, non sapendo nulla di ciò che a tutti pare un’ovvietà. Fingersi per un istante, breve quanto basta per non sprofondare nel gorgo, lungo quanto basta per esserci. L’identità, chi la sente molteplice, la può trovare solo dovunque. Svegliarsi senza sapere immediatamente dove sei, dovendo ri-cordare, fa orrore e sprofonda nella meraviglia.

È una fortuna non avere paura di sé, nonostante l’enormità. Essersi combattuti così tanto da amare il sé-nemico. E hai davanti un altro viaggio e una città per cantare.
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Claustrodinamici

la barca, appunto…

Rientrato in Italia. Cipro, poi un’isola greca, a manutenere una barca (non una qualsiasi) e a immaginare una vita (qui non saprei se straordinaria o qualsiasi… certamente, la mia.). In entrambi i casi, nel mio Mediterraneo, che vissuto d’inverno è sempre struggentemente affascinante (come faccio a spiegare cos’è vivere nel Mediterraneo non in vacanza, non quando è peggiore…?). Anche per ragionare tra stare e muovermi. Mi sono sempre mosso molto in vita mia, per piacere, per lavoro, per tutto. Per entrare bene dentro occorre stare, fermarsi, generare immobilità e permanenza. Ma anche il contrario. Non ho mai compreso gli ipercinetici, come non ho mai compreso gli iperstatici. Chi nasce vive e muore nello stesso posto lo guardo come un animale esotico, di cui non comprendo il senso. Ma faccio lo stesso con chi non fa che ronzare, muoversi, e mi verrebbe da dire: fuggire.

Dove sia il punto d’eccesso, dove una cosa buona diventi estremo, non l’ho ancora capito. “Fingersi” un altro spostandosi altrove è affascinante. Consente di ricominciare. “Far finta” di non vedere gli altrove è claustrofobico, avvilente, eppure c’è una vena di spiritualità nell’immobilità, almeno se si è in grado di non essere “soltanto lì”, dunque anche altrove, pur senza muovere un passo. Ho a lungo ragionato su questo aspetto quando ricostruivo la vita del Rais. E l’ho risolta come sa chi ha letto il romanzo.

Ricordo di essermi spesso mosso compulsivamente, in passato. Mi pagavano anche per essere altrove di frequente, spostando inutilmente gli atomi del mio corpo, ma senza che l’anima seguisse il ciclo. Ora non avviene più. Per qualche insondabile evoluzione i bite dell’anima e gli atomi del corpo si muovono insieme. Forse è per questo che oggi mi chiedo qualcosa sul movimento e la stasi. Disarticolarsi tra mente e cuore non è esattamene muoversi. Smembrare l’anima dal fisico non coincide con “ricominciare“, semmai sembra “sospendere“. Interessante quesito, anche perché a febbraio mi muoverò parecchio. Ho già messo il mio cuore nello zaino. Non vorrei dimenticarmene. Mi servirà

(già che ci siamo, se volete, votate RAIS come libro del mese di Fahrenheit inviando un’email (entro le 16 di domani 7 febbraio) col titolo “Rais” a fahre@rai.it)

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