Non per niente

il pontile. Lampedusa.

Poco fa, mezzo nudo, ero a poppa. Parlavo al telefono. Equipaggio sparso su quest’isola africana, luminosa, bellissima. Facevo due conti a mente: 12 settimane a bordo, vita di mare, viaggiatori sulla superficie del profondo. Le palme dei miei piedi hanno assunto quella bella e sana e solida resistenza, che amo tanto. Le mani sono segnate dai lavori, usate bene. Oggi, anche se non sto bene con lo stomaco, andavo oltre: vedevo tutto il benessere di questo tempo flottante e armonioso.

Grandi mesi fin qui. Navigato bene, con cura, equipaggi in equilibrio tra forme collettive e aliene, e flussi individuali e collegati, sintesi che riesce quasi sempre, nonostante chi venendo non ha portato se stesso. Mare che ha dato il meglio di sé. Barca che ha seguito il comando, anticipandolo talvolta, in armonia anche lei. Come si vede quando un uomo e una barca non sono in armonia! Ed è sempre colpa dell’uomo, persona esistenziale e nautica incompleta. Mi raccomando, non diciamo mai “lei ha avuto dei problemi” ma “io sto avendo dei problemi”.

Più di 16 settimane in totale, a settembre, incluso gennaio. E tante miglia, tanta gente. Una, soprattutto: me. Io che non sarei dovuto essere qui, e questo non lo devo mai dimenticare. Che soffro e amo ma che sto sempre dove sento giusto trovarmi. E se non lo sento, liberamente, dopo aver comunque sempre tentato, me ne vado. Possiamo intervistare grandi autori, e fare prelievi di plancton, possiamo studiare e visitare, ma in questa spedizione l’obiettivo è solo uno, come in ogni cosa della vita: trovarsi, sempre più. Oppure perdersi, perché già prima non c’eravamo.

In questi giorni varie interviste. I dieci anni delle mie scelte incuriosiscono, riaccendono. Faccio una fatica nera a spiegare che vivere ciò che si è nati per vivere è faticoso. Quasi tutti sobbalzano: “Ma allora perché?”. Perché l’obiettivo NON era non fare fatica… Solo, non farla per niente. 

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Vero di sè

Grand Harbour

Qui per un lungo viaggio, ma qui per tante ragioni mie. Malta. Quanto ho letto sui cavalieri ospitalieri di San Giovanni, sui loro nemici, sul grande assedio del ’65… Dragut seppe da una premonizione che sarebbe morto qui, e se ne tenne a distanza. Almeno fino a che poté, poi ci venne sapendo che incontrava il suo destino. Il destino

In giro per quest’isola, tra i palazzi meticci del centro, si respira un’aria che somiglia a qualcosa di già respirato. Né oggi né le altre volte che sono passato di qui. Non siciliani, non inglesi, non arabi, non cattolici nel senso unico del termine, non mediterranei… eppure: siciliani, inglesi, cattolici, arabi, mediterranei, identici al mondo per il quale stiamo viaggiando. Su una panchina di una piazza del centro, seduti, senza alcun tempo, viene da chiedersi: quando sono già stato l’uomo che sono qui? E dov’ero? La risposta ha più a che fare con la domanda che col luogo.

Il paese più cattolico del mondo, o almeno d’Europa, resiste alle bordate del mare. Non si sgretolerà come sabbia tra la schiuma. Non smetterà di ricordare e di fare da filtro. Inizierà ad assistere i migranti, invece di rigettarli, dimenticarli in mare? Chissà… Il mondo si chiude, perché dovrebbe aprirsi lui? Nati ospitalieri, oggi non danno spitale e asilo a nessuno. Capovolgimenti della storia. Stanchezza.

Una settimana ancora qui, tra biblioteche ricche di carte cinquecentesche, musei su popolazioni di oltre 5.000 anni fa (ma come fecero nel Neolitico ad arrivare fin qui? Che abbia ragione Hapgood?), splendidi quadri di Caravaggio, teorie di strade gialle nel caldo africano, mare pescoso e turchese. Il viaggio: trovare per caso quello che non cercavamo, cercandolo. Guardo Punta Dragut, Marsamuscetto. Il grande navigatore ebbe la premonizione: quello il palcoscenico del suo ultimo atto. Si fece forza, vi salì, interpretando il rais. Bello morire così, pensavo poco fa: dopo una vita a recitare il copione vero di sé.

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Aspetto il vento

Un vulcano. Un’isola. Ieri..

Navigare. Sempre. Muoversi prevalentemente tra le isole. Tracciare rotte e percorrerle, evitando quelle soltanto immaginate come fossero teredine in grado di sbriciolare lo scafo duro della più resistente esistenza. Disegnare poi, col carboncino del fuori rotta, che differisce sempre dall’idea primigenia, immagini marine occulte, tinte di sorpresa e sconcerto, giorni duri e meraviglia. Comprendere, soltanto molto tempo dopo, che quel profilo, che pareva solo linea rotta, somiglia a ciò che non sapevamo immaginare così puntualmente, l’idea mai avuta di sé, che dovevamo avere nel “tempo sognato in cui bisognava sognare”. Assorbire, con la sensazione mutevole che recano le buone o cattive notizie, ciò che eravamo, ciò che siamo diventati, nel cazza e lasca di quella che non sapevamo fosse ben più di una tratta, ma il farsi mentre lo si sta facendo. Il divenire mentre si sta diventando. E di cui, generalmente tardi, comprendiamo il rispetto dovuto, che avremmo dovuto, incerti di essere più colpevoli o più vittima, giacché chi lo doveva dare e chi ne aveva diritto erano la stessa persona. Eppure, così, improvvisamente, prima di quel giorno, come oggi, accorgersene, in medio tratto, nella linea rotta del presente.

Mi sono accorto che sono salpato, qualche anno fa, per un lungo viaggio, con un’idea del Mediterraneo fatto delle terre-nazioni che lo attorniano; mi sono sviluppato di miglio in miglio in un’idea di Mediterraneo delle città che lo accumulano, custodi della sua anima puntiforme e della natura lunga; mi sto distaccando dal pregiudizio dell’inconoscenza con l’idea di un Mediterraneo delle isole, contenuto in luogo del contenitore, il mare, dunque, finalmente, non i paesi; il mare, non le terreferme; il mare, non i fondachi assurdi in cui, pure, godere. Isole, punti di una retta tracciata da un maniaco, che a unirli riflettono sempre e solo un’altra immagine (la sua vittima), anche se offrono senso. Da osservatori, quando si salpa davvero, si diventa amanti, poi tessitori, di lunghi dialoghi amorosi sulla tela seta della speranza.

Aspetto il vento, qui, oggi, in una baia a scirocco. Forse mercoledì arriverà da ponente. Rotta a sud per un’altra, ennesima isola. Il punto estremo e fatale di un visionario cieco, amaro: Dragut rais.

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