Sottomesso

Equilibri

Navigando, quasi sempre, si comprende, e lo si fa per necessità ed evidenza, in modo quasi pre-razionale. L’azione spinge a officiare una quotidiana liturgia, che è inevitabile, della quale si è necessariamente esecutori, senza indugio, senza che altro si frapponga. Non si fa ciò che si vuole, neppure quando lo si desidera, semplicemente tutto avviene, occorre eseguire ciò che va fatto, indifferibilmente. Il marinaio, che tutti stimano libero e svincolato, è un servo, un attendente, vicario del mare. Lo è, in modo identico, il compositore, l’autore che da fuori pare il Re delle parole, Imperatore delle storie, onnipotente tanto da far vivere o morire, e invece lava i piedi ai suoi personaggi, inginocchiato, bacia quotidianamente il libro sacro sull’altare della creazione di cui è solo parzialmente artefice.

Non mi basterà tutta la vita, per comprendere il modello del Mediterraneo. Ma uno dei suoi componenti essenziali l’ho sperimentato e assunto: il riconoscimento del proprio umanissimo sacro, e l’accettazione felicemente condivisa dell’esserne il celebrante. L’uomo del Mediterraneo è devoto, che per il suo etimo (lat. devotus, part. pass. di devovere «promettere con voto, consacrare») è consacrato, cioè “si è interamente dedicato a qualche cosa” (Treccani). Nutre dunque sottomessa affezione per un’entità, un luogo, una condizione, una persona. L’uomo del Mediterraneo in questo è diverso dallo zeitgeist, lo spirito che permea questo nostro tempo: non combatte contro la sua sottomissione al mare, ai ritmi naturali del suo mondo, anzi, la riconosce coerente con sé, dunque l’accoglie, la sceglie, e per questo devotamente la celebra. In questo, annulla ogni tedio, ogni sensazione di sradicamento, di assenza di significato.

Quando scrivo, nell’atto della composizione, così come quando navigo, nell’infinito e incessante governo dell’imbarcazione, mi sento sottomesso al mare e alla parola. Devotamente celebro entrambi, mi dedico, e coerentemente fatico per essi. E in questo mi trovo, mi ri-conosco. Ecco, forse cos’è l’identità: conoscere la propria fatica, perché la si fa, il senso che ci dona farla.

(considerazioni in margine ad “Atlante delle isole del Mediterraneo” e “Rais“)
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Severino, caro… Ciao.

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È scomparso ieri Severino Cesari, uno degli editor più attenti e raffinati dell’editoria italiana. È stato protagonista di alcune delle iniziative editoriali più interessanti del nostro Paese. Leggete di lui, se ne parla dovunque oggi, un personaggio fuori dalle logiche di potere, sempre dietro le quinte a scoprire talenti, testi, intuire temi, idee, parole.

Scoprì anche me, tra le tantissime cose – di ben maggior profilo – di cui fu artefice. Era il 1993, scrivevo probabilmente dal ’74, da bambino, un mucchio di pagine che a non avevo mai avuto il coraggio di inviare a un editore. Sentivo che non avevo mai avuto nulla di compiuto da mostrare. Almeno fino a quel testo, “Zenzero e Nuvole – Manuale di nomadismo letterario e gastronomico“, così strano, anomalo, diverso da qualunque altro, di difficile collocazione in qualunque collana. Cercai per giorni in libreria, tra mille pubblicazioni, per capire quale fosse l’editore giusto, capace di pubblicare un manoscritto così, fatto di racconti e ricette gastrosofiche (guarda un po’….), che per primo mescolava viaggio, esotismo, filosofia, letteratura, erotismo, cibo. Ne selezionai tre, tutti piccoli editori ma che si erano molto segnalati per dinamismo, innovazione, acutezza, coraggio: Theoria, Transeuropa, e il terzo non lo ricordo, dovrei vedere sui miei appunti dell’epoca.
Decisi che avrei inviato tre buste, a distanza di un mese l’una dall’altra. Ma ne inviai soltanto una, a Theoria, che con la sua collana “I Ritmi” anticipava l’impostazione di Einaudi Stile Libero. La ricevette Severino, che con Paolo Repetti era giovane editor. Fui la sua ultima scoperta per quel marchio, perché dopo poche settimane furono entrambi incaricati di svecchiare il marchio torinese dello struzzo e aprirlo ai giovani.

Lavorammo insieme al manoscritto, io e Severino. Mi chiese di togliere e sostituire un racconto, che riteneva inadatto. Facemmo insieme l’editing parola per parola. Fu il mio primo emozionante contatto con l’editoria. Tornavo a casa dagli incontri con lui pieno di dubbi, meraviglia, sogni, immagini. Il milione di lire che prevedeva il mio contratto non lo vidi mai, ma non per colpa sua, che non si occupava di amministrazione e non era il proprietario della casa editrice. Ma cosa me ne importava! Tutto, per me, era cominciato. Il sogno di un bambino si avverava.

Poi le strade si separarono. Lui e Paolo annusarono con grande intuito il sopraggiungere del pulp e del trash, uscì “Gioventù cannibale”. Nonostante fosse tutt’altro genere, vollero comunque il mio primo romanzo per Einaudi, dove intanto avevano traslocato. Nella lavorazione compresi che mentre Severino amava molto quel testo e riteneva il mio “Stojan Decu” giusto così, Paolo voleva far virare quel romanzo altrove, secondo il gusto del tempo. Gli editor lo fanno, e meno male! Per un autore è essenziale trovarsi a dover difendere o a modificare un testo, fa parte del processo creativo. Io all’epoca lavoravo tanto, ero sotto stress, sempre negli USA e implicato in mille responsabilità, ammetto di non essere stato per nulla lucido. In una “drammatica” telefonata, a contratto già firmato, ci salutammo male (“non morirete senza Perotti, io non morirò senza Einaudi”) e quella sera ebbi la sensazione di aver fatto la più grossa cazzata della mia vita. Avevo seguito molte delle indicazioni ricevute, ma oltre non volevo andare nella modifica al mio romanzo. Per me era concluso e giusto così. Severino, pur senza tradire i doveri di casa editrice, era d’accordo con me. Il romanzo uscì con Bompiani, tre anni più tardi, dopo un’ennesima mia rilavorazione a seguito della lettura e dei consigli ricevuti da Claudio Magris, che lo lesse e lo amò. Einaudi andava a gonfie vele, io pubblicavo quel primo romanzo con un editore tra i migliori del Paese.
La mia profezia, com’era ovvio per Einaudi ma non così ovvio per me, si avverava.

Tornammo in contatto anni dopo. Severino stava già male. Mi telefonò un giorno all’improvviso: “Il tuo blog è splendido. Lo leggo ogni mattina, mi aiuta a sognare, a immergermi in un bel mondo di pensieri. Te la sentiresti di selezionare i pezzi migliori e farne un libro?”. Avevo notato che condivideva spesso su Linkedin quel che scrivevo…
Ma poi scomparve di nuovo. Seppi che si era aggravato. O qualcuno lo dissuase dall’idea di quel libro. Chissà. Gli scrissi due o tre volte, ma non ebbi risposta.

Di certo su “Zenzero e Nuvole” Severino non si era sbagliato. Quel libro fece tre edizioni con Theoria e poi altre due o tre, non ricordo, con Bompiani. Ventimila copie vendute. Fu seguito da un vero filone di genere, quello del racconto meticcio, in cui si mescolano storie e cibo, contemporaneità, noir, suggestioni, di cui Zenzero e Nuvole fu l’apripista (prendete “Afrodita” di Isabel Allende, che [con il dovuto rispetto] pare il clone, per capire cosa intendo). Ad ogni modo, molti che mi leggono oggi mi dicono che mi conobbero con quella raccolta di racconti, già sugli scaffali di casa loro fin dal 1995. Insomma. Oggi per me se ne va un inizio.

Devo a Severino Cesari una delle cose più importanti: aver ricevuto quella busta da un ragazzotto sconosciuto, averla aperta, e aver letto con attenzione, senza rifiutare un testo anomalo, diverso dagli altri, mai veduto prima, da editor aperto alla novità, concentrato nel cogliere tra le pieghe dell’inconsueto le tracce di un possibile mondo letterario presente. Cose importanti. Quanti come lui, oggi?

Grazie per questo, Severino. E buon viaggio dovunque ti trovi.

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La danza

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Guardo un uomo sui quarant’anni, poco più di un ragazzo, giovanile, palestrato, asciutto come solo un animo molto nervoso può essere, pizzetto appena grigio, jeans, t-shirt e scarpe da ginnastica. È salito sul vagone e ha discusso con eccessiva veemenza col controllore, per un dettaglio. Poi ha iniziato una danza continua tra bagaglio, da mettere sullo scompartimento superiore, poi da spostare un poco più a destra, poi a sinistra, dunque si è seduto, si è rialzato, si è riseduto, cambiando posizione di continuo, smanicciandosi la maglia come se si grattasse petto e ventre, ma solo per muovere le mani. Col telefono ha spippolato compulsivamente, è scoppiato in due risate eccessive, si è fatto un selfie per rispondere a chi lo aveva fatto ridere, con una smorfia come dire: “eh lo so, è andata così!”, poi si è messo le cuffie, sempre spippolando, poi se le è tolte, ha chiesto l’orario d’arrivo a Livorno, ridendo cordialissimo con il controllore con cui aveva discusso. In tutto ciò i suoi piedi sono rimasti di rado fermi, ha indossato e si è tolto gli occhiali da sole molte volte, ha aperto e richiuso il marsupio altrettante volte, si è girato, ha chiuso gli occhi per dormire, li ha riaperti, in una danza faticosa, logorante, senza costrutto, che non ha prodotto nulla, fine a se stessa, masticando parole senza suono, una sorta di rosario di frasi inascoltate, indigeste, male assimilate, che immagino affollare un gastroenterico della comunicazione e della consapevolezza pigro, imbarazzato…

In tutto ciò io non ho mosso un dito, seduto, impressionato dalla taranta che vedevo di fronte a me. Mi sono seduto e sono rimasto inerte, attratto non da questo ragazzo cresciuto, né dalla scena in se stessa, bensì dalla rappresentazione molto calzante del nostro schema di vita, delle nostre giornate, continuamente in movimento (non stiamo mai fermi…), sempre in collegamento, sempre in bilico, tra luoghi che non hanno valore per noi, salvo di rado, lontani da quelli che li avrebbero, con piedi, mani, occhi, bocca sempre in giro, muscoli a roteare, circumvagare, tracciare inutili segni nell’aria invisibile, incapaci di generare atti veri, parole sostanziose, pesate, per dire cose, precise, a qualcuno, lui proprio, o a noi.

Ho visto in questa scena il tempo gettato, la strage magnitudinale di energie, il ritmo circadiano dell’assurdo. Ho riflettuto sulle enormi risorse non già spese, che spendere ogni nostra risorsa è doveroso! ma sprecate, che invece sprecare un istante, o un chilowatt, dovrebbe essere ritenuto un reato. E invece no, questa ammuina neppure la notiamo più, la riteniamo normale. Serve un ragazzo nevrotico, su un treno, che ce la mostri per come è.

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Booktrailer (l’Atlante esce oggi…)

Esce oggi in libreria. Il mio “Atlante“.

Per uno scrittore-marinaio scrivere un atlante è un come comporre da soli il proprio breviario, scrivere da sé le preghiere da recitare. Un testo “sacro”…

È bello parlare di cose “sacre”, soprattutto per un ateo. La vita ha una profonda, imperscrutabile sacralità. Qualcosa di essa, un brano molto importante della sua profonda natura, è finito anche qui, in questo volume. Forse mai come in questo libro, che racconta di isole, navigazioni, misteri, leggende, immaginazioni, mi sono occupato di cose sacre. È sempre così quando cerchi di descrivere l’indescrivibile.

Buona lettura.

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Speciale Tg1. Buon servizio. Da vedere.

Avevo il raffreddore, forse anche la febbre, ma fu una bella chiacchierata. Dal minuto 4.50′, è la prima intervista di questo bel servizio.

Ecco il bel servizio di ieri sera (tardi…) di Elisabetta Mirarchi, Speciale Tg1 sul “Cambiamento”.

Un buon servizio. Finalmente un’oretta in cui non si parla di soldi o di life-style. Ma di motivazioni esistenziali, di fatica del cambiamento, di scelte, si tentativi. Storie di persone che ci provano davvero. Belle facce.

Molto felice che questo servizio dia avvio a una settimana importante. Mercoledì, il 18 ottobre, dopodomani, esce il mio tredicesimo libro, Atlante delle isole del Mediterraneo (Bompiani), ennesimo epigone di una scelta di vita rivoluzionaria (almeno per me…), decisa per tentare di fare ciò che io sentivo e sento di poter e dover fare, per essere autentico: pensare, studiare, scrivere. E navigare. Da quella scelta sono passati più di nove anni e mezzo. Anni che posso dire di aver vissuto.

Ci vediamo giovedì 19 a Milano per la prima presentazione. Intanto, se avete voglia, guardate questo servizio. Utile per riflettere.

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Geosofia e isole. (Esce il 18 ottobre)

Una delle carte del libro, realizzata interamente da Marco Zung con le mie indicazioni geografiche, topografiche, nautiche.

Il 18 esce il mio nuovo lavoro: “Atlante delle isole del Mediterraneo” (#Bompiani), il tredicesimo. Un libro da leggere e da vedere. Una mappa da seguire. Anzi, una mappa per seguirsi, ritrovarsi, dove siamo già. Il Mediterraneo.

Nasce da oltre trent’anni di viaggi per mare e anche via terra, e da un’intuizione: il Mediterraneo non è nei paesi che vi si affacciano, e neppure nei suoi grandi porti. È in qualche baia di isola, su qualche molo dimenticato, negli arcipelaghi che ci corrispondono. È là, aspetta noi. Basta andarci.

Ma la geografia non basta. Serve una “nuova geosofia“, che traccia mappe assai più precise, descrive uomini, non solo profili di costa, emozioni, non solo valli e montagne. Risonanze, non solo luoghi. Noi, non solo loro. per questo disprezzo le guide turistiche: contengono quasi tutto di ciò che non mi interessa trovare.

Qui invece troverete il mio modo di sentire, vedere, studiare, annusare, masticare il Mediterraneo amaro e suadente, ruvido e seducente, affascinante e perduto. È colato tra le pagine tutto il mio incanto, la mia emozione, ogni orrore e ogni estati. Raccontare dove ci si è ritrovati, non è forse dipingere un autoritratto?

Da oggi, qui o altrove, pubblicherò qualche spunto, una frase, qualcosa che possa darvi almeno un’idea del mio Atlante, con la grafica del libro, bellissima, interamente realizzata da noi, originale.
Grazie a tutti voi che lo leggerete, se vorrete. E grazie a quelli che hanno lavorato a questo libro ricchissimo: Marco Piani Marco Zung Lucia PianiGrandi & Associati – Agenzia Letteraria Paolo Maria Bonora Silvia Ferrari e tanti altri che sto dimenticando certamente.

#atlante #isole @giovanni francesio

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Bravo.

“Furore” – Alessandro Baricco

 

Ho conosciuto Alessandro Baricco a Madeira, una decina di anni fa. Povero…, era un po’ spaesato su una barca a vela, anche se ferma in porto. Era lì per non dire di no a Farinetti, quasi certamente. Ma non credo abbia navigato, neppure una tappa tra Genova e New York, non ricordo. Certamente non fece la traversata oceanica con me, me ne ricorderei. Parlammo poco, mi parve timido e garbato, non così narciso come sarei stato pronto a constatare.
 
Va detto che non sono un suo appassionato quando fa il romanziere, ma fin dai tempi ormai lontani del suo programma televisivo “Pickwick” sono un suo fan sfegatato quando legge e racconta romanzi in tv. Quando fa divulgazione. Vedo oggi pomeriggio il suo “Furore” di ieri su Rai 3, che avevo mancato perché stavo viaggiando in treno. Una bella, bellissima lettura del grande romanzo di John Steinbeck, pubblicato nel ’39. Di un’attualità straordinaria.
 
Bravissimo come sempre, Baricco, come e meglio di sempre. Fa la televisione che vorrei, quella dei racconti, delle storie, in cui si rilegge quel che è avvenuto, quel che è stato già pensato, sentito nel cuore, da qualcuno in grado di coglierlo perché in tanti lo conoscano, lo possano sentire a loro volta, e ne facciano tesoro, lo usino, oggi, nelle loro vite, per prevenire, per fronteggiare il destino comune di tutti noi, lo stesso da sempre, immancabile, inevitabile, che qualcuno ha raccontato bene. Ma invano, se lo dimentichiamo,  costretti a ripartire ogni volta da zero, rifacendo tutti in fila gli stessi comprensibili errori dell’uomo.
 
Tv per non dimenticare, dunque, per vivere. Quella che per una volta (così raramente…) fa ciò che con una parola ormai svuotata, che nessuno coglie, di cui avremmo un bisogno enorme, chiameremmo: “cultura”.
 
Prendetevi un’oretta e mezza, e godetevi questa bella trasmissione. In silenzio, con concentrazione. Ascoltate.
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