TUTTO TRANQUILLO SUL FRONTE ORIENTALE

Bilancio della giornata campale di ieri…

Una marea di aggressioni sui social. Risposto a tutti o quasi. Stima: un migliaio di risposte. Tempo impiegato, un po’ di ore. Convinti, pochi.
Io li capisco. Deve far incazzare da mo

 

rire che ci sia qualcosa di fattibile senza segreti o frodi o amici-degli-amici. Perché se è possibile allora “io non to tentando, mentre forse dovrei”. Solo che “se tento mi devo fare un culo quadrato per la fatica”. Allora meglio dire “che lui è un impostore”, così evito tutta quella fatica.
Conosco bene questa dinamica. Perfino la comprendo. Mi fa anche tenerezza, perché è una difesa, è umana, sa di paure, debolezze, e noi siamo anche questo.
Ma non la posso accettare. Per mestiere, per missione, per scelta, per dignità, per orgoglio perché no… la devo contrastare. E così ho fatto. Tempo e verve ne ho, dunque nessun problema a farlo.
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Poi le telefonate.
Gente che non sentivo da una vita. Dagospia+Corriere nel linguaggio del mondo dove stavo 13 anni fa significa: “occhio…”.
E “Occhio…” vuol dire: “se questo fa parlare di sé in questo modo potrebbe essermi utile. Una telefonata non costa niente. Meglio farla adesso”.
Bravi. Quel mestiere si fa così.
Solo che con me non è facile, perché vi conosco, so cosa fate ogni giorno, come lo fate, perché lo fate, e lo so perché lo facevo anch’io, e anche bene.
Dunque so tutto prima ancora di rispondervi al telefono.
Difficile con me, almeno su questo terreno…
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Poi le richieste di interviste, tv, radio etc.
Quelle, vedremo. Il motto hollywoodiano “niente fa bene al successo come il successo” è sempre lì, validissimo. A me però non me ne frega niente. Questa roba arriva, fa il suo giochetto, poi scappa via. Se posso la uso, naturalmente. C’è la mia carne e il mio sangue nei miei libri, e poi ci campo, dunque se portano qualcosa, ben vengano. Però non dovunque e comunque.
Io ho il mio passo, non lo cambio di un millimetro. Ci ho messo tanto impegno a trovarlo, è il mio, mi serve, non cedo di una virgola.
Grazie al cielo sto sull’isola e dunque negli studi televisivi dove mi invitano non ci posso andare.
Meglio così. In un lampo lasceranno perdere.
Vi conosco troppo bene, amici miei… Voi invece non conoscete più me.
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Poi le paure. In tanti hanno arricciato il naso: “oddio adesso cambierà” “oddio tutto questo è in contrasto con quello che…”.
Ma voi davvero pensate che basti questo per mutare una scelta? Pensate davvero che per un boccone si possa cambiare strada? Strada si cambia quando si vuole cambiarla. E quando si vuole non serve nemmeno il boccone.
Vi rassicuro così:
oggi taglio fieno per ore.
All’orto alle 6 ci sono già stato.
Devo aggiornare lista di lavori qui: il muretto di pietra da costruire, la terra da spostare, le piante da interrare, le mensole da fare che F. non sa più dove appoggiare la roba.
E poi dobbiamo fare il pane, le focacce, c’è da iniziare a ristrutturare quei quattro sassi, vedremo…
Col mal di schiena, naturalmente (quello che da una pagina facebook non si comunica, non si avverte, e nemmeno su un quotidiano nazionale..) e male alla mano, che un poco è migliorata, grazie al cielo.
E tutto avverrà dopo la sessione di studio e di scrittura, come ogni mattino. Cioè sarà il solito giorno della mia vita, quello non casuale, semmai terminale di decisioni grosse (per me), cioè quello scelto, voluto, a cui tengo fede perché “tener fede alle scelte vere rende vere le scelte”.
Il marinaio o è per rotta o è fuori rotta.
Se ha coscienza della meta, se davvero vuole portare la prua laggiù, proseguirà….
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In sintesi.
Tutto tranquillo sul fronte orientale.
Il Mediterraneo se la ride delle frivolezze. L’isola sogghigna. Oggi il sole sarà alto e forte, dopo il passaggio depressionario d ieri. Un’altro lento, assoluto, ruvido e incredibile giorno del mediterraneo. Vedete nella foto come sta nascendo. Potete immaginare come finirà.
E io qui sto. Ringrazio quel che arriva. Ci giocherello te
E tutto, sempre, diventa ciò che è. Cioè quello che, visibile o meno che fosse, è sempre stato. Perché se lo diventa, vuol dire che era così, e dunque ora lo diventerà.nendolo tra le dita. Poi lo poso sul tavolo azzurro. Mi distraggo. Me ne dimentico.
Conta sempre la realtà.
Questa.

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Qui sotto il pezzo sul Corriere di ieri, quello che ha scatenato l’inferno…

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NON ANDATE IN VACANZA. MI RACCOMANDO…

Non andate in vacanza.
Cioè non mettetevi in una condizione di “vuoto” (/va’kantsa/ s. f. [dal lat. vacantia, neutro pl. sost. di vacans vacantis​, part. pres. di vacare “esser vuoto”]). Nel vuoto ci vivete già.
Nel vuoto ci avete passato questo anno.
 
Semmai fate il contrario: entrate in uno stato di “pieno”.
Non vi garba il lavoro che fate, la casa dove abitate? Non vi soddisfano le persone che frequentate, i luoghi in cui vivete? Non vi dà nulla, o troppo poco, lo schema nel quale siete immersi, i suoi rituali, la gimcana quotidiana per partire da nulla e ritornarci? Non trovate il senso, ciò che attiverebbe le vostre migliori energie, l’antidoto alla vita?
 
Ma se avete queste urgenze… che vuoto, che “vacantia” dovete fare?
Di cosa dovreste dimenticarvi, cosa dovreste mettere in stand by?
Reduci da un collasso che ha rivelato ogni fragilità delle nostre vite, non correte a occuparvi di come cambiare ciò che non va? Non è tempo di riposarvi. Semmai, di riempirvi di impegni, di lavoro, proprio ora che forse avrete un po’ di giorni a disposizione.
 
Andate. Cercate. Studiate. Adoperatevi per verificare la vita.
 
Andate a fare ciò che dite di amare, per cimentarvi, per impararlo meglio, e se vi parrà davvero così vostro, pensate a come farne la quotidianità, un lavoro;
andate alla ricerca dei luoghi delle vostre risonanze, delle vostre latitudini, dei vostri paesi, delle vostre montagne, dei vostri mari, ma non per dormirci, non per dire “aahh…”, ma per testare se sono proprio loro, o uno più in là, e se davvero sono i posti dove dovreste vivere;
andate a cercare le persone con cui potrebbe avere senso che passaste il tempo, facendo il vuoto di quei rapporti dai quali vi allontanate motivatamente. L’amicizia, l’amore, il dialogo, la solidarietà, cercatele tra loro;
cercate la finestra da cui amereste affacciarvi, spremetevi le meningi per escogitare ogni idea per fare di quella finestra occasionale il vostro balcone perenne;
andate nei posti dove vivere sarebbe una festa, o una minor pena, e verificate se esistono, per sperarli autenticamente o cancellarli per sempre;
svegliatevi nei letti per capire se potreste dormirci, mangiate il cibo che potreste digerire, aprite le porte che potreste chiudere col sorriso, guardate da lontano la casa che vorreste fosse casa vostra.
 
La vita non sarà meno dura, ve lo assicuro. Anche in quei luoghi. Ma cercarli, come il bracco segue e punta un fagiano, sarà già una metafora di come vorreste vivere.
Lavorate davvero, ora che avrete del tempo. Lavorate per voi. Incaricatevi. Pretendete. Verificate. Poi fate un bilancio. Approvatelo. O rifatelo. Poi date atto a quel che avete previsto.
 
Che chi vi cerca, non vi trovi mai vuoti: in… vacanza.
Che chi vi cerca o vi incontra per caso, vi trovi intenti, posseduti di voi, pieni di programmi.
Buoni giorni di lavoro intenso, dunque. Non buone… vacanze.
Buoni giorni in rotta. Utili. Veri.
 
“Abitare non è una funzione accessoria del vivere. Habitare, in latino, era il frequentativo di habere, implicava la consuetudine dell’uomo, nel tempo, verso la sua dimora (cum-suescere: «come qualcosa di proprio»).
E demorari indicava l’abitudine di attardarsi in un posto, di indugiarvi volontariamente e a lungo. Tutti aspetti del sentimento di appartenenza, quello che definisce un legame tra casa, territorio e uomo. Seguendo l’etimo, si vive dunque in uno spazio che si sente proprio, dove si sta volentieri, il più possibile, per una corrispondenza.
Abitare non è un fatto occasionale, temporaneo, dettato dall’esigenza strumentale di stare lì perché l’ufficio è vicino, o perché c’è la fermata del metrò. Questo accade nelle città, è normale nel nostro alienato sistema di vita, dove abitare non è più una funzione del vivere. Si vive dove si abita, mentre dovrebbe essere il contrario.”
 
(“L’Altra Via”, Solferino)
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“L’Altra Via”. Una casa di pietra su un’isola del Mediterraneo.

Due pagine su Natural Style – F – Corriere della sera

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La Via – ecco la II parte

“Io ho una tesi, vediamo se sta in piedi. Potremmo dire che nei decenni fino a ieri, quando abbiamo impostato e consolidato il nostro attuale sistema di vita, abbiamo creduto assai poco in qualcosa, e decisamente troppo in altro….”

Com’è iniziata la burrasca. Come siamo finiti fuori rotta. Ma quanto fuori rotta? Io penso che non sia un errore di 180°, come tanti pensano. Chi lo dice, secondo me, vuole fare ammuina, perché tutto resti com’è, perché non ci sia da faticare, e perché nulla cambi.

Penso invece che siamo fuori rotta di 40 gradi, al massimo 50. Un bel po’! Sufficiente a finire nei guai. Ma è un errore che si può ancora correggere.

Ecco la Seconda Parte del podcast: “LA VIA”. Dentro gli argomenti, uno per uno. Dentro a ciò che abbiamo osannato, o dimenticato. Qui “politici” responsabili non ce ne sono. Qui, niente “colpa dell’UE”, oppure “eh ma lui…!”. Solo noi, le cose da rimediare, la rotta da riprendere.

Qui per scaricare o sentire online: https://www.simoneperotti.com/wp/i-miei-libri/la-via

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“Qui” (quarto capitolo)


4.


Per mesi neppure un malato, ma tutto viene chiuso su un’isola chiusa. E ora, tutto nuovamente aperto sull’isola aperta. Le quarantene al tempo della televisione sono così, prive di ogni logica, come la paura. Ora si piangono i turisti perduti, che erano già pochi. Le isole che merita vedere, del resto, non sono affollate. Sono dure da raggiungere, rimangono fuori dalle grandi rotte. Per caso, vai solo dove costa poco. Ma il costo per venire qui non è in denaro, le scelte non lo sono mai. L’isola devi prima sentirla, quando non sai nemmeno che esiste. Allora, considerato pazzo, la vai a cercare. Quando non la trovi, per anni, devi continuare, dandoti tu stesso del folle che cerca qualcosa senza motivo, come fosse una tara, qualcosa di fatale. Dunque, l’isola la devi volere. È la catena del desiderio, credo che valga per tutto. Se guardo alla terraferma, invece… mi pare che si viva tutti sentendo niente, volendo poco, cercando quello che non serve, trovando solo briciole.
O forse mi sbaglio. Da qui o si vede tutto o si scambiano navi con mostri.
Quello che so è che qui mi ci ha portato la voglia. L’irresistibile brama. Chi ce lo avrebbe fatto fare, altrimenti? Dal “Fienile dell’Anima” siamo partiti con gli occhi umidi. Ecco perché, ecco il profondo segreto di una scelta: andare nonostante ciò che basta, non a causa di quello che manca. Il bisogno è un’illusione, fa solo sbagliare la rotta. Se Penelope bastasse, non seguiresti mai il canto di una sirena.

Qui è confluenza. Ionio, Egeo, Mare di Creta. Lo chiamano Mare di Myrtos, così vuole il mito. Una storia di tradimento e inganno, come lo è sempre un confine. Uva meticcia che ognuno chiama a suo modo.
Mi interrogo: di “Qui” cosa avrebbe detto mia madre? Avrebbe strabuzzato gli occhi, stretto le labbra come per fischiare, ma senza suono, come faceva lei? Avrebbe toccato le mura di pietra con una mano, come per appoggiarsi, o a dire “che cosa grossa, solida!”? E cosa dirà mio padre, tutto entusiasmo e avventura? Cosa dirà chi non ha detto ancora niente, come non pensasse niente? Vorrei vederli tutti nella luce e nell’aria della sera. I colori di quel momento mi fanno venire da piangere. Sono narrativi, e io amo così tanto i bei finali di romanzo. Qui è un libro di racconti brevi, quotidiani. Perfetti.

Spiegare l’inspiegabile, raccontare l’inesprimibile. Provo a procedere, ma non lo so fare…
La casa non è grande, ad esempio, ma commuove. Il primo atto di vendita è del 1891. Ho trovato qui aratri di legno, intagliati a mano, vomeri col segno della sgorbia. Un giogo. Forconi fatti di rami. E un’altalena, perché i contadini dovevano tenere buoni i bambini. In questa parte dell’isola le case di pietra non hanno intonaco. Mi hanno raccontato di un manipolo di artigiani del vicino Mani, giunti qui due secoli fa. Loro sapevano costruire. “L’intonaco è quando non ti fidi”. Coprire, nascondere buchi. Non dichiarare, l’intonaco di non ammettere.
All’interno c’è spazio per tutto. Il tremore eccitato, la sensazione di navigare oltre il limite, l’assoluta meraviglia, l’hanno riempita già molte volte. Una casa non si può comprare. Va costruita. Deve somigliare a te: spazi – per tempi – per pratiche. Nel divenire. Se non sai dove mettere l’emozione, ad esempio, devi costruire un ripiano. Per sognare, devi allestire un angolo. La vera tristezza di una casa sono le stanze vuote: dovevano contenere chissà quali tesori, e invece non c’è spazio per ciò che non hai. In una teca di pietra ho già impilato immagini, libreria di istanti alla fonda: quel tardo pomeriggio, fermi, uno qui uno lì, in silenzio; quando ti sei alzata e sei andata via, ma ti sei voltata; la sera della cena fuori, candela, gli involtini che avevo mangiato una volta su un peschereccio, a La Galite. Sono venuti identici. O ancora, quel giorno, coi falchi enormi che volteggiavano, il sole sullo Ionio, la musica, ogni sfumatura del rosso, e tu che hai detto: “… è bellissimo”, ma col tono che usi solo quando ci sei. O le grandi capre selvatiche, l’apparizione di quella sera, corna larghe, ritorte, orizzontali, la pelliccia nera lunga fino a terra. Spettri dagli occhi fiammeggianti nell’altipiano, divinità incarnate che anticipavano il passaggio della falce, che poi, per mistero, ci ha risparmiati. O il ciclo dei fiori, da riconoscere ogni giorno. Quante volte ci siamo fermati, arrivando qui, perché “aspetta, aspetta, guarda che bello quello! Ieri non c’era!”?

Una nave alla fonda, da una settimana. Ci guarda. Un ancoraggio pare una domanda, in attesa. “Saremo all’altezza, sapremo preservare?” Cominciamo, come in un vaso, a mettere fiori. Basterà lo spazio? Dipende da noi. Le cose importanti non ingombrano mai molto. Eppure chissà… Può darsi che un giorno dovremo ripartire. Non fare no con la testa, lo sai…

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“Qui” (primo capitolo)

1.

Quattro anni fa era un sogno: vivere su un’isola. Una di quelle cose impossibili… Io mi ero già incamminato da anni. Lei, non ancora. Doveva, prima… Allora l’ho attesa, come nei film. Senza premere, perché decidesse di liberarsi (lo avrebbe davvero fatto?) al momento opportuno (sì ma quando?). Quanta gente ho incontrato che giurava di… Ma poi?
E così, Uomo Libero, abitatore del “Fienile dell’Anima”, il luogo mitico, simbolo della mia libertà. mi sono ritrovato, per scelta, senza nessuna certezza che non fosse una promessa, un desiderio, in un appartamentino così così, che ho adorato solo perché c’era lei, ma che mi stava stretto, senza la natura, senza la solitudine. Stavo scrivendo “Rais”, cambiare tavolino, postazione, cose che rischiano di mandare all’aria il lavoro di otto anni. Per di più, nei luoghi della mia infanzia. Posti cancellati del tutto già da anni, due o tre vite prima. Tornare nelle vite precedenti toglie l’aria.
Ero lì ad attendere che la vita immaginata accadesse. E intanto sognavamo l’isola.

L’isola, almeno, sapevo quale fosse. Cercata per decenni. La prima volta, una notte di quasi vent’anni fa. Solo, a bordo di un barcone da riportare a Genova dall’Egeo. Notte di ancore, insonnia e catene. Però nel nero, nell’ululato del vento, avevo alzato la testa: “qui ci devo tornare. Quest’isola…”. Anni dopo avevo capito perché. Ma non sapevo, non potevo esserne certo. Ci siamo tornati, l’abbiamo vissuta un po’. Era lei. Almeno su questo non c’erano dubbi. Dopo decenni di ricerche, eccola. Ma c’era sempre da aspettare…

Quattro anni dopo, sull’isola ci siamo arrivati. Le decisioni erano state prese. Un uomo e una donna, pagati tutti i prezzi, saldato tutto, chiuso quel che c’era da chiudere. Una piccola utilitaria nera era arrivata fin su, in Liguria. Che faremo adesso? Come andremo avanti? Ce la faremo? E cos’è questa storia di andare su un’isola? Già arrivare fin qui è stata una rivoluzione, un azzardo. Stiamo seguendo un miraggio, forse?
Salto. Arrivo alla scena, a fine febbraio, cinque mesi fa: una macchina, stracarica di cose, che viaggia verso sud, Roma. Poi a sud ancora, Brindisi. Poi un traghetto, poi i Balcani meridionali, senza sapere, solo intuendo, che dietro stanno crollando i ponti, bruciano le navi. Qualcosa di imprevedibile, che sta cambiando tutto. Anche volendo, quella macchina e i suoi due occupanti, quell’uomo e quella donna, non potranno tornare indietro, non potranno rientrare.
E centodieci giorni dopo, cioè oggi, eccoli. Non torneranno… Non ora, almeno. Resteremo qui. Fino a quando, nessuno lo sa con certezza. Potersi concedere l’incertezza, del resto, non era già questo uno dei sogni? Uno di quelli pagati cari, con la valuta del coraggio. E per natura incerti.

Ma resteremo qui a fare che?
A ristrutturare quattro sassi. Una specie di stazzu, una casetta rurale, agricola, davanti all’Egeo. Quelli che chi li ha visti, i sassi, ha detto: “Va buttato giù tutto”. E io ho pensato: “Col cavolo, va tenuto su tutto com’è”. Diverse concezioni architettoniche dell’anima. Comunque: una stamberga di pietra di due secoli fa, topi, ragni grandi come arance, pipistrelli. In fondo a un sentiero bianco che molti definiscono inagibile (ma non lo è affatto, tant’è che lo agiamo), senza elettricità. Intorno, niente. Davanti, mare. Perfetto. This must be the place, pensammo la prima volta. Un eremo, se volete, un monastero laico, un’ultima Thule virgiliana. L’ultimo luogo dove è ancora possibile. Vivere, magari. A modo nostro. Chissà.

E dal pomeriggio dell’arrivo ci siamo messi a lavorare.

(continua…)

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Noi nel Mediterraneo facciamo così

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Il sole non batte ancora sui pannelli, ma il sistema energetico della casa, dopo la notte, è ancora a 51.2 V. Dunque al 65-70% della sua carica massima. Gli accumulatori sono garantiti per 4.200 cicli di carico e scarico se lo scarico non supera il 50%, che su base quotidiana vuol dire oltre 11 anni e mezzo. Dunque ogni volta che passiamo la notte senza raggiungere quella soglia sono giorni in più di durata delle batterie (in questi 80 giorni, ad esempio, mai andati al 50%).

Noi consumiamo poco, e la casa è tecnicamente una casa passiva. Il tetto è realizzato con sandwich di legno da 5cm e materiale isolante ad alta capacità. Le pareti sono di pietra da 54 cm, e di giorno, se fuori si scoppia di caldo, dentro si sta freschi come con l’aria condizionata. Il posizionamento delle finestre era già stato fatto tenendo conto della possibilità di creare correnti d’aria tra lato fresco e lato caldo della casa e in base ai venti dominanti. La struttura è disposta a mezzogiorno perfetto per il ciclo di illuminazione invernale, dunque in diagonale d’estate. Gli esperti locali dicono che la casa ha oltre cento anni, e un tempo a queste cose ci stavano molto attenti.

Il sistema di produzione energetica della casa è fotovoltaico, 9Kw, assai potente, di giorno potremmo vendere energia a un’altra casa. È totalmente off-grid (qui non c’è la rete elettrica a cui attaccarsi). Il sistema della produzione di calore è solare termico, e produce un’acqua talmente calda che non puoi tenerci sotto la mano, anche dopo una giornata piovosa.

Per l’acqua c’è un’antica cisterna interrata (tra l’altro realizzata a forma di giara, a mano, è di una bellezza commovente) che devo ancora ripristinare. 14.000 litri, non pochissimi. Preziosi.

Non vi dico la gioia. L’orgoglio.
Qui facciamo tutto col sole. Inquiniamo il meno possibile (anche grazie a una gestione molto attenta dei rifiuti, per quanto possibile. Sull’isola comunque fanno la differenziata, il che in Grecia non è per niente banale). A breve recupereremo anche l’acqua piovana. Comunque già da tempo mettiamo la bacinella sotto la doccia, quando ci laviamo, e dato che F. autoproduce ormai da anni tutti i nostri detergenti in modo naturale, la riutilizziamo per innaffiare.

Siamo autosufficienti per molte cose essenziali dunque. Paghiamo ancora la bolletta dell’acqua, che qui, dato che l’isola ne è ricca, è bassa. Ad ogni modo, quando l’energia elettrica sull’isola va via per un paio d’ore (non così raramente) noi non ce ne accorgiamo neanche. Fantastico.

F. fa il compost per l’orto, che è in allestimento. Io riciclo qualunque materiale. Ogni cosa che ci serve viene analizzata per vedere se possiamo autoprodurla invece che comprarla, un tavolo, una cucina, un divano, al momento tutto ciò che è interno alla casa lo abbiamo realizzato noi. E adesso faremo anche il fuori. Il lavandino era buttato in un angolo in una falegnameria, ce lo hanno regalato. L’altro, esterno, idem, due metri, due lavelli e due sgocciolatoi in acciaio, lo abbiamo preso per 20 euro. Recuperiamo tutto, ricicliamo, cambiamo d’uso, autoproduciamo, che sia un forno o un lavandino. Abbiamo lavorato a fianco degli artigiani, li abbiamo aiutati, per abbassare ogni costo. Stimiamo di aver realizzato lavori per 30.000 euro, che sono diventati una mancata spesa e domani saranno produzione di valore se e quando dovessimo vendere.

In tutto ciò, dovendo lavorare, faticando ma divertendoci, abbiamo accumulato chissà quanta mancata spesa necessaria per divertirci in modo “esterno”. A cena fuori ci siamo andati una volta, take-away seduti fuori dal locale, 10 euro, in 80 giorni (complice il lockdown, ma in condizioni di normalità le cose non vanno molto diversamente). Io progetto di pescare, e anche significativamente, anche perché noi adoriamo il pesce. Non sono molti quelli che sanno cucinarlo bene come noi (anche perché nessuno conosce i nostri gusti altrettanto bene). Abbiamo anche un progetto per le alghe, ma questo lo vedo più complesso. Anche se “mai dire mai”.

Questo è il nostro modello. Naturalmente si può fare molto di più, e molto meglio. Ma si può fare anche molto meno, dunque siamo già soddisfatti. Il resto verrà.

Stamattina l’alba era quella che vedete in foto. Ho preso un caffè nel silenzio rotto solo dal canto dei galli, poi dal primo lavoratore che spaccava legna per sfruttare il fresco del mattino. Poi anche dall’asino, che chiamava chissà chi. Stando lì, a pensare, a sentire il Mediterraneo che mi entrava dentro, che si impadroniva di me fino nei recessi della memoria del presente, ho fatto il punto della situazione. E ho voluto raccontarvelo.
Niente di così eclatante, solo una testimonianza di pensiero e azione, tutto, sempre, sotto la nostra responsabilità. Tutto possibile.

Buon sabato.

#lultimathule

#rapsodiamediterranea

#adessobasta

#cambiamento

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Ieri su RAI 1 (e l’alba di oggi)

“Noi dobbiamo rimanere diversi, ma attingere a queste nostre diversità. (…) Una bandiera che non verrà mai issata dagli eserciti, ma dai cittadini del Mediterraneo”.

Dal minuto 1h30’45”, il mio intervento ieri a UNO Mattina – RAI 1

https://www.raiplay.it/video/2020/05/unomattina-cffc91d0-b5b2-43af-baf1-4270a4660bee.html?fbclid=IwAR3F2VS96XhlZY5dttean4fL7KJPk5F4TxXdolEKWgYlbCmMR2dF2ZLxk74

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Per dignità

Il 29 febbraio scrivevo “Tutto ‘sto casino si risolve stando tutti a casa una quindicina di giorni. (…) Provateci. Cogliete l’occasione. Una quindicina di giorni e via, finito il virus. E iniziato qualcosa di nuovo…”.

Erano i giorni di #milanononsiferma, l’inno nevrotico della nostra società drogata di attività e lavoro. In quel pezzo citavo anche un filosofo che non amo, ma che ha scritto una frase piuttosto importante: Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo. Blaise Pascal.

È evidente, per come sono andate le cose, che non sarebbe bastato. Eppure, se per magia ci fossimo tutti sintonizzati sulla gravità della situazione e da quel giorno ci fossimo distanziati, chetati, avessimo chinato il capo (per una volta!) oggi probabilmente staremmo parlando di qualche decina di morti al giorno, non di molte centinaia. In quei giorni, infatti, il virus proliferava.

Ora impazza la domanda: “Basterà questa lezione a farci cambiare?”. Spero di sì, ma temo un po’ la naturale tendenza dell’uomo al bene relativo: oggi che la pizza con gli amici non la può più mangiare, guarda a quella pizza come a un miraggio, e non vede l’ora di potersela mangiare domani. E quella pizza sarà quanto di più importante, bastante a redimere da ogni privazione. Sarà tutto lì, in quella pizza. A me invece quella pizza deprime.

Mi deprime la voglia di tornare “alla normalità”. Quella “normalità” a me non pareva affatto normale, affatto positiva, tanto che me n’ero da anni costruita una parallela, coi miei mezzi, diversa nelle quantità e nei toni, nei luoghi e nel tempo. Quella normalità di spreco, confusione, relazioni insane, coatte, quella clemenza nel considerare le peggiori derive dell’uomo come “umane”, o nell’accusare chi le stigmatizzava come “incapace di compassione verso l’uomo”, ecco, quella normalità era niente, un pantano. Non c’era volontà, non c’era ambizione, tutti vivevamo arroccati solo in ciò che già eravamo, mai lanciati verso quello che non eravamo ancora. In quell’acquitrinio rituale, sempre identico, costoso, maleodorante di simulacri consumistici e di falsi miti simbolici, annaspava una società che oggi vediamo nuda, fragile, incapace di tenere botta se non urlando, accusando, lamentandosi, come se questo virus fosse colpa di qualcuno. E dato che non c’è un “qualcuno”, la rabbia aumenta, perché le false coscienze hanno sempre bisogno di un nemico, meglio se immaginario.

Neanche io, come già altri, mi auguro il ritorno a quella normalità. La temo quasi al pari di questo virus e dei prossimi che verranno. Come vivevamo prima sapeva già di morte, aveva il tanfo dei piedi zozzi dell’umanità accasciata, il sapore stantio dell’omologazione. Generava esseri assuefatti a una vita intera con due sole settimane di ferie all’anno, che una persona sana avrebbe ritenuto schiavitù. Era colorata di disperata resa alla realtà, che solo i rassegnati dicono che va vissuta per com’è, perché invece va cambiata, e non ha mai ragione, la realtà, per il fatto di essere vera, semmai ha torto per lo stesso motivo, perché ciò che è già vero deve diventare altro che ancora non è, che sto immaginando proprio perché voglio qualcosa di meglio, e questo è il principio dell’evoluzione, dell’ambizione, cioè la voglia di non rifare oggi, per l’ennesima volta, lo stesso identico errore di ieri. Non fosse altro per non annoiarsi. O per curiosità. Per dignità.

#adessobasta

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La Regola

Di una cosa non posso fare a meno, ormai da anni: della Regola.

Sveglia presto, caffè, due passi nella natura prima che sorga il sole, un’occhiata ai lavori del giorno precedente, alle gemme sulle piante, nell’aria frizzante e pulita di prima del mattino. Sguardo a nord ovest, perché tutto viene da lì. Sguardo al mare. Stima della pressione, dell’umidità, del vento, se ce n’è. Poi secondo caffè e un biscotto, una sigaretta. Dunque vado nel mio studio, qualche buona pagina da leggere, e subito a scrivere, nel silenzio di cristallo dell’ora migliore del giorno. Quando arriva il primo raggio di sole, immerso già nelle parole, alzo gli occhi. Anche se accade ogni giorno, vengo sempre rapito dallo stupore.

È il mio modo quotidiano di pregare. Il mio monachesimo intento, la mia ortodossia. Tutte le cose buone le faccio seguendo la Regola. “Rapsodia mediterranea”, che necessitava una regressione psico-spazio-temporale, potevo scriverla solo così.
Ma le idee tutte posso partorirle solo così. La mia “produttività” dipende dall’osservanza. E in cuor mio, ingenuamente, mi chiedo come si possa vivere senza Regola, senza silenzio, senza la concentrazione aerea di queste ore, di questa condizione spirituale.

Alla fine è per questo che sono andato via da tutto.
Per non dover sottostare alla Regola del mondo.
Avevo bisogno della mia.

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