Arcipelaghi

Storie di ordinaria miseria. Gente che si spaccia per altro su questi maledetti luoghi d’impostura (e di splendida comunicazione) che sono i social network. Uomini (soprattutto) che fingono ciò che non hanno, portatori di ciò che non sono, dunque aspirano a un incontro inautentico, certi di non esserci per qualcosa di vero. Non è giusto, tuttavia, dire che queste nuove modalità di relazione ci stiano cambiando. Rivelano solo ciò che siamo da sempre. Una bomba non rende un uomo violento: gli consente solo di uccidere più uomini, con la stessa cattiveria di quando brandiva solamente un coltello.

Sto scrivendo di isole, in questo periodo, per il nuovo libro. Un “Atlante” che pare ovvio per me, quasi obbligato. Eppure l’onda di emozioni rotola con la schiuma-parola, travolge fino alle lacrime. Isole del Mediterraneo, luoghi della prigionia, della solitudine, della nostalgia, della pazzia, dell’omicidio, della resurrezione, luoghi limite del sogno, dell’amore e del silenzio, il materiale di cui sono fatte le voci. Isole e social network sembrano avere assai più elementi in comune di quanto non potrebbe sembrare. Un mare di bottiglie che contengono una richiesta d’aiuto. O di antri in cui sono sepolti tesori. Prevarrà l’urlo o l’omertà? Il nascondiglio o il ritrovamento? Chissà…

Ascolto qualcosa di armonico, stamattina, per risollevarmi dalla miseria e fare prua sul rapimento emotivo. Cos’è un coro, se non un arcipelago? Un gruppo di terre che, per un istante, rinunciano a rimanere soltanto isole

 

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Parlarne dove è giusto…

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Non benissimo

(uno, due, tre… voltati)

Nel periodo in cui uscì il mio primo romanzo ero solito attaccare verbalmente l’icona dello scrittore italiano (e non solo) che si presenta sempre disturbato, confuso, incapace di parlare all’indicativo, falsamente timido, schivo. Nei salotti, alle presentazioni o alle interviste, mi presentavo sempre sorridente, dichiaravo tutta la mia presunzione alla vita, imitavo la macchietta ripiegata su se stessa del collega di turno, facevo affermazioni sprezzanti sulla letteratura del nulla, quella del disagio metafisico fine a se stesso e del mondo interiore come luogo esclusivamente infernale. Una nota addetta stampa editoriale, che aveva molto amato il mio romanzo, mi disse un giorno: “Non credo a una parola di quello che dici”. E mi freddò.

Non rinnego una serie di quelle mie tirate anticonformiste (assai esilaranti e tra le cause, insieme al mio individualismo anarchico, di un certo immediato isolamento dagli ambienti letterari), ma non ho mai dimenticato le parole di V, l’addetta stampa. Da allora, ad ogni passo nella vita in cui ho rasentato, o almeno costeggiato, sentimenti come la follia e il nulla, l’inadeguatezza e il nonsenso, ho ricordato quella frase gelida, letale, pronunciata in una notte milanese paradossale in cui ne capitarono di tutti i colori. Lei, va detto, aveva occhi un po’ languidi, adorava la Nothombe e si avvolgeva in modo inconcepibile in grandi scialle color melanzana. Sta di fatto che in due o tre occasioni in cui ho seriamente dubitato dei miei mezzi di reazione e avevo perduto l’orientamento, sono stato sul punto di constatare che aveva ragione.

Dal lato sinistro delle mie convinzioni, ad ogni modo, non mi sono mai spostato sul lato destro delle convinzioni di V.. Ho capito, tuttavia, quel che voleva dire: chi lavora nell’arte, chi disegna, scrive, scolpisce, traccia note su uno spartito, “non sta benissimo”. O finge oppure non è un artista, cioè non si pone le domande che tutti evitano, non ha il coraggio della sofferenza di quell’orrore, non lo percepisce, o non lo sa comunicare, e il risultato è, per dirla con Kafka, che non fa letteratura (che secondo il genio praghese è “una scure con cui squarciamo gli oceani congelati nel nostro intimo”). Il punto (l’ho capito con gli anni) è: come continuare a scrivere “senza finire giù dal burrone”. Ci pensavo oggi, quando una persona, che non deve stare benissimo neanche lei, mi ha inviato un commento non corretto ma molto raffinato (e sfacciato) su Rais: “Bora non esiste, è la proiezione della parte femminile di Dragut, che lui partorisce per non impazzire. E tu, come ti senti?”.

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Quelle buone

Parlare di un libro. Una tautologia, in qualche modo, giacché se l’autore aveva qualcosa da dire, certamente, lo ha scritto, e quel che non ha scritto non serve. Ma questa è teoria. In realtà un autore ha un mucchio di cose da dire sul suo libro, sulla storia, sui personaggi. Ogni romanzo è il primo volume di un’enciclopedia, e forse è per questo che di un autore (almeno uno di quei pochi che non scrivono sempre la stessa storia) bisognerebbe leggere tutto. Ma allora perché non abbia infilato quel che ha da dire direttamente nel volume pubblicato, questo, proprio, non lo so.

Come possano tuttavia venir fuori, quelle gran matasse di pensieri e intuizioni, è cosa misteriosa. Ho fatto presentazioni in cui sono riuscito a dire il cinque per cento di quel che avevo nel cuore, nella pancia, nelle braccia (ieri?), vuoi per la sala, per il ghigno involontario del signore in terza fila, per la voglia di bermi un Margueritas che non poteva attendere, per una parola detta storta la sera precedente, e sentita ancora più storta, perché oggi proprio non mi sento, perché certe cose non me le sentirò mai. E poi, raramente, ne ho fatte di piane, chiare (“sei troppo diretto!”), ruvide quel che basta (“ti ho visto strano!”), sentite quanto lecito (“stavi benissimo ieri sera!”), vere quanto minimo. Ascoltate… mah!

Quella che potete seguire qui sotto è una di queste, venuta abbastanza bene. Ho detto qualcosa, almeno, credo…, sul romanzo che ho scritto, che ho amato tanto, che forse è venuto fuori come si deve, su cui ho patito, e che come spesso accade a uno scrittore… mi ha salvato nei momenti difficili. Chissà. Buona visione.

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Osservanza

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Verso levante, mentre rischiavamo di affondare – 2008

Stamattina ci siamo svegliati presto, era ancora buio. Siamo sgusciati fuori dal letto, da casa, dal palazzo, e per le vie del paese abbiamo guardato intorno con muta osservanza, come si fa col nuovo giorno. I viaggi di questa settimana, i postumi di un’operazione, i racconti, i progetti, erano lì, a qualche metro, ci seguivano come pupi liberi dai fili. Nel caffè, nella musica bassa del bar deserto, nel giornale, abbiamo fatto la prima risata, ci siamo detti le prime parole. Abbiamo letto a voce alta un articolo su Defoe, Robinson, l’uomo che non è un’isola. Pensare alle isole, a una in particolare, è una delle migliori lusinghe di ogni spirito libero.

Poi il giorno è salito, dalla nota fissa di un didgeridoo al jazz della luce e della vita che cresce, e siamo rientrati. Che spreco il tempo vissuto nel flusso generale, che orrenda bestemmia non seguire la natura del sonno e della veglia, che schiavitù mostruosa dover fare invece di sentirsi di fare, scegliere di fare. Reiterazione quotidiana del reato, e poi uno si chiede ragione dell’ergastolo.

Ogni giorno, per tutta la vita, sputiamo oro invece che cibarcene. Dieta malfatta di assenza e follia. Quella rabbia, quel vuoto, quella coscienza crescente di insensatezza e tedio, sappilo, vengono da lì. Cerca di ricordartene.

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Giorni così

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Una delle cose che mi aiuta a generare energia, ad esempio, è il Barbaresco

Stamattina mi sono svegliato con una serie di frasi dette dalla propria voce di Dragut nelle orecchie. Parole forti, come noci che si rompono, legna che si spacca. E mi è venuta su un’energia antica, gli occhi della tigre. In due ore ho avuto due buone idee, lanciato messaggi, fatto proposte, chiesto informazioni. Ho fatto sgommare la mia vita, le ruote hanno fatto fumo, hanno cantato, poi un balzo in avanti. Quando lavoravo erano i giorni in cui i miei collaboratori volevano nascondersi sotto la scrivania. Pensavo poco fa che siamo come il nucleare: energia, oppure bomba. Dipende chi è che la usa.

La cosa più eccitante, al mattino, è leggere quello che ho scritto. Trovarci dentro quello che so, quello che volevo da sempre trovare in un libro. Poi smetterà di essere così, avrò bisogno di altre pagine, e allora dovrò scriverle. Ma ora, ancora, Rais è il mio libro, mio come lettore intendo. E al mattino quelle parole che scoppiano, le schegge che vanno dovunque, ti trafiggono il cuore, scatenano un boato dentro. Le ho scelte a una una perché generassero questo, e ora mi godo la detonazione.

Un’amica a cui dico che ho deciso due o tre cose e che oggi sto così mi risponde: “Bravo… che la vita scorre”. I giorni come oggi mi dicono un mucchio di cose. Su di me, su quanto ci vuole per arrivare a essere in movimento, su quanto chi sta fermo dovrebbe evitare di parlare del mondo, della vita: “Prima ti muovi tu, paghi il prezzo, consumi energia, costruisci, generi cose che non c’erano, imposti progetti, mondi! e poi apri bocca“. Pensiero, idee, progetto, azione, una concatenazione difficile da mettere in fila, ma che quando c’è accende i razzi del destino. Mi ricordo: il mio destino l’ho sempre fatto in giorni così. E per onestà, dato che me ne ricordo, non mi lamento mai degli altri, della sfortuna, di niente. Solo di me. Perché la vita la fanno questi giorni, e anche quelli prima, quelli senza detonazione.

Io so da dove viene questa energia, ci ho studiato tanto su questo. E se mai si dovesse sostenere che qualcosa della vita l’ho capito, è proprio questo: l’energia, cos’è, quanta ne serve, da dove viene, come generarla, a che costo, con quale efficienza tra combustibile e risultato finale. Attenzione perché è lì il punto, il resto consegue. La benzina del motore-vita. L’energia. Voi… da dove viene, come generarla, quanta ve ne serve… lo sapete? Pensateci, è essenziale.

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Eldorado e Itaca non esistono

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Qualcosa di reale

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Che rotta fai? Non lo so…

Che romanzi scrivi?” Quando me lo chiedono vorrei essere lontano… Sarebbe come se io domandassi: “Che vita vivi?” “Ma no dai, intendevo: che genere…?” Ecco, appunto…

Vita dramma, vita comica, vita avventura, vita d’amore, vita tedio, vita obblighi, vita libera, vita studio, vita fuga, vita errore, vita tradimento, vita speranza, vita sogno che non mi posso consentire di sognare, vita che quel giorno speravo mi dicessi quella cosa, vita che non me l’hai mai detta, vita che quando ho capito che dovevo dimenticare ho ricominciato a vivere. Vita buttata, vita errore, vita di cose che non so, vita che mi piacciono solo le cose che già so, e non saprò mai il resto, vita che oggi sto bene ed è bella, vita che oggi sto male e non mi ammazzo solo grazie a te, vita che è andata, vita che ancora ce n’è. Vita che non c’è stata mai. “Che vita vivi? Drammatica? Umoristica? Avventurosa? D’amore? Storico-aneddotica? Poliziesca? Rosa, noir, gastronomica, manualistica, di viaggio, di formazione?”. E io di cosa dovrei scrivere? Guarda che scrivo a te

Ogni volta che per capire chiudo, segmento, recinto, sfoltisco, so già che non servirà a niente. Ogni volta che per ascoltare devo aver già capito, ho una fitta al cuore. Ogni volta che mi chiedono di spiegare sento che non ce la farò: non avrò parole, o ne avrò troppe, e chi ho di fronte non resisterà. (Di che parla il mio romanzo? Allora…). Ogni volta che quella cosa non me la dici, vorrei capire perché. Ogni volta che l’attendo, anche. Quando mi chiedo che tipo sei, mi domando: “che ci faccio qui?”.

Quasi tutto quello che merita attenzione, non può essere definito se non con un lungo giro di parole vane. Io non saprei definirlo, ecco, diciamo così. Ogni cosa che scrivo vorrei non fosse definibile, perché somigliasse a qualcosa di reale. Altrimenti per capirlo dovremmo uscire. Mentre scrivere, come leggere, come vivere, è entrare.

Lei non vede il mondo. È più recluso di me, perché io, schiava, osservo ciò che non sono, mentre lei, libero, vede soltanto se stesso.” (Rais, Frassinelli, 2016)
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Un uomo libero. Un vero cattivo. Finalmente.

D – Perotti, lei si è lasciato rapire da un pirata del Mediterraneo, Dragut…

R – Il personaggio del Rais incarna tutto: crescita, gloria, caduta, riscossa, vendetta, morte, rinascita… È un Dantès molto più affascinante di Edmond Dantès. Un uomo libero e per giunta un vero cattivo, ma esplicito. Finalmente! Oggi sono tutti buoni, da Putin a Obama, e non si capisce chi siano i cattivi…

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Fabio Pozzo su La Stampa, oggi.

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E finalmente, la vede…

Immaginatevi una ragazza, rapita dai pirati, deportata per mezzo Mediterraneo, venduta due o tre volte, comprata da un mercante veneziano, condotta su un’isola solitario e sperduta, lasciata in un castello con qualche uomo di servitù e dama di compagnia. Per sempre. Per tutta la vita, fin dall’età di quindici anni. Visitata due o tre volte l’anno dal suo padrone. unica consolazione: i libri. Le storie che le consentono di conoscere il mondo, di visitarlo almeno con la fantasia, di imparare la vita che a lei era stata negata.

Immaginate che in una tappa del lungo viaggio per giungere su quell’isola un ragazzino l’abbia incontrata, in una lontana città, e abbia scambiato con lei qualche parola prima che ripartisse e scomparisse per sempre, qualche istante di fronte a lei, ma sufficiente a far giurare a quel ragazzino che per tutta la vita navigherà, non fosse altro per recarsi dove vivono donne luminose come lei, che tagliano il fiato nel petto, che danno senso e speranza alla vita insensata e disperata, e dove riuscirà a trovarla, ne è certo, ci volesse la vita intera per farlo. Immaginate che quel ragazzino di lì a poco prenda il mare, diventi un pirata, il peggiore e più invincibile dei pirati, e dopo decenni di ricerche per ogni angolo del mare, finalmente, riesca a ritrovarla.

Ecco quel momento:

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