Li invidio

Albero, tramonto e laguna in Mozambico. Uno dei luoghi…

Tutti gli autori hanno una città. Una soltanto loro. La NY di Allen, la Marsiglia di Izzo, la Istanbul di Pamuk, la Lisbona di Pessoa. Ma non è prerogativa solo dei grandi autori, vale per tantissimi, quasi per tutti, anzi, soprattutto per i “minori”. E non si fermano a una città, spesso hanno perfino un quartiere definito, addirittura una strada di quel quartiere, intorno alla quale ruota la loro vita o comunque giostrano le loro storie. Ognuno di loro ha un bar di riferimento, che dopo morti viene visitato dalle generazioni future di lettori affezionati. Tantissimi hanno fin anche un personaggio, sempre lo stesso, nome e cognome, sintesi e testimone delle loro strade, dei loro quartieri, delle città, delle culture. E hanno un registro per raccontarne le avventure, una voce definita, riconoscibile, che conforta i lettori bramosi di rileggere dieci, cento volte la storia amata, con cui raccontano storie identificative, inconfondibili. Solo pochi scrittori non si identificano con una nazione precisa, con una cultura. Talmente pochi che non me ne viene in mente uno così, all’impronta.

Pensavo tempo fa che io ho solo una lingua, mi esprimo per puro caso in italiano, anche se quando un libro viene tradotto la mia lingua scompare. Per il resto non ho una nazione, la mia patria è solo mare, dove non c’è che cittadinanza di umiltà e rispetto; abitante tra le isole, in quel dovunque mediterraneo delle valli dell’immediato entroterra, delle coste, delle baie in cui di volta in volta mi trovo. E poi non ho registri, la mia sintassi cambia sempre, le parole e le forme con cui racconto storie diverse è sempre un altro, perché ogni storia ha il diritto di scegliersi il proprio narratore. Non ho città, se cammino per una di esse sono un ospite temporaneo. Dunque non ho quartieri, né bar, né strade. Non ho personaggi, nessun cognome ricorrente. Ci ho provato una volta, ma era un po’ come commettere un furto. In alcune delle mie storie il protagonista un nome neppure ce l’ha, in molte non ha neppure un volto, convinto come sono che ci sia solo un uomo al mondo, lo stesso da sempre, al centro di infinite avventure.

Guardo le vie della cittadina, quando mi capita di andarci. Guardo i borghi oltre lo schermo magico del finestrino di un treno in corsa. Guardo nelle cucine accese di notte. Guardo la gente sotto un lampione, o le formiche che siamo visti dal cielo. Cerco d’immaginare ogni volta quale sarebbe il mio luogo, se ne avessi uno soltanto, e mi chiedo perché non ce l’ho. Mi struggo a domandarmi come fanno altri ad averne uno così preciso, come riescono a ignorare quello accanto, quello della via adiacente, del quartiere limitrofo, come non siano ogni volta aggrediti dalla brama di entrare con la penna fin dentro ad altre vite, identiche e nuove, depositarie ognuna di un pezzo di realtà. La nostra. La loro. La mia.

Guardo, e resto un po’ sgomento. Li invidio. Come ho sempre invidiato i collezionisti di francobolli, capaci di concentrare su un quadratino di carta l’interesse intero per il mondo, riparandosi da qualunque altro sconcerto. O chi cresce e muore nel posto dov’è nato, che sa resistere all’irrefrenabile curiosità di sentirsi un altro rinascendo una, due, dieci volte altrove. Mi pare di vederli, ma di non riuscire a sentirli miei simili, inossidabili come sono alla più ancestrale smania di vedersi e sentirsi diversi in altri mondi, come Ulisse, Ibn Battuta, o Giasone, Zeng He, Colombo, Polo, Caboto. Il bisogno ancora identico a quello del primo uomo, dell’ultimo uomo, dell’ultima donna, vestali dell’eterna porta socchiusa, sacerdoti del desiderio latente che un giorno si compie e diventa gesto: la mano, ferma da anni, che si solleva e quella porta spalanca, e tutto diventa solo una partenza. Senza ritorno.

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Parole (e immagini) su un libro

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“Atlante…” su Class

La migliore recensione di un libro? L’anticipazione di una pagina. Per capire il tono, sentire la musica, controllare con quali parole si svolge il racconto. Dunque, verificare se quel testo “ci riguarda“. Mi raccomando, non sprechiamo mai tempo per i libri che non ci parlano. Fossero anche i miei, lasciateli. Troppe belle pagine attendono di essere lette, e temporeggiare, fare deviazioni, non va bene.

Buona lettura.

Su Class di novembre. Cioè ora in edicola.

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Booktrailer (l’Atlante esce oggi…)

Esce oggi in libreria. Il mio “Atlante“.

Per uno scrittore-marinaio scrivere un atlante è un come comporre da soli il proprio breviario, scrivere da sé le preghiere da recitare. Un testo “sacro”…

È bello parlare di cose “sacre”, soprattutto per un ateo. La vita ha una profonda, imperscrutabile sacralità. Qualcosa di essa, un brano molto importante della sua profonda natura, è finito anche qui, in questo volume. Forse mai come in questo libro, che racconta di isole, navigazioni, misteri, leggende, immaginazioni, mi sono occupato di cose sacre. È sempre così quando cerchi di descrivere l’indescrivibile.

Buona lettura.

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Nel proprio

Da “Solo intorno al mondo”, Joshua Slocum, Mursia. Pag.186,

Giornata di grande intensità, studiando il mare, le correnti, i venti e i luoghi d’ormeggio della rotta che mi aspetta a breve, lungo le coste del Libano e di Israele, per l’Egeo e lo ionio, a bordo di Mediterranea, e poi, come ogni giorno da ottobre, lavorando allo splendido libro sulle isole che sto scrivendo per Bompiani, che uscirà a ottobre. Fin dall’alba sentivo che avevo voglia, bisogno direi, di riprendere passi amati di navigazione e di vita. Nei giorni precedenti sono stato rapito da molte cose, e mi ero molto distratto, sentivo il bisogno di rientrare in me e nel mio mondo interiore. Non si può consultare una carta senza ispirazione, del resto. La geografia non è interessante per uno scrittore marinaio, che si occupa solo di Geosofia. Com’era naturale, mi sono trovato dopo poco a rileggere le avventure del primo giro del mondo del Comandante Slocum. Quando cerco di spiegare che i libri di Moitessier sono illeggibili e brutti, e che traggono meraviglia solo dalle avventure e dalla natura dell’uomo straordinario e affascinante che li ha scritti, tutti i “velisti” si indignano. Mai toccare i miti di qualcuno! Ma basta prendere in mano Solo intorno al mondo per capire cosa intendo. Scritto magistralmente, ispirato, pieno di misurato slancio, dignitoso, sempre con l’uomo al centro, perfino rispetto alla sua barca e al mare, con passi memorabili, da sottolineare continuamente.

Tra quelli che amo di più ce n’è uno, nelle pagine finali, di cui posto sopra la foto. E una riga, soprattutto: “È cosa buona trovare la propria strada verso terre già scoperte”. Ieri l’altro avevo scritto (e poi perduto il post) del fatto che non amo i record, le asticelle, ed ecco qui subito uno spunto su quella falsariga, scritto da un uomo che pure fece per primo qualcosa che mai era stato fatto, ma senza alcun senso del primato. Non era per essere il primo a circumnavigare il globo che salpò, mai in una riga fa riferimento a questo, nel suo libro, dove pure sarebbe stato legittimo che vi accennasse. Tant’è che rimane Slocum anche dopo che il suo “record” è stato battuto da mille imprese, di cui però io non ricordo nulla, né nomi né citazioni. Il suo viaggio, come quello del Liberdade, avrebbe potuto essere d’altra natura, o interrompersi alle Chagos, o nello Stretto di Magellano, non sarebbe cambiato nulla per lui, né per noi che leggiamo. Chi non cerca cose inadatte a sé o in modi inadeguati a sé, non è mai inetto. Chi non cerca nuovi continenti, per il gusto di essere il Primo, scopre molto di più.

E poi qualcos’altro, che ha molto a che fare col viaggio di Mediterranea: l’ultima riga del brano nella foto. La dignità di non aver dovuto pagare nessuno, ingraziarsi, chiedere, pregare, solo pensando a portare “a compimento” (non “a termine”) ciò che ci si era prefissi. Degna chiosa a quel “diritto a una propria opinione in faccende riguardanti il mare” di cui scrive nelle prime pagine. Anche noi, non abbiamo sponsor, non chiediamo niente, facciamo la nostra rotta con le nostre vele, e se qualcuno ci ha aiutati nel momento del bisogno ogni giorno ce ne ricordiamo, potevano non farlo, e non erano sovrani o politici, ma gente che ci seguiva. Quelli di cui amo leggere sono gli uomini liberi, ma liberi davvero, anche dai simboli, anche dal desiderio di superare se stessi, che godono di ciò che fanno, nel modo appropriato, con rispetto, potendoselo consentire. Che bell’insegnamento. Quando le giornate iniziano nel proprio, in compagnia delle parole care, degli uomini che compongono il nostro Parnaso esistenziale, studiando, leggendo, scrivendo e sentendo come è giusto che faccia un uomo come me, tutto, allora, diventa possibile. Anche le cose che costano di più.

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Parlarne dove è giusto…

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Non benissimo

(uno, due, tre… voltati)

Nel periodo in cui uscì il mio primo romanzo ero solito attaccare verbalmente l’icona dello scrittore italiano (e non solo) che si presenta sempre disturbato, confuso, incapace di parlare all’indicativo, falsamente timido, schivo. Nei salotti, alle presentazioni o alle interviste, mi presentavo sempre sorridente, dichiaravo tutta la mia presunzione alla vita, imitavo la macchietta ripiegata su se stessa del collega di turno, facevo affermazioni sprezzanti sulla letteratura del nulla, quella del disagio metafisico fine a se stesso e del mondo interiore come luogo esclusivamente infernale. Una nota addetta stampa editoriale, che aveva molto amato il mio romanzo, mi disse un giorno: “Non credo a una parola di quello che dici”. E mi freddò.

Non rinnego una serie di quelle mie tirate anticonformiste (assai esilaranti e tra le cause, insieme al mio individualismo anarchico, di un certo immediato isolamento dagli ambienti letterari), ma non ho mai dimenticato le parole di V, l’addetta stampa. Da allora, ad ogni passo nella vita in cui ho rasentato, o almeno costeggiato, sentimenti come la follia e il nulla, l’inadeguatezza e il nonsenso, ho ricordato quella frase gelida, letale, pronunciata in una notte milanese paradossale in cui ne capitarono di tutti i colori. Lei, va detto, aveva occhi un po’ languidi, adorava la Nothombe e si avvolgeva in modo inconcepibile in grandi scialle color melanzana. Sta di fatto che in due o tre occasioni in cui ho seriamente dubitato dei miei mezzi di reazione e avevo perduto l’orientamento, sono stato sul punto di constatare che aveva ragione.

Dal lato sinistro delle mie convinzioni, ad ogni modo, non mi sono mai spostato sul lato destro delle convinzioni di V.. Ho capito, tuttavia, quel che voleva dire: chi lavora nell’arte, chi disegna, scrive, scolpisce, traccia note su uno spartito, “non sta benissimo”. O finge oppure non è un artista, cioè non si pone le domande che tutti evitano, non ha il coraggio della sofferenza di quell’orrore, non lo percepisce, o non lo sa comunicare, e il risultato è, per dirla con Kafka, che non fa letteratura (che secondo il genio praghese è “una scure con cui squarciamo gli oceani congelati nel nostro intimo”). Il punto (l’ho capito con gli anni) è: come continuare a scrivere “senza finire giù dal burrone”. Ci pensavo oggi, quando una persona, che non deve stare benissimo neanche lei, mi ha inviato un commento non corretto ma molto raffinato (e sfacciato) su Rais: “Bora non esiste, è la proiezione della parte femminile di Dragut, che lui partorisce per non impazzire. E tu, come ti senti?”.

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Quelle buone

Parlare di un libro. Una tautologia, in qualche modo, giacché se l’autore aveva qualcosa da dire, certamente, lo ha scritto, e quel che non ha scritto non serve. Ma questa è teoria. In realtà un autore ha un mucchio di cose da dire sul suo libro, sulla storia, sui personaggi. Ogni romanzo è il primo volume di un’enciclopedia, e forse è per questo che di un autore (almeno uno di quei pochi che non scrivono sempre la stessa storia) bisognerebbe leggere tutto. Ma allora perché non abbia infilato quel che ha da dire direttamente nel volume pubblicato, questo, proprio, non lo so.

Come possano tuttavia venir fuori, quelle gran matasse di pensieri e intuizioni, è cosa misteriosa. Ho fatto presentazioni in cui sono riuscito a dire il cinque per cento di quel che avevo nel cuore, nella pancia, nelle braccia (ieri?), vuoi per la sala, per il ghigno involontario del signore in terza fila, per la voglia di bermi un Margueritas che non poteva attendere, per una parola detta storta la sera precedente, e sentita ancora più storta, perché oggi proprio non mi sento, perché certe cose non me le sentirò mai. E poi, raramente, ne ho fatte di piane, chiare (“sei troppo diretto!”), ruvide quel che basta (“ti ho visto strano!”), sentite quanto lecito (“stavi benissimo ieri sera!”), vere quanto minimo. Ascoltate… mah!

Quella che potete seguire qui sotto è una di queste, venuta abbastanza bene. Ho detto qualcosa, almeno, credo…, sul romanzo che ho scritto, che ho amato tanto, che forse è venuto fuori come si deve, su cui ho patito, e che come spesso accade a uno scrittore… mi ha salvato nei momenti difficili. Chissà. Buona visione.

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Osservanza

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Verso levante, mentre rischiavamo di affondare – 2008

Stamattina ci siamo svegliati presto, era ancora buio. Siamo sgusciati fuori dal letto, da casa, dal palazzo, e per le vie del paese abbiamo guardato intorno con muta osservanza, come si fa col nuovo giorno. I viaggi di questa settimana, i postumi di un’operazione, i racconti, i progetti, erano lì, a qualche metro, ci seguivano come pupi liberi dai fili. Nel caffè, nella musica bassa del bar deserto, nel giornale, abbiamo fatto la prima risata, ci siamo detti le prime parole. Abbiamo letto a voce alta un articolo su Defoe, Robinson, l’uomo che non è un’isola. Pensare alle isole, a una in particolare, è una delle migliori lusinghe di ogni spirito libero.

Poi il giorno è salito, dalla nota fissa di un didgeridoo al jazz della luce e della vita che cresce, e siamo rientrati. Che spreco il tempo vissuto nel flusso generale, che orrenda bestemmia non seguire la natura del sonno e della veglia, che schiavitù mostruosa dover fare invece di sentirsi di fare, scegliere di fare. Reiterazione quotidiana del reato, e poi uno si chiede ragione dell’ergastolo.

Ogni giorno, per tutta la vita, sputiamo oro invece che cibarcene. Dieta malfatta di assenza e follia. Quella rabbia, quel vuoto, quella coscienza crescente di insensatezza e tedio, sappilo, vengono da lì. Cerca di ricordartene.

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Qualcosa di reale

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Che rotta fai? Non lo so…

Che romanzi scrivi?” Quando me lo chiedono vorrei essere lontano… Sarebbe come se io domandassi: “Che vita vivi?” “Ma no dai, intendevo: che genere…?” Ecco, appunto…

Vita dramma, vita comica, vita avventura, vita d’amore, vita tedio, vita obblighi, vita libera, vita studio, vita fuga, vita errore, vita tradimento, vita speranza, vita sogno che non mi posso consentire di sognare, vita che quel giorno speravo mi dicessi quella cosa, vita che non me l’hai mai detta, vita che quando ho capito che dovevo dimenticare ho ricominciato a vivere. Vita buttata, vita errore, vita di cose che non so, vita che mi piacciono solo le cose che già so, e non saprò mai il resto, vita che oggi sto bene ed è bella, vita che oggi sto male e non mi ammazzo solo grazie a te, vita che è andata, vita che ancora ce n’è. Vita che non c’è stata mai. “Che vita vivi? Drammatica? Umoristica? Avventurosa? D’amore? Storico-aneddotica? Poliziesca? Rosa, noir, gastronomica, manualistica, di viaggio, di formazione?”. E io di cosa dovrei scrivere? Guarda che scrivo a te

Ogni volta che per capire chiudo, segmento, recinto, sfoltisco, so già che non servirà a niente. Ogni volta che per ascoltare devo aver già capito, ho una fitta al cuore. Ogni volta che mi chiedono di spiegare sento che non ce la farò: non avrò parole, o ne avrò troppe, e chi ho di fronte non resisterà. (Di che parla il mio romanzo? Allora…). Ogni volta che quella cosa non me la dici, vorrei capire perché. Ogni volta che l’attendo, anche. Quando mi chiedo che tipo sei, mi domando: “che ci faccio qui?”.

Quasi tutto quello che merita attenzione, non può essere definito se non con un lungo giro di parole vane. Io non saprei definirlo, ecco, diciamo così. Ogni cosa che scrivo vorrei non fosse definibile, perché somigliasse a qualcosa di reale. Altrimenti per capirlo dovremmo uscire. Mentre scrivere, come leggere, come vivere, è entrare.

Lei non vede il mondo. È più recluso di me, perché io, schiava, osservo ciò che non sono, mentre lei, libero, vede soltanto se stesso.” (Rais, Frassinelli, 2016)
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