Quelle mani

Esce oggi, in Germania, e in tutti i paesi germanofoni. Lo pubblica Wagenbach, un grande editore.

La mano di una donna di Dusseldorf lo appoggerà su un tavolo bianco, in una cucina che sa di verza stufata resa agra dall’aceto, dandogli appuntamento a presto, speranzosa di ritrovarlo al proprio ritorno dall’ufficio; quella di un trentenne di Colonia che indossa una cravatta alla moda e torna ora da un viaggio d’affari faticoso lo afferrerà per concedersi qualche momento di sogno, seduto su un divano, immaginando se stesso a bordo di una barca a vela nella prossima, lontanissima estate; le dita di un’anziana signora di Brema ne accarezzeranno la copertina senza neppure aprirlo, ancora, e seguiranno la linea del confine tra l’isola di Milos e il mare, che lì è sbiadito ma che lei ricorda benissimo azzurro intenso, in gioventù, colorato dalla sua voglia e dalla memoria di quegli anni; le mani di Klaus, un berlinese di circa cinquant’anni, ne soppeseranno la mole in una luminosa libreria non lontana da Potsdamer Platz, aprendolo, sfogliandolo, cercando di capire se possa essere più affascinante o più pericoloso, leggerlo, dato il momento delicato della sua vita….

Quelle mani, bianche per il poco sole, quelle anime di ragazzi, donne, giovani o anziani tedeschi o austriaci o svizzeri, affascinati dal Sud, dalla parola “Mediterraneo“, dai ricordi e dalle suggestioni di un’appartenenza sempre difficile, sempre controversa e incomprensibile, correranno tra le pagine fino in fondo al libro, o digitando su uno smartphone, alla ricerca dell’autore, a caccia di un dettaglio sull’uomo che le ha scritte. Spereranno, come sempre sperano le mani di un lettore, di individuare un buon motivo per non comprare quel libro, di cui avvertono il rischio, la cui energia potrebbe generare sconquassi, o di una valida ragione per comprare parole di cui hanno già intuito la luce.

Poi, come le mani e le anime di qualunque donna o uomo italiano o di qualunque altro luogo del mondo, con un gesto impulsivo lo porteranno alla cassa, o lo poseranno sullo scaffale dove lo hanno preso. Come chiunque, in quel bivio tra un essere umano e un libro, sceglieranno senza commettere alcun errore.
Avverrà così, per l’ennesima volta, anche a Stoccarda, a Colonia, a Norimberga, o forse a Vienna, a Zurigo… l’antico miracolo mancato o colto del contatto e del riconoscimento: si leggono sempre, soltanto, le storie che abbiamo già scritto dentro di noi. In case così diverse da quelle dove è stato generato, a latitudini distanti decine di gradi da dove la vita lo ha suscitato, un libro troverà spazio su un tavolo, o su un comodino, su un divano o su una mensola, come se lì fosse nato, e verrà dimenticato o letto, riletto, rivenduto, sfogliato da soli o in compagnia, mostrato, occultato, scarabocchiato, sottolineato, portato con sé in un viaggio, o regalato, prestato… Forse, verrà dimenticato, il triste destino di molti libri, magari in una stanza d’albergo, o durante un viaggio. Su un’isola…

Le parole, emerse senza spiegazione nel turbine del sentimento e dell’alchimia di un giorno e di un luogo lontanissimo, e poi circolate ora in un altrove senza limite, in ogni caso, resteranno. Viaggeranno. Produrranno come sempre un istante di vibrazione, un millimetro di spostamento. E tutto, ancora una volta, si sarà compiuto.

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Due mesi

di vani…

Due mesi di grande lavoro, fisico, dunque spirituale. Mi ero ripromesso di scrivere di molte cose, individualmente, ma poi tutto si è aggiunto, tutto ha appassionato. Impossibile dividere.

Ristrutturare, fare lavori per cambiare d’uso, faticare per coibentare, intonacare, dare luce, ha portato via metà del tempo. Rendere un ambiente il più simile possibile a ciò che si è, a come si sente e si vive davvero, è uno sforzo immane sul tema della diversità. Le nostre case stanno lì a raccontarci la nostra schiavitù: somigliano troppo a come viveva gente diversa da noi. Più di metà dei metri quadrati che le compongono sono luoghi dove non stiamo, dove non viviamo, dove non facciamo ciò che amiamo fare, dove non possiamo essere confortevolmente ciò che siamo davvero. Un uomo a cui interessi, ad esempio, cucinare e dormire, cosa se ne fa di un salotto dove ricevere gente? Eppure ce l’ha, anzi, è lo spazio principale, il più grande. Cambiare un luogo perché il nostro corpo, la nostra anima, la nostra mente lo viva pienamente, non è edilizia, non è neppure solo arredamento o architettura: è esplorazione creativa. È autoanalisi. Filosofia.

Come tirare in secca una barca, estrarla a forza dal ponderoso mare in cui è immersa. Azione innaturale, forzatura, eppure atto di compassionevole cura, oasi. Una barca va fatta respirare, di tanto in tanto. Va osservata da vicino, va analizzata senza l’interferenza della risacca, auscultata. Asciugata. Poi inizia il lavoro lungo delle viti, delle resine, dei sigillanti, della carta vetrata, del legno. Staticità e dinamismo, in una vela, sono ipotesi estreme. La sua natura inseparabile dall’uomo che la governa, è l’equilibrio. Solo che l’uomo che se ne prende cura l’equilibrio lo cerca, proprio tramite una barca. Circolo di bisogni e inadeguatezze. Eterno ritorno dei desideri. Il mare renderà tutto appena più assurdo, lasciando i cuori di tutti a metà.

E poi la stanchezza, e alla fine la malattia. Roba di stagione, tutto sommato breve, pochi giorni. Stesi, ci si guarda indietro, si rivede il film. Le mani hanno una patina d’insensibilità, segno che hanno lavorato. In testa tante scemenze non ci sono più, lavoro fisico (e ascesi del lavoro) hanno pulito gran parte della superficie profonda. Tante remore cadono, e immediatamente si vede. Quanto tempo è stato gettato via senza questa metodologia essenziale del lavoro sugli spazi, sugli equilibri? Quanti anni non sono stati igienizzati dal briciolo di consapevolezza di sé che prelude all’isolamento, alla solitudine compresa, accettata?

Due mesi. Volati via per bene pieni di senso. Domani esco, l’influenza è passata. Sempre così.

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Un’Altra Vita (reloaded)

Una delle scene del programma

Quando il tempo passa, le cose di solito invecchiano. Una foto che ci piaceva tanto, un video di cui eravamo fieri, a volte perfino un romanzo scritto con orgoglio, li rivedi, li rileggi, e li trovi datati, stanchi, non più così brillanti come ti erano rimasti in mente. A volte dispiace, ma è un bene. Vuol dire che siamo andati avanti, che il mondo è cambiato, si è evoluto.

Qualche giorno fa ho rivisto tutte le puntate di Un’Altra Vita, il programma che ho scritto con Nicola Alvau e condotto su Rai5 nel 2012, 6 anni fa. Anna Maria Fiore, un’ascoltatrice di quel programma, le aveva registrate e le ha caricate su Youtube. Finalmente! Una gioia immensa per me, visto che la Rai le aveva inopinatamente tolte dal sito e non se ne trovava più una copia. Già un amico me le aveva date, su cd, ma solo 5 su 6. Ora ci sono nuovamente tutte, anche qui sul sito.

Con mia enorme sorpresa, quel programma non è affatto invecchiato. Anzi, sembra realizzato oggi. I temi, l’approccio, i riferimenti, sono ancora freschi, attuali, validissimi. Parlavo in ogni puntata di un aspetto connesso al cambiamento di vita. Gli stessi di cui parlerei oggi se mi interpellassero sul tema: sogno, coraggio, paura, solitudine, manualità, denaro. Anche le possibili reazioni di fronte a questi argomenti, direi, sono le stesse. Purtroppo

La sempiterna “validità” di un contributo culturale, che potrebbe inorgoglire erroneamente l’autore, temo tuttavia che non sia una buona notizia. Il fatto è che siamo ancora (e sempre più) messi così…

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“Atlante…” su Rai1

I miei viaggi e le mie isole del Mediterraneo ieri su Rai 1.

Dal minuto 5′.29″

http://www.raiplay.it/video/2017/12/Il-caffe-di-Raiuno-bbb5fb56-3e99-4346-ba98-54d6e2d7614e.html

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Domani

“Sono placide le ore che noi perdiamo se nel perderle, come in un vaso, mettiamo fiori”. J. Saramago.

Due parole su quest’anno. Anzi, una: intenso. Vissuto con impegno. Errori grossi, nessuno. Piccoli, boh mi pare nessuno, diciamo pochi. Concentrato, presente. Anno usato, questo, consumato. Anno in cui non ho nulla da rimpiangere. Forse un viaggio che volevo fare…, ma sono dovuto stare ad assistere un malato. Poca roba. Un anno di movimento, un anno anche fermo, un anno di qualche buona idea, un anno di cui ricordo anche molti momenti di relax. Un anno d’amore, di amicizia. Col pensiero ho visto galassie. Col cuore universi. Un anno, soprattutto, di parole. Ho fatto 20 presentazioni, ho tenuto il conto, poco meno di 1000 persone. Ho parlato di due libri importanti per me, Rais e Atlante. Quest’ultimo l’ho lavorato ogni giorno, per tutto l’anno, per finirlo, spero che si apprezzi. Stato anche un po’ più in famiglia, cosa che mi ero prefissato. E navigato abbastanza, a bordo 120 giorni, fatte tante miglia. Che navigare sia il posto, la condizione, dove sto più tempo continuativamente, ormai da anni, mi fa sempre molto piacere.

Alcuni problemi, naturalmente. Capire gli altri, immaginare il loro stato d’animo quando mi veniva da reagire. Resistere alla tentazione di mandare a quel paese cose, fatti, persone. Felice di averlo tentato, perché questo è il braccio destro del tennista mancino, quello su cui lavorare. Non ho raggiunto uno degli obiettivi che mi ero prefissato, ma lì non ci ho potuto fare niente. Mi rifarò quest’anno.

Per tutto l’anno ho tenuto d’occhio la morte. E sua sorellastra, il tempo. Ci hanno provato sempre, con me, credo con tutti, è il loro mestiere. Il mio era tenerle a mente, a bada, alla corda, entrambe. Guardia-alta-perdendo-guardia non è facile, ma si può fare. Meno male non ho dovuto buttare ore, giorni, mesi a fare cose non mie, lavori inutili, riunioni che avrebbero fatto gridare vendetta alla mia vita. Un anno intero senza fare cose insensate, almeno in gran parte, è un anno vinto alla storia. La mia.

Ora viene il futuro. Eccolo. Si avvicina. Ma viene tutti i giorni. Per me è sempre l’ultimo dell’anno. Domani, come ogni giorno, sarà il Primo, dunque non ho alcun timore. Quando fai una cosa ogni giorno diventi un professionista. Questo, dunque, non è un giorno speciale, è un giorno come tutti, da attendere carichi di meraviglia, da temere, da progettare, in cui reagire a ciò che sfugge a qualsiasi progetto, da assecondare ma senza lasciare mai il timone, da succhiare, in cui perdersi eternamente in ciò che non saprò mai capire. Un giorno in cui tenere il più lontano possibile una serie di uomini e donne, soprattutto quelli che non sanno di sé, che si ostinano a non guardarsi, e ritengono per questo di potersi presentare a me come se fosse normale, come se io dovessi accettare di loro quello che loro non sanno o non accettano di sé. Non lo farò, ferocemente, come e più di sempre. Ma anche un giorno in cui tenermi stretti uomini e donne per cui provo rispetto, stima e la dolce meritevole compassione perché vedo che hanno ritegno di ciò che ignorano di sé, dunque si accingono a ogni cosa con una consapevolezza dignitosa. Farò di più per loro, e con loro. Ma sempre nell’igiene delle relazioni, lavandomi sempre le mani della mia mediocrità, prima e dopo.

Un giorno quindi in cui tentare ancora e ancora. Senza indugio (tempo), senza remore (paura), senza certezze (coraggio), senza finta pietà (ipocrisia), senza raccontarmela (menzogna), senza perdermi le cose che so io (essenza!), e senza pensare di sapere troppo come si fa (dubbio), ma dando retta con caparbietà a quello che so per certo che è così (fiducia). Un giorno di cui ho già la voglia matta di scrivere, infatti, sotto le mentite spoglie del racconto. L’unico vero.

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Isole tempo e pensiero

Isole vere, tempo dilatato, pensieri vostri. Questo posso augurarvi.

Cioè di restare degli esseri umani. E vento buono per navigare.

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Il disorientamento dell’indefinibile

L’indistinto, ciò che non ha un nome, disorienta. Poter definire tutto, metterlo in una casella, o pretendere che dica e faccia ciò che noi abbiamo bisogno di sentire e vedere, fa da appiglio. Possiamo afferrarlo, reggerci per non cadere. Ma quasi tutto ciò che non ha un nome, o non lo ha ancora (o noi, almeno, non lo conosciamo), è “la prossima opportunità”, quello che può aggiungere, e forse farci superare il confine. Una definizione, una formula, è preziosa proprio per questo. Ma è anche terribilmente selettiva, giacché definendo, delimitando, lascia fuori un mondo di cose, che vengono escluse da quel recinto.

Mi è capitato spesso di notare che mentre tutti guardavano dentro il recinto, io ero rivolto allo spazio infinito fuori da esso. Mi pareva che l’interessante, l’affascinante, fosse rimasto in quella smisurata prateria, nell’universo fuori. La stessa immagine chiudere il recinto dopo se sono scappati i buoi, che dovrebbe evocare disagio, forse rimorso, certamente pentimento, a me è sempre parsa benefica, liberatoria, forse perché solidarizzavo con i buoi.

Di certo, se è corretto non lasciare tutto nel vago e interessarsi periodicamente alla catalogazione, all’ordine, alla definizione, perché senza una linea una carta è un deserto di disperazione… al tempo stesso starei attento a rifiutare ciò che non conosciamo o non sapremmo come definire. Spesso, è proprio lì che c’è una possibilità di sentire. È lì che alberga il senso, quello che cerchiamo e che sfugge, da sempre, a ogni nostro sforzo d’interpretazione.

Su questo argomento ho scritto un racconto, che fa parte di “Atlante delle isole del Mediterraneo”, perché il mio mondo marino, delle isole, quello che così ardentemente sto cercando, è pieno di cose belle ma invisibili, essenziali ma che non è facile circoscrivere. E qui lo leggo per voi. Prendetevi qualche minuto, in silenzio, senza fare altro, e ascoltate. Poi, se volete, ditemi cosa vi suscita. Buon ascolto.

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Il senso del Mediterraneo per il viaggio

Cosa ci andiamo a fare? Perché lì e non altrove? E perché non andiamo a rintracciare, a censire, i pezzi di noi sparsi nel nostro mondo, quello che li contiene perché ci riguarda?

Abbiamo bisogno del nostro altrove, evadendo dal nostro “qui” alienato perché estraneo. Anche per questo ho scritto “Atlante delle isole del Mediterraneo” (Bompiani). Per rintracciare il mio altrove, e lì ritrovare me.

Se regalate a qualcuno questo libro, per Natale, allegate in una pennetta anche questo video. Il mio personale biglietto d’auguri per lui (o lei…).

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L’ho vista fragile

Molte linee, pochi lineamenti

Vado via un po’ pensieroso da Milano. Due belle presentazioni, tanta gente, tanto calore intorno a me. Le pagine, gli anni, l’impegno, la voglia messa nell’esserci sempre verso i lettori, pare che stiano manifestandosi ora tutte insieme, a Milano e altrove. Ma la città l’ho vista fragile.

Milano la conosco bene. Prima la vedevo da Roma, andandoci due volte a settimana per lavoro. Poi vivendoci, per quasi dieci anni. Poi tornandoci spesso, anche senza più viverci e lavorarci. Conosco i suoi occhi sbarrati, la sua ansia latente. Conosco la sua logorrea sospetta, e le sue paure. Eppure, allontanandomi, con maggior distacco, avevo immaginato un equilibrio nuovo, quella venatura di saggezza che resta sempre dopo un ridimensionamento, sul fondo del barile di una crisi

Invece no. Nelle mie incursioni milanesi (toccata e fuga senza mai perdere l’occhio della strada) ho visto tanta paura, qualcosa di tangibile ormai. La vedi dovunque, nei discorsi sulla minaccia, sui diversi, sui mendicanti. La vedi sul peso sempre crescente che hanno i soldi in questa città: la storiella che servono, che bisogna farne ancora, che bisogna fare di tutto per garantirseli. La litania, invece che indebolirsi, si è rafforzata. Milano è tutta un simulacro del denaro, totem sparsi dovunque. Il consumo è la mano di Dio capace di gesti magnetici, abili a far voltare tutti dalla sua parte. La fine della crisi ha liberato i cani, che attraversano le vie bavosi e latranti, in cerca di qualcosa da divorare. Chiunque non sia rapido a togliersi dalla traiettoria rischia di essere travolto.

Ma non si tratta soltanto di questo. Tanto tremore, tanta inquietudine. La vedo serpeggiare, passare come un’ombra su tanti visi ilari, incapaci di mentire. Speravo di trovarla cresciuta, Milano, più serena, più quieta all’indomani di un decennio aspro. E invece mi pare che abbia dato ascolto agli imbonitori, alla cultura degli ottimisti col passo svelto, i violenti della comunicazione, senza opporre alla loro certezza alcuna alternativa vera, nessuna nuova scuola. Così si finisce preda di un unico pensiero, che ha una sola rotta, sempre la stessa, e una meta tragica, sempre fatale.

Città attiva, ora Milano è diventata ipercinetica. Tanto veloce che si riesce a vedere solo linee, senza lineamenti. Lupa con cento cuccioli e troppe mammelle, Milano sembra moltiplicare ciò che addizionava. Valanghe di microscopiche attività, quasi sempre istantanee, già morte al vernissage, velleitarie, tutte incalzate dal tempo, una dietro l’altra, tutte scritte bene e fatte male, non vere, vuote. Tutto di corsa, “poi vi raggiungo!”, ci vediamo dopo l’evento, dopo l’altro evento, prima dell’ultimo evento.

Caviglie sottili, Milano, come i purosangue costretti a correre un palio nato per i cavalli da lavoro. Non puoi metterci peso su quelle zampette, sono già in bilico tra sostanze che eccitano e rilassano, e il saldo zero è una chimera. Manca il silenzio, manca l’assenza, manca il vuoto di quando sbatti via tutto da una stanza, manca stare zitti, manca avere tempo, manca la libertà, quella di quando ti dimentichi.

Sono legato a Milano. Tanto. Le devo molto. Anche lei mi deve qualcosa. Mi dispiace tanto vederla così. E sentire anche ripetere da tutti, troppi, il mantra della città che sale, che è migliorata, sta crescendo. Tutti ne decantano le lodi, i nuovi quartieri, l’eredità delle Expo, ma a me questa visione non convince. Io la vedo come certe donne, che con l’età diventano più belle, affascinanti, ma sempre più tristi e sole. O come tanti uomini, che da giovani sono così atletici, prestanti, fanno un gran rumore per nascondere il terrore in fondo agli occhi. Poi un giorno non ci riescono più.

Così facendo, ancora avanti in questa direzione, Milano rischia molto. È la capitale tossicomane del regno, distribuisce pillole gratis per la strada. Le sue signorine creative (quelle che toccano gli oggetti col viso reclinato, come stessero pensando) e i loro cavalieri senza sella, stanno marciando dritti per la galera dell’emozione, il sanatorio della speranza. Là dove nulla basterà.

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Parole (e immagini) su un libro

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