Osservanza

f115680946

Verso levante, mentre rischiavamo di affondare – 2008

Stamattina ci siamo svegliati presto, era ancora buio. Siamo sgusciati fuori dal letto, da casa, dal palazzo, e per le vie del paese abbiamo guardato intorno con muta osservanza, come si fa col nuovo giorno. I viaggi di questa settimana, i postumi di un’operazione, i racconti, i progetti, erano lì, a qualche metro, ci seguivano come pupi liberi dai fili. Nel caffè, nella musica bassa del bar deserto, nel giornale, abbiamo fatto la prima risata, ci siamo detti le prime parole. Abbiamo letto a voce alta un articolo su Defoe, Robinson, l’uomo che non è un’isola. Pensare alle isole, a una in particolare, è una delle migliori lusinghe di ogni spirito libero.

Poi il giorno è salito, dalla nota fissa di un didgeridoo al jazz della luce e della vita che cresce, e siamo rientrati. Che spreco il tempo vissuto nel flusso generale, che orrenda bestemmia non seguire la natura del sonno e della veglia, che schiavitù mostruosa dover fare invece di sentirsi di fare, scegliere di fare. Reiterazione quotidiana del reato, e poi uno si chiede ragione dell’ergastolo.

Ogni giorno, per tutta la vita, sputiamo oro invece che cibarcene. Dieta malfatta di assenza e follia. Quella rabbia, quel vuoto, quella coscienza crescente di insensatezza e tedio, sappilo, vengono da lì. Cerca di ricordartene.

Share Button

Giorni così

img_20161030_130944_edit

Una delle cose che mi aiuta a generare energia, ad esempio, è il Barbaresco

Stamattina mi sono svegliato con una serie di frasi dette dalla propria voce di Dragut nelle orecchie. Parole forti, come noci che si rompono, legna che si spacca. E mi è venuta su un’energia antica, gli occhi della tigre. In due ore ho avuto due buone idee, lanciato messaggi, fatto proposte, chiesto informazioni. Ho fatto sgommare la mia vita, le ruote hanno fatto fumo, hanno cantato, poi un balzo in avanti. Quando lavoravo erano i giorni in cui i miei collaboratori volevano nascondersi sotto la scrivania. Pensavo poco fa che siamo come il nucleare: energia, oppure bomba. Dipende chi è che la usa.

La cosa più eccitante, al mattino, è leggere quello che ho scritto. Trovarci dentro quello che so, quello che volevo da sempre trovare in un libro. Poi smetterà di essere così, avrò bisogno di altre pagine, e allora dovrò scriverle. Ma ora, ancora, Rais è il mio libro, mio come lettore intendo. E al mattino quelle parole che scoppiano, le schegge che vanno dovunque, ti trafiggono il cuore, scatenano un boato dentro. Le ho scelte a una una perché generassero questo, e ora mi godo la detonazione.

Un’amica a cui dico che ho deciso due o tre cose e che oggi sto così mi risponde: “Bravo… che la vita scorre”. I giorni come oggi mi dicono un mucchio di cose. Su di me, su quanto ci vuole per arrivare a essere in movimento, su quanto chi sta fermo dovrebbe evitare di parlare del mondo, della vita: “Prima ti muovi tu, paghi il prezzo, consumi energia, costruisci, generi cose che non c’erano, imposti progetti, mondi! e poi apri bocca“. Pensiero, idee, progetto, azione, una concatenazione difficile da mettere in fila, ma che quando c’è accende i razzi del destino. Mi ricordo: il mio destino l’ho sempre fatto in giorni così. E per onestà, dato che me ne ricordo, non mi lamento mai degli altri, della sfortuna, di niente. Solo di me. Perché la vita la fanno questi giorni, e anche quelli prima, quelli senza detonazione.

Io so da dove viene questa energia, ci ho studiato tanto su questo. E se mai si dovesse sostenere che qualcosa della vita l’ho capito, è proprio questo: l’energia, cos’è, quanta ne serve, da dove viene, come generarla, a che costo, con quale efficienza tra combustibile e risultato finale. Attenzione perché è lì il punto, il resto consegue. La benzina del motore-vita. L’energia. Voi… da dove viene, come generarla, quanta ve ne serve… lo sapete? Pensateci, è essenziale.

Share Button

Già tre

img_20160818_191515

I fagiolini sott’olio, buonissimi, li avevo già fatti.

Sabato mattina, ore 8.00 e la giornata è già cambiata tre volte. Alle 6.00 mi sono svegliato, il fuso orario della scrittura ci vorrà qualche mese per perderlo, ma dato che voglio subito ricominciare a scrivere, meglio così. Caffè e biglietto del treno per Genova. Un amico ha appena preso una barca, è in difficoltà e ieri sera mi ha chiesto di aiutarlo. Una cosa molto “Amaro Averna”. Voglia di prendere, partire, zero, ma come si fa a dire di no a un amico+barca. Così gli porto anche una copia di Rais, lui fa il giornalista e mi ha chiesto di mandarglielo.

Poco dopo, alla macchina, vedo che non si accende. Batteria giù. La metto in carica, ma so già che non avrò tempo a sufficienza. Torno indietro, altro caffè, la mattina io ne prendo due ravvicinati, intanto scrivo al mio amico: “mi sa che ritardo“. Guardo il giardino, dopo la buriana è tutto quieto, il trifoglio sale fitto, imperlato di umidità notturna, le melanzane crescono, i pomodori continuano a gettare. Intanto si fa chiaro. Dopo un po’ riprovo, niente, la macchina non ne vuole sapere, allora rientro, scrivo al mio amico, e dopo poco mi trovo in cucina, nel primo chiarore, a finire il lavoro delle melanzane sott’olio. Ieri le ho messe a scolare a pressione, col sale, ora le taglio a striscioline, le faccio bollire quattro minuti in vino e aceto, le scolo, le asciugo, le condisco, le metto sott’olio in barattolo. E’ bello cucinare col maglione, in una giornata immobile, alle sette di mattina, facendo conserve delle tue melanzane, cresciute nel tuo orto, pensando a un amico in difficoltà con la barca, sperando di poterlo raggiungere e aiutare.

Ma tutto come se fosse fungibile, con calma, nessuna “necessità”. La giornata andrà come andrà, io la dedurrò osservandola. Alle 8.00 questo giorno è già un racconto: io lo sto vivendo da due ore, due ore che non torneranno, e la giornata è già cambiata tre volte. Cambierà ancora. Ed è bello, perché cambia tra cose che hanno un senso. Il fatto che sia sabato, che sia il 15 ottobre, ad esempio, è cosa che non ha alcun peso.

Share Button

Ritorno (e un’avvertenza)

img_20161013_202824_panorama

Rais a casa

Rais è giunto dov’è stato concepito. Poi è diventato adulto altrove. Ma qui è nato, casa costruita da un pirata senese alla fine del ‘600, poi fienile, poi…. Era giusto che vedesse da dove proviene, anche se cento baie l’hanno generato, fecondate dalla mente e da una prua.

Stamattina ho recuperato la legna. Ricordo ogni singolo taglio, e la fatica che mi è costata. In attesa della botta di vento e pioggia, che oggi si chiama “l’allerta”, mi barrico dentro, accendo il fuoco, preparo legumi per la cena, imposto un piatto su cui sto sperimentando. E scrivo. Oggi un giornalista mi ha chiesto come passassi il tempo dopo aver finito Rais. “Scrivo”. “Ma cosa scrivi ancora?”. Scrivo sempre. Scrivere è come drogarsi, puoi iniziare, non puoi smettere. Solo che scrivere salva.

Stamattina ho letto due ore Rais, dopo il caffè. Se i libri avessero un peso specifico, lui sarebbe di bronzo. Volevo scrivere un’introduzione, un’avvertenza per i lettori: “leggetelo piano, due pagine al giorno per 250 giorni, ma sempre, senza fermarvi; leggetelo la mattina, mai la sera”. Le cose migliori sono chili su decimetro cubo, vanno fatte ogni giorno, e vanno fatte lentamente. Il cibo, il sesso, viaggiare, leggere, sognare. Ah, se avessi scritto un’introduzione così…! Chi li sentiva!

Giornate scure, nuvole incombenti, pioggia, vento. Essere là fuori, nel vortice, la gente, la gente…, il rumore, non credo potrei farcela più a sopravvivere. Due giorni a Milano mi hanno logorato. Ho amato tanto quella città. L’amava un uomo che in gran parte non sono più, quello della mia terza vita. Ora giocherello con un’isola, davanti al camino, tra le dita della mente, mentre penso e guardo il fuoco. Quando sogno penso e progetto mi diverto sempre a salvare una frase, mi servirà per ricordare. Quella che ho a mente è “Tra qui e lì”. C’è un piano, in queste quattro parole.

Share Button

Coincidenze…

14705635_565083363689013_3288026137721219319_n

Tra poche ore per me… tra pochi giorni per voi.

In treno. Tre ore e avrò tra le mani “l’oggetto Rais”. Un romanzo esiste da anni, concreto più di un mattone, di un palazzo. Potresti toccarlo, anche se non c’è, non ha alcuna dimensione fisica. Fino a un certo giorno, in cui tutto diventa una “cosa” di carta, cartoncino, inchiostro, dotata di volume, peso. Curioso che sia oggi: l’anniversario.

524 anni fa, oggi, Lui scorgeva una piccola luce: “como una candelilla che se levava y se adelantaba”. Fu il solo a vederla, verso le due di notte, e gli equipaggi pensarono che fosse impazzito. Navigavano da settimane, mesi se si considera la partenza da Palos. Eppure aveva ragione. Poco prima dell’alba il profilo azzurrino di un’isola illuminata dalla luna fece la sua magica apparizione di fronte a tutti.

Sapeva bene tutto, Lui. Che non si trattasse delle Indie dove era arrivato Marco Polo via terra, ad esempio, e perfino come erano fatte quelle terre. Come faceva a sapere? Sapeva bene tutto anche Piri Rais, che dopo qualche anno disegnò il mondo senza muoversi da Gelibolu, nei Dardanelli. Sapeva molto anche Andrea Doria, nonostante ufficialmente non fosse a conoscenza di niente. L’unico che non sapeva era Dragut Rais, condannato a subire, come tutti gli appestati del cuore, nonostante fosse l’unico che tutti dovevano subire. Cercò di comprendere la vita e di salvarsi, nel modo peggiore, come facciamo noi ancora oggi: incendiando il mondo, distruggendo i ponti, squarciando le vene e le menti. Forse l’unica a capire ogni cosa, per paradosso, è Lei, una schiava col nome di un vento, reclusa su un’isola, l’unico essere della storia capace di intuire

Sorrido mentre tutti questi personaggi mi aleggiano intorno… Fuori dal finestrino sfreccia la Toscana dei Medici. Ho sorriso anche ieri, di fronte alla tv, perché ho visto che sta per partire un serial sulla grande famiglia, negli anni in cui nasce il mio protagonista. E anche poco fa, quando sul giornale ho letto che Ildefonso Falcones, scrittore di bestseller, è appena uscito con un romanzo ambientato ai tempi di Dragut, dove un ragazzo tenta di emergere attraverso le rigide divisioni tra classi nell’occidente di fine ‘400. Proprio la storia del piccolo Dragut, appunto. Sorrido. Oggi, 12 ottobre, mentre io vedrò la mia, Colombo vedeva la sua meta

14670643_565467876983895_1825642195320080616_n

Da un articolo di Ferrari. Grazie Antonio per questa lusinghiera definizione…

Share Button

Chi può far tremare il Rais!? Un portone…

Share Button

Dove siete?

cropped-banner-per-sito-4.jpg

Vedere la poppa…

Come il primo giorno di vacanza, dopo la scuola, come il primo giorno dopo gli esami, alla maturità o all’università, come il primo giorno dopo l’ultimo di lavoro, quella prima estate, come il giorno dopo la fine del militare, come il giorno dopo il bachelor, come il primo giorno delle ferie d’inverno, come il giorno dopo quel matrimonio sbagliato, ma grazie al quale ho capito cosa non sono, come il giorno dopo essere entrato al Fienile dell’anima, che mi pareva d’aver finito e non avevo neanche ancora cominciato, come il giorno dopo aver detto quella cosa che avevo qui, come il giorno dopo essere salpato per la prima volta da solo, io e il mare, e tutto il mondo fuori.

Visto-si-stampi, come fosse una sola parola lunga, così si chiama quello che è successo ieri a Segrate. Me lo hanno strappato dalle mani, io che imploravo ancora ventiquattr’ore, ma non c’erano: “Salta tutto Simone…”, o ieri o niente, e allora è andato. Nove anni, mentre pensavo studiavo e scrivevo anche altro, ma un pezzo di me sempre lì, a provare a figurarmi il suo viso, la sua testa, da dove venisse la sua assurda cattiveria. E gli altri, immaginare per anni anche loro, dalla spia a Colombo, fino all’ultima nata, che poi ha preso in mano tutto, come fanno le donne quando c’è confusione: Bora. E poi fitto fitto per un anno intero, ogni mattina, ogni mattina alle 6.00, come si fa ogni cosa buona, con l’intensità dello sportivo, la ripetizione assidua e fedele del monaco, l’operosità intenta dell’artigiano, sette giorni su sette, a volte otto, due turni, anche il pomeriggio, fino a ieri. Non si può spiegare…

Dov’è l’amicizia tradita, dov’è l’amore, dov’è il nemico, dov’è il segreto, dov’è il mistero, dunque com’è andata? Dove se n’è andato Dragut, la sua galera ieri ha intuito bene il vento, mi ha preso dieci miglia, poi venti, poi il largo, guidone bianco e azzurro con la mezzaluna gialla al centro che volava alto, fino a che non s’è fatto punto, poi idea, poi ricordo, poi nulla; dove se n’è andato Keithab, dov’è Arslan, dov’è Khaled Imari, dov’è Bora, di cui non si trova più neppure la tomba nel paese dove nessuno si ricorda di lei; dov’è Ariadeno, Kahir al-Din, dov’è Occhialì, dove sono Andrea, il geniale Cristoforo, Carlo, dov’è La Vallette, dov’è il cipriota con le spalle larghe che le ha prese di santa ragione, dov’è lo Zoppo… Erano qui, talmente accanto da essere dentro, per mesi, anni, e ora… Dove sono andate le migliaia, centinaia di migliaia di marinai senza nome con cui ho navigato anni, dove sono andate le loro isole sicure, la loro brama di ritorno, dov’è finito Piri Rais, dove sono ora i teschi della “Torre dei crani”, teste anonime decollate sulla spiaggia di Gerba, una catasta alta dieci piedi, con una circonferenza di centodieci, visibile dal mare, che rimase su quella spiaggia dal 1546 alla metà dell’800. Tutti viaTutti salpati per proseguire un viaggio che senza di me non avrebbero mai intrapreso. Irriconoscenti, dimentichi, insensibili come tutti i figli. Dove sono andato io…, disperso nei loro lineamenti, nelle palpitazioni asincrone dei loro cuori tamburi sotto la pioggia grossa che sa di sale. Dove siete adesso? E dove sono io, ora…?

Share Button

C’era

Non c’è. Il tempo, dico. Un maestro mi disse: “non è né tanto né poco, il tempo, è quello che è. Solo che poi finisce”. Fossati dice tutto il contrario, salvo poi, nel finale, ammettere che: “c’era un tempo sognato che bisognava sognare“. Lo abbiamo fatto? E cosa sognavamo? Io ho sempre odiato l’imperfetto, tempo, appunto, sbagliato. Però per onestà la domanda facciamocela.

Il tempo… ho passato un mucchio di tempo a pensarci. E ha ragione un mio amico, forse, che mi invita a spostare a quando sarò vecchio tutte le cose fattibili anche in là con gli anni. Alcune cose poi non si possono più fare. E uno dice: “I cinquant’anni ti portano a questi pensieri, eh!?”. Mi spiace deluderlo: penso a questo da quando avevo quattordici anni. Chiusi “Così parlò Zarathustra” e iniziai a farlo. Forse anche da prima, così mi pare almeno. Certo, non mi sono più fermato.

Il remoto è così in là che neanche si ricorda; l’imperfetto è sbagliato già dal nome; il futuro, etimologicamente, è quel che “sta per essere”; il presente, oltre che verbo, è un dono. Un regalo che ti sta davanti in quel momento. Immagine assai evocativa. I tempi. Che tipi… Tutta roba che inizia e finisce. Hanno inventato il congiuntivo e il condizionale, i modi dell’ipotesi, proprio per mescolare un po’ le carte.

C’è tempo, dice Fossati. Dunque ora, qui, come fu allora lì. Un tempo per tutto. Per seminare, sognare. Ci penso da due giorni. Giorni che, in questi due giorni, sono stati progressivamente: futuro, presente, e ora sono passati. Non invano. “Spero”: sperare coniugato al… presente. Quando la volontà e l’ottimismo fanno del passato, un regalo.

Share Button

Tutte

Io non ho paura di morire. Ho paura di non vivere abbastanza

Basterebbe questa citazione di Mr. Nobody, di Jaco van Dormel, per far alzare chiunque e farlo correre a vedere questo film del 2009. Ma c’è molto, molto altro, di cui non vi dirò nulla. Semplicemente perché l’unico modo per parlarne era scrivere e girare questo film. Raccontarlo è impossibile.

Film che considero tra i tre migliori degli ultimi dieci anni e tra i cinque o al massimo sette migliori di sempre. Lo giudico così per cento motivi, tra cui due: il primo è che mette in film, mi fa vedere, il modo in cui io penso/sento/ragiono/percepisco/ricordo/immagino. Non le cose, ma il modo. E questo mi ha lasciato di sasso. Il secondo è che colpisce come un Guglielmo Tell dell’interpretazione esistenziale il centro esatto del tabellone della vita. E già il merito di porsi come obiettivo di estrarne il senso, investigarne il significato (della vita…) gli varrebbe il Nobel per l’ambizione, l’Oscar per il coraggio, il Pulitzer dell’incoscienza. Dunque, puro neo-neorealismo.

“Non si può tornare indietro, ecco perché è difficile scegliere“. Ma chi ascolta i racconti del vecchio (metafora di noi spettatori del film come della vita) non capisce. “E’ tutto una contraddizione! Di tutte queste vite qual è quella vera?!“. Ecco… Tutte. E se questo spaventa, se viene preso per fantasticheria, se viene rifiutato per presunta concretezza (puàh! che schifo…) mi spiace, non capirlo, non accettarlo, non renderà la vita meno di così. Suonare sei ottave sotto, come ci sforziamo sempre di fare, non cambia la melodia. La abbassa solo al livello della sporca, lurida, mefitica strada.

Film geniale, perfettamente a metà strada tra Truman Show e Big Fish, tra Benjamin Button e lo Zoo di Venere, tra Total Recall e Matrix, e un altro splendido visto venticinque anni fa che non mi riesco a ricordare. Viaggio al centro della vita, nella sua vera essenza, non quella brodaglia precotta che chiamiamo impudicamente realtà. Con un finale straordinario. Chissà che non sia così. Dio come lo spero…

Share Button

Se fosse vero

IMG_20160817_141553

Bisogna accompagnare questa riflessione, necessariamente, con qualcosa di buono, altrimenti è troppo dura, troppo aspra, perché è inclementemente vera. Se cliccate sulla foto trovate anche la ricetta.

Tutte le volte che diciamo “non posso”, tutte le volte che diciamo “io sono fatto così”, tutte le volte che diciamo “lui”, cioè tutte le volte che non diciamo “IO”, tutte le volte che vediamo fuori distogliendo gli occhi da dentro, tutte le volte che vinciamo, che pensiamo di essere a posto, tutte le volte che alla via complessa di vivisezionare quello che abbiamo fatto, pensato, detto, preferiamo la via del giudizio di quello che è stato fatto, pensato, detto da altri, tutte le volte che non capiamo che ciò che ci infastidisce ci sta mostrando i cantieri da aprire, tutte le volte che per una cosa che “io” mandiamo a puttane una cosa che “noi”, tutte le volte che restiamo soli, seduti per terra, piangenti, in un deserto di ragioni sacrosante, di “rifarei tutto se tornassi indietro”, di “io ho la coscienza a posto”, di “se però lui avesse fatto, detto, ascoltato, capito”, ogni volta che ci avviciniamo al lago dei nostri diritti, ci immergiamo nella contezza di “come si fa” e anneghiamo nei “sono tutti stronzi”, e soprattutto quando ci accorgiamo che con le nostre ragioni, i nostri ottimi motivi, le nostre abitudini, abbiamo fatto il vuoto, detestabili proprio perché consequenziali, coerenti, immutabili, e ancor di più ogni volta che non capiamo che la ragione di oggi è la premessa della sconfitta di domani, solo che oggi era un ostacolo superabile, domani sarà ineluttabile, e ci arriveremo certamente dalla parte opposta del torto, perché la somma di tante piccole buone ragioni dell’IO partorisce il ciclopico muro tra NOI, e ogni volta che i nostri limiti mettono un mattone a quello sbarramento, le nostre doti migliori allungano una mano per toglierlo, se solo glielo lasciamo fare, e se quel muro sale mostra a tutti (tranne che a noi!) l’evidenza che a guidarci sono i nostri bisogni, e non, come dicevamo, tutte quelle buone intenzioni, perché ciò che ci distrugge è proprio la giustizia solitaria, che poi sono le buone intenzioni mai diventate buona azione, ostacolate sempre dall’altro, e ci mancherebbe!, l’altro che è sempre cattivo, limitato, è sempre parziale, scappa, fugge, e quindi deve essere proprio uno stronzo, a meno che non ci rendessimo conto che poteva restare, che potevamo farlo restare, che uno resta se sta bene, di solito, anche lui, se solo avessimo ascoltato, se solo avessimo capito, se solo avessimo smesso, per una volta, di seguire il copione da dentro a fuori che da sempre, infatti, ci danneggia, ci invecchia, ci ruga, e basterebbe rendersene conto per cambiarlo, capovolgerlo da fuori a dentro, almeno se fosse vero (se fosse vero…!), che siamo migliori, che sappiamo evolverci, ma soprattutto (soprattutto…!) che vogliamo essere felici.

NB: A tutti quelli che parlano di denaro: il downshifting, nel caso non lo aveste ancora capito, è questo. Il resto, per esprimermi in termini socioeconomici corretti, sono cagate.
Share Button