Virate

Santo Cielo… Quante cose in questo mese e mezzo. Un mucchio di miglia, tanti contatti, una vita sociale a cui non sono abituato più. Parole, Dio quante parole. E libri, premi, interviste ma anche tanta scrittura, nuovi progetti, Mediterranea che sta per ripartire. Vita che straborda, il ricolmo che esce dal vaso. Troppo, certamente. Bisognerà svuotare un po’, tornare indietro. So bene come si fa. Ma tutto buono, in ogni caso, perché tutto adatto a me, tutto giusto, giusta la rotta, giuste le cose, nulla di insensato. Solo un po’ troppo per le mie forze e il mio bisogno di quiete, solitudine, silenzio.

Interessante, comunque. Càpita così, sempre, quando per anni fai quello che è corretto che tu faccia, non bello o brutto, ma giusto e adatto a te. E infatti tutto avviene di conseguenza, tutto si compie. Si sottovaluta spesso che serve il suo tempo, alle cose, per accadere. Me ne accorgo, e me ne compiaccio. Vedere i risultati del proprio lavoro conforta, sia quando sono buoni sia quando sono cattivi. È la verifica: ciò che accade che effetto ha su di me? Mi cambia? In direzione corretta? Mi fuorvia? Sì/No. L’opportunità di misurare e scegliere.

Quando non ci càpita nulla, quando tutto scorre identico, avviene qualcosa di analogo. Io ho preso delle decisioni, e sono vissuto in un certo modo: e che accade, come conseguenza? Qualcosa cambia, qualcosa si compie, speravo in un effetto che ho visto avvenire? Sì? No? Ecco.
Siamo tutti allergici a questo: prendere atto, e incontrovertibilmente chiamare le cose col loro nome. Avevamo deciso di andare negli USA a studiare, a lavorare, è passato del tempo, stiamo bene? Sì/No, risposta secca, senza tanti infingimenti. Avevamo deciso di lavorare in quel modo, in quell’azienda, in quella città: è andata bene, stiamo meglio? Sì/No. Abbiamo scelto un compagno, una compagna, o non abbiamo scelto di cambiare direzione per il nostro cuore, e il tempo ha maturato i suoi frutti: buoni/cattivi, Sì/No, senza tanti giri di parole. Una franchezza dovuta, essenziale, che dice tutto.

La prova dei fatti. Quando si naviga, si sceglie un’opzione sul vento: “girerà a est, mi darà buono per rotta”. Lo fa? È avvenuto? Sì/No. Il tempo è trascorso, e continua a trascorrere. Posso essermi sbagliato, càpita, non è grave. Grave è non ammettere l’errore, non correggere, non virare. Non parlo di due settimane, un mese. Prendiamo gli ultimi due anni almeno. 730 preziosi giorni, tanti. Abbastanza per non avere dubbi. Quello che doveva accadere DEVE essere accaduto, o avere dato almeno segnali. Sto come allora? Sto peggio? Sto meglio? Consapevolezza passa per assunzione sincera e franca della realtà, ammissione delle cose “per come davvero sono”.

Quando studiavo tutti odiavano gli esami. Io li adoravo: si vedeva qualcosa, finalmente. Si metteva un punto. Buono/Cattivo, Meglio/Peggio. E si chiariva tutto. Si usciva, soprattutto, dall’indistinto, da quelle sabbie mobili del sospetto, delle paure, dell’incertezza, del dubbio. “Basta?” “Non basta?”. Finalmente si capiva: “Non basta”, “Anche troppo”. E ci si evolveva.

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Ripartire

 

Bitte. A cui dare volta. Da cui sciogliersi e andare.

Una lunga estate. Piena, ricca, di blu e di arcobaleni, sempre tra le isole, toccando due volte soltanto il continente. Isole di cui intanto scrivevo, rileggevo, correggendo parole sempre più senzienti di me. Cinque mesi e mezzo per porti e in altura, io su e giù tre volte, per quindici settimane. Il lungo, lento, quotidiano itinerario per i meandri del mio mondo. Quando ero in quell’ufficio, in quelle città, tanti anni fa, costretto a parlare con persone non scelte, in luoghi non miei, per denaro inutile alla vita, era questo che sognavo. Estate dentro il mio sogno, dunque, che è sempre e inevitabilmente una questione di isole.

L’isola-casa, Kythira. L’isola sogno insperato, Milos. L’isola crocevia Zacinto. L’isola incubo e visione, Cipro. L’isola mito, Thera. L’isola tragedia, Lampedusa. L’isola follia, l’isola vita, l’isola libertà, l’isola che quel mattino, l’isola che dopo quella notte… L’isola che c’è sempre, perché somiglia così da vicino al mio spirito, alla mia mente. E isola chi le ama, chi le viaggia, chi le sogna. Ogni uomo dovrebbe avere un’isola. Solo che per averla, dovrebbe prima riconoscersi tale.

Ma anche estate di gente strana, fuori posto, e di frasi sciocche, ascoltate e un po’ sorrise, di troppa gente che va nel canale di Sicilia e poi ha caldo (Ma va?! Strano, non succede mai… Prossima volta a Canazei?). Estate di gente sull’orlo di una crisi, che dice “brutto” a quello che gli capita mentre dovrebbe dire “sto male” per quello che vive. O di gente che non sa vedersi, e allora ti vede male, scambiando presbiopia interiore con miopia del mondo mentre accusa gli oggetti di essere sfocati. Estate di differenze, di distonie, contraddizioni ormai del tutto comprese, che devono cambiare, perché va bene trovarsi fuori posto, per un po’, ma non va bene restarci.

Estate lunga, che non ti rispondo perché non ti vedo più. Sai cosa ti dico, ciao. Estate che ti vedo, finalmente, e ti chiedo di restare. Estate di albe, isole nel tempo, in cui per qualche istante non parlare, e vedere. Estate di incontri e di partenze. Estate di vele da bordare, cime da tirare, manovre da riuscire a fare, di mani sporche d’olio, cacciavite e miracoli. Estate di crescita, di esperienza di me. Della soddisfazione, soprattutto, di guardarmi indietro e vedere due o tre brutti errori, e proprio per questo non vedermi peggiore, né identico, che sarebbe quasi peggio. Quattro anni, diecimiladuecento miglia, tanto era necessario per cambiare? Estate di Mediterraneo sognato vissuto da ribaltare da rimuovere da rinnovare per chissà, domani, forse, diversamente….

Estate da levante a ponente, per tornare, per riprendere un antico discorso, per riprendere a godere. Un’estate lunga, che coglie il fine, che dice fine, che mette fine perché anela nuovi inizi, come sempre deve fare chi non vuole sguazzare nel pantano, chi vuole patire se deve e pagare se non lo può evitare, ma poi, anche senza più un soldo, libero finalmente… ripartire.

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Vuoto

Energia, per questo anno di riempimento.

Dove non mettiamo cose, resta vuoto. E le cose, lì dentro, le mettiamo solo noi. Dopo puoi lamentarti quanto ti pare, perché quello ti ha trattato male, perché l’altro ha disatteso le tue aspettative, perché il lavoro è deludente, perché “non incontro mai nessuno interessante” (come se qualcuno, incontrando te, dovesse dire il contrario), che tuo marito ti ignora, o di essere solo. Ma il fatto è che ti sei dimenticato di mettere fiori nel vaso, fagioli nel barattolo, idee in testa, legna nel camino, vele sulla barca. E infatti è tutto fermo.

In un passo di Rais scrivo: “Khaled Imari lo aveva messo in guardia: non fidarti ragazzo mio, tu troppo capiente, ma troppo vuoto e Keithab piccolo ma pieno, e aveva ragione, grande piccolo, vuoto pieno, lo scontro delle magnitudini, solo ora forse comprende quelle parole Dragut, anche se pieno e vuoto ancora non afferra e forse non capirà mai cosa significhino“. Tutto è derivato da quei vuoti che non abbiamo riempito. L’eco di quelle assenze risuona. Proposito: riempire. Occupare gli spazi interni. Che il tempo ci trovi intenti, indaffarati, assidui, intensi. Quello che avviene fuori non ci deve distrarre. Seguiamolo, perché no, ma con la coda dell’occhio. Tanto, per la maggior parte, sono ombre. E stiamo tranquilli: ciò che non è ombra, ciò che conta, lo coglieremo proprio perché non lo stiamo guardando. Ci distrarrà davvero, dovremo girare la testa a forza, non potremo resistere. E allora vedremo quel che dobbiamo vedere. Ma quella vista, quell’attenzione, sono facoltà che avremo affinato proprio perché eravamo attenti, ma a noi, dentro, qui, alle nostre mani (alle mani!), per fare il miglior lavoro possibile, con precisione, attenzione, nel miglior modo possibile. E con partecipazione.

Calvino scrisse che il segreto del Millennio entrante era fare cose complesse, applicandosi la massimo, farle bene, nel miglior modo possibile, dedicandosi interamente. Io penso che intendesse questo: riempire quei vuoti. Riempirli di idee proprie, progetti, escogitando da soli il modo per realizzarli, dedicandosi anima e corpo a quelle attività. Qualcosa che ci renda interessanti ai nostri occhi, e degni d’interesse quando qualcuno ci incontrerà. Ci sarà qualcosa da guardare, non il vuoto. E questo genererà desiderio di frequentarci, che non è desiderio di altri, ma desiderio nostro di stare con noi, che gli altri avvertono, senza cercare costantemente qualcuno, altri, chiunque siano, pur di non trovarci da soli. Vuoti.

(9° anno della nuova vita. 640° pezzo su questo blog. 82° quest’anno)

Da domani…

 

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