Per dignità

Il 29 febbraio scrivevo “Tutto ‘sto casino si risolve stando tutti a casa una quindicina di giorni. (…) Provateci. Cogliete l’occasione. Una quindicina di giorni e via, finito il virus. E iniziato qualcosa di nuovo…”.

Erano i giorni di #milanononsiferma, l’inno nevrotico della nostra società drogata di attività e lavoro. In quel pezzo citavo anche un filosofo che non amo, ma che ha scritto una frase piuttosto importante: Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo. Blaise Pascal.

È evidente, per come sono andate le cose, che non sarebbe bastato. Eppure, se per magia ci fossimo tutti sintonizzati sulla gravità della situazione e da quel giorno ci fossimo distanziati, chetati, avessimo chinato il capo (per una volta!) oggi probabilmente staremmo parlando di qualche decina di morti al giorno, non di molte centinaia. In quei giorni, infatti, il virus proliferava.

Ora impazza la domanda: “Basterà questa lezione a farci cambiare?”. Spero di sì, ma temo un po’ la naturale tendenza dell’uomo al bene relativo: oggi che la pizza con gli amici non la può più mangiare, guarda a quella pizza come a un miraggio, e non vede l’ora di potersela mangiare domani. E quella pizza sarà quanto di più importante, bastante a redimere da ogni privazione. Sarà tutto lì, in quella pizza. A me invece quella pizza deprime.

Mi deprime la voglia di tornare “alla normalità”. Quella “normalità” a me non pareva affatto normale, affatto positiva, tanto che me n’ero da anni costruita una parallela, coi miei mezzi, diversa nelle quantità e nei toni, nei luoghi e nel tempo. Quella normalità di spreco, confusione, relazioni insane, coatte, quella clemenza nel considerare le peggiori derive dell’uomo come “umane”, o nell’accusare chi le stigmatizzava come “incapace di compassione verso l’uomo”, ecco, quella normalità era niente, un pantano. Non c’era volontà, non c’era ambizione, tutti vivevamo arroccati solo in ciò che già eravamo, mai lanciati verso quello che non eravamo ancora. In quell’acquitrinio rituale, sempre identico, costoso, maleodorante di simulacri consumistici e di falsi miti simbolici, annaspava una società che oggi vediamo nuda, fragile, incapace di tenere botta se non urlando, accusando, lamentandosi, come se questo virus fosse colpa di qualcuno. E dato che non c’è un “qualcuno”, la rabbia aumenta, perché le false coscienze hanno sempre bisogno di un nemico, meglio se immaginario.

Neanche io, come già altri, mi auguro il ritorno a quella normalità. La temo quasi al pari di questo virus e dei prossimi che verranno. Come vivevamo prima sapeva già di morte, aveva il tanfo dei piedi zozzi dell’umanità accasciata, il sapore stantio dell’omologazione. Generava esseri assuefatti a una vita intera con due sole settimane di ferie all’anno, che una persona sana avrebbe ritenuto schiavitù. Era colorata di disperata resa alla realtà, che solo i rassegnati dicono che va vissuta per com’è, perché invece va cambiata, e non ha mai ragione, la realtà, per il fatto di essere vera, semmai ha torto per lo stesso motivo, perché ciò che è già vero deve diventare altro che ancora non è, che sto immaginando proprio perché voglio qualcosa di meglio, e questo è il principio dell’evoluzione, dell’ambizione, cioè la voglia di non rifare oggi, per l’ennesima volta, lo stesso identico errore di ieri. Non fosse altro per non annoiarsi. O per curiosità. Per dignità.

#adessobasta

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So dov’è l’acqua nella foresta della libertà

Ipocrito violento potere, che non aspetta altro che l’occasione per muovere i birilli della polizia, piccolo coi grandi, forte con i deboli. Ed eccolo qui il popolo, che ogni giorno poteva scegliere e non l’ha fatto, e poi un giorno manifesta, facendo il gioco preferito dal potere, accontentandosi sempre di perdere e prendere le manganellate.

Ecco perché vi combatto, tutti e due, popolo e potere, ma sul mio terreno, non sul vostro. La mia guerriglia è esistenziale, psicologica, dei comportamenti, delle scelte, economica, filosofica. Nella foresta delle decisioni responsabili, dove si paga ogni giorno il prezzo della libertà, voi ci arrivate impreparati, siete disorientati, impotenti, ma io mi muovo come uno spettro, gatto invisibile, scoiattolo imprendibile, dissemino di trappole il vostro percorso, sono dietro di voi quando sgranate gli occhi spauriti, sono la corteccia dell’albero dietro il quale pensate di nascondervi quando calano le tenebre. Io conosco i sentieri duri di quella foresta incantata che voi chiamate caos, anarchia, e io libertà, dignità… casa.

Vivo su queste montagne impervie, le pago ogni giorno. Dunque quando mi cercate, quando provate a braccarmi coi vostri lacrimogeni, i vostri slogan, le vostre camionette, le vostre manifestazioni di piazza, le vostre mimetiche e i vostri gilet gialli (tutto arredamento dello stesso grande palazzo del potere dove coabitate), io sono allenato, corro in salita con uno zaino leggero, ho il respiro pesante di sempre quando voi ansimate, l’arsura di sempre quando avete sete, il freddo di sempre quando congelate. Io so dov’è l’acqua, nella foresta della libertà, so dove ho nascosto il cibo, ho nascondigli dove ripararmi quando piove, so come si accende il fuoco della solitudine per scaldarsi.

Voi siete forti solo su una piazza dove manifestano schiavi che domani si domeranno da soli sulla tangenziale, nei supermercati. Ma siete deboli qui, dove vi ho costretti a misurarvi, non siete allenati ad avere un antagonista libero. Potete tutto contro tutti, ma niente contro uno.

Quando dovrete ritirarvi, esausti, senza avermi trovato, senza avermi potuto combattere con le vostre armi o ammanettare con i vostri bisogni, quando non sarete riusciti per l’ennesima volta a vendermi le perline o gli specchietti come fece Cook con gli indigeni delle isole remote, io vi starò guardando da un’altura, nel mimetismo invisibile del pensiero diverso, e tornerò padrone dei sentieri impervi, continuerò volontariamente ad ansimare un giorno di più mentre voi vi riposerete, allenandomi già oggi, nel giorno in cui dovrei festeggiare la resistenza, per il prossimo scontro.

La prossima volta risparmiate soldi, tempo, fatica. Non provateci neanche a venirmi a prendere. E soprattutto, ricordatevelo: a me, in ginocchio… non mi ci metterete mai. Perché mi ci sono messo già da solo. Io in ginocchio ci vivo, spontaneamente, volontariamente, genuflesso all’unico potere che riconosco. La mia unica, libera, responsabile Umanità.

 

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Dentro

Spaghetto della consegna. Sugo. Particolare.

Che i percorsi sono tutti veri, il sudore bagna, le lacrime anche, e la mente vola. Che avere una rotta è tantissimo, e se anche da quella parte il mare è scuro e agitato, è meglio che girarsi di qua e di là guardando ebeti l’orizzonte, senza sapere dove dirigere la prua. Che c’è un’etica nelle scelte, e bisogna sempre riprendere tutto da sopra, dalla cima, da chi sei te, dove vuoi andare, a che uomo vuoi somigliare. Che tutto questo non è obbligatorio, ma è necessario, almeno per alcuni sedicenti portatori di dignità. Che io sono uno di questi. Che poi, quando hai rimesso le cose in fila, sei orgoglioso, almeno per dieci minuti. Che quando scrivi la parola fine a una storia scritta per molti mesi, da ottobre, è sempre un momento emozionante, di quelli che segnano la tua vita e che non dimentichi più. Che subito dopo consegni all’editore, e le emozioni si impadroniscono di te. Che il tredicesimo libro ti è venuto molto bene, ha senso nel tuo percorso di ricerca, e ti piace, forse, speriamo… Che domani mattina ti sentirai un po’ disorientato. Che, ammettilo, stai pensando contemporaneamente a Rais, al tuo Atlante ma anche a un’altra storia, oggi hai perfino immaginato un dialogo, dillo! Che sì, lo ammetto. Che dopodomani sono a bordo, e ne ho veramente una gran voglia, bisogno di mare, di viaggio, di avventura. Che però non è facile lasciare casa e famiglia. Che è sempre così… almeno quando sei vivo. Che essere vivo è una buona cosa. Che lo spaghetto del festeggiamento tête-à-tête con te stesso, nel merito, è: pomodorini spaccati in quattro, aglio, rosmarino fresco tritato, olio d’oliva, peperoncino habanero, acciughe dello Ionio marinate da te, presa di sale, coriandolo fresco tritato, e bisogna che ti ricordi come ti è sembrato un dono mangiarlo con gusto, poco fa, pensando e ripensando che sono anni ormai che scrivi senza quasi fermarti mai, ogni mattina, sempre dentro, dentro, dentro. Che chissà perché scrivi. Che non è così importante, tanto non puoi evitarlo, e non è la sera adatta per le domande del cazzo. Che invece sono proprio questi i momenti per le domande del cazzo. Che scrivere ti ha salvato la vita, e questo lo sai. Che chissà cosa sarebbe successo se non avessi scritto. Che chissene frega, stasera festeggio un altro passo importante per me, mica per il mondo, per la mia piccola vita, che però è una cosa grossa, visto che è mia, e occuparsene, curarla, costruendo momenti di festeggiamento col piccolo immenso orgoglio di aver portato a termine una storia, beh…, un po’ mi commuove. Che sei un pirla a commuoverti. Che, senti… pazienza.

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