Descrivere l’indescrivibile

Storytelling6 minuti di Mediterraneo.
Parole, storie, immagini, suggestioni sul luogo più affascinante del mondo.

[In margine alla presentazione di “Atlante delle isole del Mediterraneo” (Bompiani), il 9 novembre scorso, alla Libreria Internazionale “Il Mare”, a Roma].

 

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Nulla come questo

isola

Lo studio della copertina è iniziato così: da un mio schizzo fatto mentre navigavo, fotografato col telefono e inviato a Segrate

Ho scritto questo romanzo disattendendo quasi tutte le regole dell’editoria di questa epoca, e del buon senso.

E’ lungo; ha quattro voci diverse che raccontano i fatti da altrettante diverse angolazioni; è una storia “in costume”, ambientata nel ‘500; è pieno di personaggi; uso registri stilistici diversi; una delle voci è un flusso senza punti, in cui il lettore deve trovare la sua “musica”; il titolo è enigmatico, non spiega nulla di noto; è un romanzo letterario, di quelli che invece di andare verso ciò che il lettore sa già lo chiamano verso lo spazio ignoto che lui ignora; scrivo tutto, senza veli, sbatto in faccia al lettore i suoi vizi, le sue paure, le sue meschinità, le sue ipocrisie.

Nella narrativa contemporanea si sta molto attenti a non farli, questi errori. Un libro lungo costa di carta e stampa, dunque ha un prezzo più alto, e poi i lettori si spaventano per la mole. I tanti personaggi disorientano, le storie in costume vengono avvertite come troppo lontane. Per farne un film servirebbero troppi soldi, nessuna produzione sosterrebbe uno sforzo simile.

Non so se lo avete notato, ma la narrativa di oggi, per larga parte, fa di tutto per ingraziarsi il lettore. Gli va incontro sorridendo, lo segue nei suoi ambienti conosciuti, gli parla con la sua lingua, lo fa riconoscere nelle sue più ovvie aspirazioni, lo blandisce con i luoghi più comuni, usa marche e oggetti a lui familiari, come per farlo sentire a casa, lo aiuta con frasi corte, come fosse un minorato mentale, capitoli brevi, poche pagine in totale, storie esilissime, molti dialoghi. Trovo questa pratica, quando fatta ad arte, la fine di ogni opera intellettuale e di scrittura letteraria.

Per questo, terminando questo mio nuovo romanzo, sono molto orgoglioso della libertà e del coraggio che è costato. A me e al mio editore.

Ma c’è dell’altro.

Alcuni miei libri, negli ultimi dieci anni, hanno avuto successo. Quel che dovevo e potevo fare per cavalcare il favore del pubblico lo so bene io, come possono intuirlo tutti, anche i non addetti ai lavori. E’ quello che si fa comunemente, preferendo scrivere ciò che “si deve” rispetto a ciò che “si vuole”.

Tuttavia, ho capovolto la mia vita per cosa? Per essere libero, il più autentico e libero possibile. E allora? Non potevo seguire il faro dell’opportunità. Sarebbe stato un calcio sugli stinchi della mia storia.

Mi sono messo a studiare senza contratto con alcun editore, senza tempo stabilito, senza alcuna garanzia o scadenza. Poi mi sono accinto a scrivere senza neppure sapere se qualcuno avrebbe mai pubblicato il frutto di questa enorme impresa. Mi sono goduto il tempo dello studio e della scrittura senza vincoli, libero di assecondare la mia emozione verso la storia e i suoi personaggi. E fatalmente, a riprova che il nostro destino non ci indica mai la strada ma lo incontriamo lungo la via giusta dopo averla già intrapresa, un editore ispirato, illuminato e coraggioso si è innamorato dell’idea e mi ha sostenuto.

Ecco perché sono molto felice di aver concluso questo lavoro, proprio poco fa. E’ costato anni di studi e di impegno, compiuti alla luce della grande gioia della libertà e della creatività. Nulla come questo romanzo mi identifica e mi rappresenta. Nulla di ciò che ho scritto fin qui. Qualcuno che lo ha letto mi ha detto: “un romanzo così non lo scriverai mai più”.

Cercare ciò che ha senso, perseguirlo con cura, con la determinazione delle scelte impopolari e non opportune, ma vere e sentite, credo sia la maggiore garanzia che si può offrire a un lettore. Potrà amare o odiare quello che scriviamo, ma sarà certo che nessuno lo avrà preso in giro.

(- 17 all’uscita di #Rais)

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Dove siete?

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Vedere la poppa…

Come il primo giorno di vacanza, dopo la scuola, come il primo giorno dopo gli esami, alla maturità o all’università, come il primo giorno dopo l’ultimo di lavoro, quella prima estate, come il giorno dopo la fine del militare, come il giorno dopo il bachelor, come il primo giorno delle ferie d’inverno, come il giorno dopo quel matrimonio sbagliato, ma grazie al quale ho capito cosa non sono, come il giorno dopo essere entrato al Fienile dell’anima, che mi pareva d’aver finito e non avevo neanche ancora cominciato, come il giorno dopo aver detto quella cosa che avevo qui, come il giorno dopo essere salpato per la prima volta da solo, io e il mare, e tutto il mondo fuori.

Visto-si-stampi, come fosse una sola parola lunga, così si chiama quello che è successo ieri a Segrate. Me lo hanno strappato dalle mani, io che imploravo ancora ventiquattr’ore, ma non c’erano: “Salta tutto Simone…”, o ieri o niente, e allora è andato. Nove anni, mentre pensavo studiavo e scrivevo anche altro, ma un pezzo di me sempre lì, a provare a figurarmi il suo viso, la sua testa, da dove venisse la sua assurda cattiveria. E gli altri, immaginare per anni anche loro, dalla spia a Colombo, fino all’ultima nata, che poi ha preso in mano tutto, come fanno le donne quando c’è confusione: Bora. E poi fitto fitto per un anno intero, ogni mattina, ogni mattina alle 6.00, come si fa ogni cosa buona, con l’intensità dello sportivo, la ripetizione assidua e fedele del monaco, l’operosità intenta dell’artigiano, sette giorni su sette, a volte otto, due turni, anche il pomeriggio, fino a ieri. Non si può spiegare…

Dov’è l’amicizia tradita, dov’è l’amore, dov’è il nemico, dov’è il segreto, dov’è il mistero, dunque com’è andata? Dove se n’è andato Dragut, la sua galera ieri ha intuito bene il vento, mi ha preso dieci miglia, poi venti, poi il largo, guidone bianco e azzurro con la mezzaluna gialla al centro che volava alto, fino a che non s’è fatto punto, poi idea, poi ricordo, poi nulla; dove se n’è andato Keithab, dov’è Arslan, dov’è Khaled Imari, dov’è Bora, di cui non si trova più neppure la tomba nel paese dove nessuno si ricorda di lei; dov’è Ariadeno, Kahir al-Din, dov’è Occhialì, dove sono Andrea, il geniale Cristoforo, Carlo, dov’è La Vallette, dov’è il cipriota con le spalle larghe che le ha prese di santa ragione, dov’è lo Zoppo… Erano qui, talmente accanto da essere dentro, per mesi, anni, e ora… Dove sono andate le migliaia, centinaia di migliaia di marinai senza nome con cui ho navigato anni, dove sono andate le loro isole sicure, la loro brama di ritorno, dov’è finito Piri Rais, dove sono ora i teschi della “Torre dei crani”, teste anonime decollate sulla spiaggia di Gerba, una catasta alta dieci piedi, con una circonferenza di centodieci, visibile dal mare, che rimase su quella spiaggia dal 1546 alla metà dell’800. Tutti viaTutti salpati per proseguire un viaggio che senza di me non avrebbero mai intrapreso. Irriconoscenti, dimentichi, insensibili come tutti i figli. Dove sono andato io…, disperso nei loro lineamenti, nelle palpitazioni asincrone dei loro cuori tamburi sotto la pioggia grossa che sa di sale. Dove siete adesso? E dove sono io, ora…?

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