Generalmente d’inverno

quello che si dice una baia…


Oggi ho realizzato che tra un mese, più o meno, sarà tempo di rientrare. Sono partito dall’Italia il 4 marzo, con la sensazione di prendere l’ultimo traghetto prima del caos. Non avevo un programma di ritorno, almeno fino a giugno, perché dovevo navigare… Dunque vivo su quest’isola mediterranea da quasi sei mesi. Il tempo-non-tempo che si è mostrato eterno, poi è volato via. In Val di Vara, da ottobre, credo che cercherò tutto da capo. Farò come quei cani, che non staccano mai il naso da terra. Ciò che sparge e sfila nelle vene adesso, dovrò pur rintracciarlo. Impossibile raccontare ora.

L’irraccontabile, cioè l’invisibile, è il materiale di cui è fatta l’arte. La letteratura, la poesia, la scultura, l’immagine. Metterò tutto lì, quasi certamente. Sta facendo anche capolino un’idea. Meno di una visione fugace, al momento. Ma io so come fa, la riconosco. Il punto è se saprò ritrovarne i materiali costruttivi profondi.

Le mani, strumento della meditazione, sono servite come solo una volta prima di oggi; la schiena, che ha ceduto due volte soltanto, ma per il resto ha fatto ancora (e ancora…) inopinatamente il suo dovere, e messa così tanto alla corda…; gli occhi, saturi di colori, di luce, mi hanno nutrito ogni giorno. La mente è stata, invece, quasi sempre fuori controllo. Non ho saputo seguire il suo flusso. Di solito la uso, qui invece la inseguivo. Che movimenti inopinati, che filo astruso… Vagava. In balìa, quasi sempre. Ho anche cucinato in modo diverso dal solito, non ci ho capito quasi niente. Quando non andavo a memoria, mi perdevo. Ho sperimentato poco, tentato sapori e odori di qui ma senza capire bene tutto. L’anima ha goduto e sofferto come una prostituta liberata dal lenone, ha sperato, si è staccata più volte da me, poi s’è ricongiunta, commossa. Ha atteso. Ha trovato.
Chi è venuto qui mi ha donato molto. Qualcosa, spero, ho restituito.

Tutto il resto, se l’è preso il Mediterraneo.
Credo che sarà da lui che avrò le restituzioni maggiori. Mi pare anche di aver scoperto una sua caratteristica: saper prendere, per poi offrire. Il segreto della sua capacità conservativa sta tutto nella dilatazione. Il nostro tempo è limitato, è una stanza stretta. Il suo no: è un enorme altipiano, spazio-nel-tempo, dove alberga la nostra vita migliore. Poi, per i meno immemori, i più focalizzati sul sentiero, i non àscari esistenziali, sarà possibile una restituzione. Generalmente, d’inverno.

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“Qui” (quarto capitolo)


4.


Per mesi neppure un malato, ma tutto viene chiuso su un’isola chiusa. E ora, tutto nuovamente aperto sull’isola aperta. Le quarantene al tempo della televisione sono così, prive di ogni logica, come la paura. Ora si piangono i turisti perduti, che erano già pochi. Le isole che merita vedere, del resto, non sono affollate. Sono dure da raggiungere, rimangono fuori dalle grandi rotte. Per caso, vai solo dove costa poco. Ma il costo per venire qui non è in denaro, le scelte non lo sono mai. L’isola devi prima sentirla, quando non sai nemmeno che esiste. Allora, considerato pazzo, la vai a cercare. Quando non la trovi, per anni, devi continuare, dandoti tu stesso del folle che cerca qualcosa senza motivo, come fosse una tara, qualcosa di fatale. Dunque, l’isola la devi volere. È la catena del desiderio, credo che valga per tutto. Se guardo alla terraferma, invece… mi pare che si viva tutti sentendo niente, volendo poco, cercando quello che non serve, trovando solo briciole.
O forse mi sbaglio. Da qui o si vede tutto o si scambiano navi con mostri.
Quello che so è che qui mi ci ha portato la voglia. L’irresistibile brama. Chi ce lo avrebbe fatto fare, altrimenti? Dal “Fienile dell’Anima” siamo partiti con gli occhi umidi. Ecco perché, ecco il profondo segreto di una scelta: andare nonostante ciò che basta, non a causa di quello che manca. Il bisogno è un’illusione, fa solo sbagliare la rotta. Se Penelope bastasse, non seguiresti mai il canto di una sirena.

Qui è confluenza. Ionio, Egeo, Mare di Creta. Lo chiamano Mare di Myrtos, così vuole il mito. Una storia di tradimento e inganno, come lo è sempre un confine. Uva meticcia che ognuno chiama a suo modo.
Mi interrogo: di “Qui” cosa avrebbe detto mia madre? Avrebbe strabuzzato gli occhi, stretto le labbra come per fischiare, ma senza suono, come faceva lei? Avrebbe toccato le mura di pietra con una mano, come per appoggiarsi, o a dire “che cosa grossa, solida!”? E cosa dirà mio padre, tutto entusiasmo e avventura? Cosa dirà chi non ha detto ancora niente, come non pensasse niente? Vorrei vederli tutti nella luce e nell’aria della sera. I colori di quel momento mi fanno venire da piangere. Sono narrativi, e io amo così tanto i bei finali di romanzo. Qui è un libro di racconti brevi, quotidiani. Perfetti.

Spiegare l’inspiegabile, raccontare l’inesprimibile. Provo a procedere, ma non lo so fare…
La casa non è grande, ad esempio, ma commuove. Il primo atto di vendita è del 1891. Ho trovato qui aratri di legno, intagliati a mano, vomeri col segno della sgorbia. Un giogo. Forconi fatti di rami. E un’altalena, perché i contadini dovevano tenere buoni i bambini. In questa parte dell’isola le case di pietra non hanno intonaco. Mi hanno raccontato di un manipolo di artigiani del vicino Mani, giunti qui due secoli fa. Loro sapevano costruire. “L’intonaco è quando non ti fidi”. Coprire, nascondere buchi. Non dichiarare, l’intonaco di non ammettere.
All’interno c’è spazio per tutto. Il tremore eccitato, la sensazione di navigare oltre il limite, l’assoluta meraviglia, l’hanno riempita già molte volte. Una casa non si può comprare. Va costruita. Deve somigliare a te: spazi – per tempi – per pratiche. Nel divenire. Se non sai dove mettere l’emozione, ad esempio, devi costruire un ripiano. Per sognare, devi allestire un angolo. La vera tristezza di una casa sono le stanze vuote: dovevano contenere chissà quali tesori, e invece non c’è spazio per ciò che non hai. In una teca di pietra ho già impilato immagini, libreria di istanti alla fonda: quel tardo pomeriggio, fermi, uno qui uno lì, in silenzio; quando ti sei alzata e sei andata via, ma ti sei voltata; la sera della cena fuori, candela, gli involtini che avevo mangiato una volta su un peschereccio, a La Galite. Sono venuti identici. O ancora, quel giorno, coi falchi enormi che volteggiavano, il sole sullo Ionio, la musica, ogni sfumatura del rosso, e tu che hai detto: “… è bellissimo”, ma col tono che usi solo quando ci sei. O le grandi capre selvatiche, l’apparizione di quella sera, corna larghe, ritorte, orizzontali, la pelliccia nera lunga fino a terra. Spettri dagli occhi fiammeggianti nell’altipiano, divinità incarnate che anticipavano il passaggio della falce, che poi, per mistero, ci ha risparmiati. O il ciclo dei fiori, da riconoscere ogni giorno. Quante volte ci siamo fermati, arrivando qui, perché “aspetta, aspetta, guarda che bello quello! Ieri non c’era!”?

Una nave alla fonda, da una settimana. Ci guarda. Un ancoraggio pare una domanda, in attesa. “Saremo all’altezza, sapremo preservare?” Cominciamo, come in un vaso, a mettere fiori. Basterà lo spazio? Dipende da noi. Le cose importanti non ingombrano mai molto. Eppure chissà… Può darsi che un giorno dovremo ripartire. Non fare no con la testa, lo sai…

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Sottomesso

Equilibri

Navigando, quasi sempre, si comprende, e lo si fa per necessità ed evidenza, in modo quasi pre-razionale. L’azione spinge a officiare una quotidiana liturgia, che è inevitabile, della quale si è necessariamente esecutori, senza indugio, senza che altro si frapponga. Non si fa ciò che si vuole, neppure quando lo si desidera, semplicemente tutto avviene, occorre eseguire ciò che va fatto, indifferibilmente. Il marinaio, che tutti stimano libero e svincolato, è un servo, un attendente, vicario del mare. Lo è, in modo identico, il compositore, l’autore che da fuori pare il Re delle parole, Imperatore delle storie, onnipotente tanto da far vivere o morire, e invece lava i piedi ai suoi personaggi, inginocchiato, bacia quotidianamente il libro sacro sull’altare della creazione di cui è solo parzialmente artefice.

Non mi basterà tutta la vita, per comprendere il modello del Mediterraneo. Ma uno dei suoi componenti essenziali l’ho sperimentato e assunto: il riconoscimento del proprio umanissimo sacro, e l’accettazione felicemente condivisa dell’esserne il celebrante. L’uomo del Mediterraneo è devoto, che per il suo etimo (lat. devotus, part. pass. di devovere «promettere con voto, consacrare») è consacrato, cioè “si è interamente dedicato a qualche cosa” (Treccani). Nutre dunque sottomessa affezione per un’entità, un luogo, una condizione, una persona. L’uomo del Mediterraneo in questo è diverso dallo zeitgeist, lo spirito che permea questo nostro tempo: non combatte contro la sua sottomissione al mare, ai ritmi naturali del suo mondo, anzi, la riconosce coerente con sé, dunque l’accoglie, la sceglie, e per questo devotamente la celebra. In questo, annulla ogni tedio, ogni sensazione di sradicamento, di assenza di significato.

Quando scrivo, nell’atto della composizione, così come quando navigo, nell’infinito e incessante governo dell’imbarcazione, mi sento sottomesso al mare e alla parola. Devotamente celebro entrambi, mi dedico, e coerentemente fatico per essi. E in questo mi trovo, mi ri-conosco. Ecco, forse cos’è l’identità: conoscere la propria fatica, perché la si fa, il senso che ci dona farla.

(considerazioni in margine ad “Atlante delle isole del Mediterraneo” e “Rais“)
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Arcipelaghi

Storie di ordinaria miseria. Gente che si spaccia per altro su questi maledetti luoghi d’impostura (e di splendida comunicazione) che sono i social network. Uomini (soprattutto) che fingono ciò che non hanno, portatori di ciò che non sono, dunque aspirano a un incontro inautentico, certi di non esserci per qualcosa di vero. Non è giusto, tuttavia, dire che queste nuove modalità di relazione ci stiano cambiando. Rivelano solo ciò che siamo da sempre. Una bomba non rende un uomo violento: gli consente solo di uccidere più uomini, con la stessa cattiveria di quando brandiva solamente un coltello.

Sto scrivendo di isole, in questo periodo, per il nuovo libro. Un “Atlante” che pare ovvio per me, quasi obbligato. Eppure l’onda di emozioni rotola con la schiuma-parola, travolge fino alle lacrime. Isole del Mediterraneo, luoghi della prigionia, della solitudine, della nostalgia, della pazzia, dell’omicidio, della resurrezione, luoghi limite del sogno, dell’amore e del silenzio, il materiale di cui sono fatte le voci. Isole e social network sembrano avere assai più elementi in comune di quanto non potrebbe sembrare. Un mare di bottiglie che contengono una richiesta d’aiuto. O di antri in cui sono sepolti tesori. Prevarrà l’urlo o l’omertà? Il nascondiglio o il ritrovamento? Chissà…

Ascolto qualcosa di armonico, stamattina, per risollevarmi dalla miseria e fare prua sul rapimento emotivo. Cos’è un coro, se non un arcipelago? Un gruppo di terre che, per un istante, rinunciano a rimanere soltanto isole

 

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Osservanza

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Verso levante, mentre rischiavamo di affondare – 2008

Stamattina ci siamo svegliati presto, era ancora buio. Siamo sgusciati fuori dal letto, da casa, dal palazzo, e per le vie del paese abbiamo guardato intorno con muta osservanza, come si fa col nuovo giorno. I viaggi di questa settimana, i postumi di un’operazione, i racconti, i progetti, erano lì, a qualche metro, ci seguivano come pupi liberi dai fili. Nel caffè, nella musica bassa del bar deserto, nel giornale, abbiamo fatto la prima risata, ci siamo detti le prime parole. Abbiamo letto a voce alta un articolo su Defoe, Robinson, l’uomo che non è un’isola. Pensare alle isole, a una in particolare, è una delle migliori lusinghe di ogni spirito libero.

Poi il giorno è salito, dalla nota fissa di un didgeridoo al jazz della luce e della vita che cresce, e siamo rientrati. Che spreco il tempo vissuto nel flusso generale, che orrenda bestemmia non seguire la natura del sonno e della veglia, che schiavitù mostruosa dover fare invece di sentirsi di fare, scegliere di fare. Reiterazione quotidiana del reato, e poi uno si chiede ragione dell’ergastolo.

Ogni giorno, per tutta la vita, sputiamo oro invece che cibarcene. Dieta malfatta di assenza e follia. Quella rabbia, quel vuoto, quella coscienza crescente di insensatezza e tedio, sappilo, vengono da lì. Cerca di ricordartene.

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