Il disorientamento dell’indefinibile

L’indistinto, ciò che non ha un nome, disorienta. Poter definire tutto, metterlo in una casella, o pretendere che dica e faccia ciò che noi abbiamo bisogno di sentire e vedere, fa da appiglio. Possiamo afferrarlo, reggerci per non cadere. Ma quasi tutto ciò che non ha un nome, o non lo ha ancora (o noi, almeno, non lo conosciamo), è “la prossima opportunità”, quello che può aggiungere, e forse farci superare il confine. Una definizione, una formula, è preziosa proprio per questo. Ma è anche terribilmente selettiva, giacché definendo, delimitando, lascia fuori un mondo di cose, che vengono escluse da quel recinto.

Mi è capitato spesso di notare che mentre tutti guardavano dentro il recinto, io ero rivolto allo spazio infinito fuori da esso. Mi pareva che l’interessante, l’affascinante, fosse rimasto in quella smisurata prateria, nell’universo fuori. La stessa immagine chiudere il recinto dopo se sono scappati i buoi, che dovrebbe evocare disagio, forse rimorso, certamente pentimento, a me è sempre parsa benefica, liberatoria, forse perché solidarizzavo con i buoi.

Di certo, se è corretto non lasciare tutto nel vago e interessarsi periodicamente alla catalogazione, all’ordine, alla definizione, perché senza una linea una carta è un deserto di disperazione… al tempo stesso starei attento a rifiutare ciò che non conosciamo o non sapremmo come definire. Spesso, è proprio lì che c’è una possibilità di sentire. È lì che alberga il senso, quello che cerchiamo e che sfugge, da sempre, a ogni nostro sforzo d’interpretazione.

Su questo argomento ho scritto un racconto, che fa parte di “Atlante delle isole del Mediterraneo”, perché il mio mondo marino, delle isole, quello che così ardentemente sto cercando, è pieno di cose belle ma invisibili, essenziali ma che non è facile circoscrivere. E qui lo leggo per voi. Prendetevi qualche minuto, in silenzio, senza fare altro, e ascoltate. Poi, se volete, ditemi cosa vi suscita. Buon ascolto.

Share Button

Anche per

“Come eravamo”

Ricevo lettere come questa, e ne ricevo molte, per la prima volta per un romanzo e non per un saggio: “Causa Rais , mi sono accorto di aver ristretto per anni i miei orizzonti. Non capivo cosa non andasse, ma ero bloccato e stantio. Dopo Rais ho realizzato che ero arenato da solo. Adesso mi sono rimesso in moto, tra le varie andrò ad imparare a (…) da un pazzoide dalle mani d’oro. Quel libro è fatto meglio di quello che sembra. Grazie.” Che bello…

Mi chiedo quanto poco ci manchi, quanto poco siamo distanti dalla “linea d’ombra” e quanto poco serva per oltrepassarla. Un romanzo, una storia, una rappresentazione, può aiutarci perfino in questo? Dunque non è solo la pala d’oro per scavare il tunnel della comprensione sulla vita, sui suoi grovigli inestricabili di emozione e speranza. È perfino una mano a cui aggrapparci per venire fuori dal fosso?

Carica di grandi speranze, tutto questo, ed enormi responsabilità. Ma soprattutto mi fa pensare a qualcosa: non sarà che se fossi rimasto là, se non avessi dato spazio libero alla mia idea di me, qualcuno non avrebbe avuto modo di fare e poi scrivermi cose così?! Eppure poteva accadere. In un momento, per le mille ragioni che ci trattengono, quella linea d’ombra avrei potuto seguirla invece che oltrepassarla. Piccoli passi, grandi effetti. Non solo per me…

Share Button