Danze mediterranee

turchia e altre 051

Istanbul, Ponte di Galata. Le barche della Seastar danzano sul Corno d’oro. Le cime che le trattengono a terra s’allascano, poi si tendono, poi giù ancora. Da quanto dura questa danza? Sono secoli che il metronomo della risacca misura il tempo in questo angolo di mondo.

La mia famiglia è di origini genovesi. Fino a me, nessuno è mai nato fuori dai confini dalla Superba, con qualche eccezione piemontese, lombarda. Io dunque sono un discendente di Andrea Doria, il più grande ammiraglio della storia italiana degli ultimi cinque secoli. Forse molto di più. Il suo nemico era la Sublime Porta, l’impero ottomano, e segnatamente Trugut Rais, il più invincibile ammiraglio dell’epoca, forse il più temerario e scaltro navigatore ottomano. Io, il nemico, ero lì, l’altro ieri, a guardar danzare le barche della Seastar, piccola impresa di ristorazione sulla riva occidentale di Istanbul.

Tre barcozzi (come chiamarli diversamente?), indefinibili, incapaci di navigare se non su una tavola d’acqua immobile, infatti ormeggiati senza speranza di salpare mai, per nessun luogo. Non è navigare la loro missione. Sono chiatte a forma di barca, imbarcazioni ridotte a semplice estensione della terraferma. Sul ponte nessun comandante, nessun ordine marinaro, bensì una grande plancia ardente, una piastra su cui cinque o sei uomini girano e rigirano il pesce azzurro appena pescato, spinato, steso, condito, pronto ad essere offerto agli avventori sul molo, avidi di sapori del mare. Uomini capaci di navigare, però. Nessuno resisterebbe cinque minuti con un simile rollio…

Guardo queste barche, l’alacre organizzazione di chi spina il pesce, lo insaporisce, lo cuoce, per poi passare il cartoccio a uno di loro, coi piedi al sicuro sul molo, che lo porge ai clienti. Una scena portuale, di fronte a uno degli scenari marini più entusiasmanti del mondo: il Bosforo. Io, il discendente del nemico; loro, i discendenti del nemico.

turchia e altre 032 Poche ore dopo ho detto a Tarek: “Non credo molto nell’Europa. E’ il mio continente, certo, ne faccio parte. Credo di più nel Mediterraneo, nella comune cultura di chi si è incontrato per millenni, ha navigato le stesse burrasche, ha bordato le stesse vele, mangiato lo stesso pesce, apprezzato le spezie l’uno dell’altro. Credo in questo grande ventre, dove ogni cosa ha avuto inizio, dove oggi i nemici masticano la dolcezza delle carni di un pesce guizzante pescato con tecniche simili, da sempre, mutuate da pescatori stranieri, eppure fratelli, incontrati una notte in una baia sottovento. Tarek era d’accordo. Ha imbastito la sua opinione solo per darmi ragione. Ci siamo sorrisi.

Poi ho pensato a una sera a Mantova, anni fa, alle chiacchiere con Bjorn Larsson durante la cena. Lui è svedese, fa parte con me dell’Europa. Ho sempre pensato che uno scandinavo fosse un uomo molto diverso da me. La sua pelle chiara, il suo sguardo dritto, la mancanza di rughe intorno agli occhi. Come posso essere un europeo anche io, o un europeo anche lui, cosa ci unisce? Ma Bjorn è un uomo di mare, e parlavamo un idioma comune. Soprattutto, io sono un uomo del Mediterraneo, che vuol dire un uomo aperto a chi fa approdo sulle mie coste, curioso di ogni diversità, pronto a prendere l’ormeggio a qualunque barca si appressi al mio molo. Forse è per quello che con Bjorn stavamo bene di fronte a un piatto di buon cibo. Lui, navigatore dei mari gelati, non era lontano da me che posso immergermi ogni giorno dell’anno per verificare la mia ancora sul fondo.

Le barche della piccola compagnia di ristorazione Seastar danzano sul Corno d’Oro. E danzeranno per sempre, finché un viaggiatore passerà di qui, che sia dei nostri mari, che sia di mari altri, finché un uomo venuto da un lato diverso del vento, un altro porto d’armamento, getterà uno sguardo al bacino d’acciaio di fronte alle moschee, osserverà la torre di Galata, le rive di Ortakoy e formulerà un qualunque pensiero sul mare.

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