Porti e divorzi

Apro una bottiglia di vino francese. La apro dopo 320 miglia in tre giorni, prima col vento forte, poi col vento sul muso, verso sud. E la apro per festeggiare.

Per prima cosa festeggio di essere per mare, nel vento, nel sole, per porti sconosciuti, dove trovare se stessi. Poi di essere un uomo che ha fatto un patto onesto coi propri bisogni, e dunque, ormai, si occupa solo di desideri. Poi di avere una dignità, piccola, bislacca, fragile, ma una dignità, mia, che mi pesa e mi solleva. E infine festeggio il mio divorzio. La carta, il pezzo di carta, che è arrivato, finalmente. Cosa ci faccio? Nulla. Solo, ora non ho più legami imposti, vincoli che potevano essere sciolti dal buon senso, dalla dignità appunto, e che invece sono proseguiti fin qui.

Brindo a ogni laccio che si taglia, a questo ultimo laccio che mi collega a una vita che non esiste più, che forse non è mai esistita visto come sono andate le cose. Un uomo deve gioire quando capisce che qualcosa c’è, ma soprattutto quando capisce ciò che non c’è. Quel giorno, quell’uomo, fa sempre un passo avanti verso la sua vita.

Brindo alla libertà di essere vivi, di essere consapevoli, di sapere dove sta il nord, di averlo sempre saputo, di aver capito che non si può comunicare, ma di aver accettato di non farlo se non per un ottimo motivo. Brindo a me, a quanto ho patito del disincanto, della dimenticanza, dell’irriconoscenza. A quanto non ne patisco più da molto tempo. Tempo che è servito solo ad attendere un inutile pezzo di carta. Dove c’è scritto molto.

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3 pensieri su “Porti e divorzi

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