Prime righe del romanzo…

Ecco un brano del romanzo che uscirà in libreria tra qualche giorno (il 9 settembre). Un’anticipazione. Mi pare doveroso per chi viene su questo blog.
Dal 9 settembre sarà disponibile per tutti l’intera storia, e in formato libro. A chi ha voglia di leggerla, l’augurio di una vita avventurosa, non della solita musica. Una vita senza senso, come la nostra, vissuta pure in malo modo, non è dignitosa.

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(Da “Uomini Senza Vento” – Garzanti)

Il mare si è calmato del tutto. Decido di uscire. Chiamo Antonio ma è impegnato. Sta facendo visitare un po’ di case a un tedesco, uno che vuole venire sull’isola a settembre. Oreste è partito al rientro dalla pesca.
Fuori c’è brezza. Isso la randa piena e apro tutto il genoa. Makaia sembra lieta di navigare. I rumori che avevo sentito sul ponte durante la traversata verso Ponza erano quelli del riflettore radar. Serve per essere individuati meglio dalle navi. Ne ho comprato uno nuovo e lo sostituisco salendo sulla prima crocetta mentre la barca va, in pieno equilibrio. Verso mezzogiorno il vento gira a grecale
e il mare diventa una tavola di vetro. Lo prendo al traverso, e senza onda la barca si mette a scorrere come un delfino. Alza due sbuffi d’acqua sulla prua che salgono quasi all’altezza della falchetta. È un piacere filare così. Makaia è evidentemente una femmina: fa quello che deve quando c’è da lottare, ma preferisce la quiete. Ora prende tutto il vento che c’è e lo scarica sulla superficie del mare come una scossa elettrica. Sotto raffica, anche lieve, ha accelerazioni violente. Ho avuto fortuna. Con il
maestrale che c’era al mio arrivo potevo rischiare di stare in porto tutta la settimana.
Raggiungo Palmarola in un baleno, doppio gli scogli a sud e stringo la bolina verso nord.
Come un’apparizione, a metà costa, vedo lo schooner bianco che brandeggia lievemente all’àncora, sottovento.
Mi pare incredibile trovarmelo lì davanti con mezza Marina che lo cerca. A bordo è tutto fermo. Mi avvicino alla costa. Da queste parti bisogna stare attenti agli scogli. Ce ne sono molti che arrivano a un paio di metri di profondità, e io pesco due metri e trenta, forse qualcosa meno perché sono scarico.
A bordo sembra proprio non esserci nessuno. È una barca molto bella. Proprietà di un armatore attento e accurato, si vede. Avrà una ventina d’anni, con lo scafo in vetroresina, il ponte in teak e gli alberi in alluminio. Le vele sono ripiegate e irretite male, di fretta, come se fossero state ammainate con mare grosso. Non ha lazy bags, le sacche dove chiudere le vele. Lo noto perché non mi piacciono, e apprezzo sempre chi non le ha. A una trentina di metri dalla riva, mentre osservo la barca, sento uno scalpiccio sui sassi. Da una baracca sulla spiaggia è appena uscita una donna. Corre come una furia, inciampa, perde l’equilibrio, si getta tra gli scogli, cade, si rialza. Dalla porticina è uscito anche un uomo, basso
e robusto, sorprendentemente agile e veloce, che la insegue. La scena è improvvisa, e ha dell’incredibile.
Non c’è anima viva, la giornata è serena, il mare sottovento all’isola è calmo, l’atmosfera placida. Ho davanti solo due persone che corrono, eppure tra loro c’è una violenza palpabile, un’elettricità a distanza, e il mio cuore va subito a mille. Non so che fare. Makaia scorre nella stessa direzione
della fuga. Ho ridotto vela raccogliendo il genoa per guardare lo schooner, e la barca è spinta solo dalla randa. Accosto di centottanta gradi e ritorno sulla mia scia, la donna corre veloce, ma il suo inseguitore la incalza. Ora vedo che l’uomo ha in mano qualcosa di lucente.
Un coltello!
Spingo la prua verso la riva, pronto a sentire il colpo su uno scoglio, da un attimo all’altro. Fischio forte alla donna, che appena si accorge di me compie un gesto ancora più imprevedibile, fa tre salti e si tuffa in mare. Deve essere proprio terrorizzata per reagire così. L’uomo non immaginava una cosa del genere, e resta un attimo sulle gambe, poi riprende la sua corsa verso un barchino a remi, a poca distanza. Ci si getta dentro con un balzo fragoroso e per poco non finisce in acqua per l’imbardata
dello scafo. Comincia a remare con grande coordinazione. Sa quello che fa. Il barchino scivola rapido sulla superficie, e l’aria che scende dall’isola lo spinge da poppa, rendendolo ancora più veloce. La donna nuota bene, ma tra vestiti e stanchezza non può certo competere con la
barca.
Accosto ancora di centottanta gradi e mi metto con la prua al vento, il più vicino possibile. Lancio l’anulare di salvataggio in mare, con la cima legata alla galloccia, e men tre la donna fa le ultime bracciate apro tutto il genoa, lasco la scotta di randa e poggio seccamente, per prendere vento e far accelerare Makaia. La cima non è molto lunga e la donna riesce ad afferrarla quando l’anulare
inizia già a seguirmi. L’inseguitore si è avvicinato, ma Makaia sotto tutta vela si piega bene e accelera senza indugio, tanto che la ragazza al traino è quasi del tutto fuori dall’acqua e lascia dietro di sé una scia pro fonda. La recupero con il winch, sperando che non molli la presa. Dopo pochi minuti è a bordo e io orzo per prendere più velocità. In un istante siamo al largo.

È calma. Non mi ha detto una parola. Io sono al timone e mi volto indietro di continuo, per dare rapide occhiate. Se quello prende un gommone e ci insegue non abbiamo scampo. Dal tambuccio vedo che si è tolta la felpa e la sta strizzando nel lavandino. Fa lo stesso con i jeans. Va in bagno mezza nuda, poi esce con un asciugamano intorno al petto, che le fa da vestitino doposole. Si muove come se la barca fosse la sua, o come se sapesse dove trovare quello che le serve. Fa un po’ freddo, ma lei non ha neanche un brivido.
«Faccio un caffè?»
Come sarebbe a dire un caffè? Ho ancora il cuore che mi batte veloce nel petto. Un coltello, una donna che si butta in mare, la barca quasi sugli scogli, la fuga… Non mi viene da dirle: «Sì, ottima idea!» ma lei non aspetta: la guardo aprire un armadietto, trovare la caffettiera al primo colpo, svitare la macchinetta e riempirla, accendere il gas, poi una sigaretta. Si siede sulla dinette di sinistra, un
po’ piegata su sé stessa, con gli occhi a terra, come se stesse pensando a quel che è appena accaduto. Qiundi si rilassa, si appoggia allo schienale, non la vedo più, a parte i suoi piedi appoggiati sul tavolo.
«Pronto?»
«Ué, Renà…»
«Ciao, Antò…»
La donna fa un balzo fin sulla scaletta e digrigna i denti, scuote la testa, si mette un dito in verticale davanti alle labbra e poi, per buona misura, si passa lo stesso dito sul collo, con un gesto rapido e orizzontale, come a tagliarsi la gola, tirando fuori la lingua e strabuzzando gli occhi. Sul suo viso si dipinge la maschera della paura.
«Renà, mi senti? Stai bbuono?»
«Sì, scusa, c’è un po’ di vento e sono al timone.»
«Stai a Palmarola? Hai visto la baracca?»
«Sì, l’ho vista…»
«Che ne pensi? Ué, ma tu sî strano assai! Che ti prende?»
«Sali sul gommone e vienimi incontro. Abbiamo un
problema.»
Antonio attende due o tre secondi. Sento che prova a ricostruire una scena nella sua testa. La ragazza chiude gli occhi e sospira, portandosi una mano sulla fronte, disperata.
«Arrivo.»
Quando il gommone ci affianca siamo parecchio lontani dall’isola. Ho continuato a navigare per ovest-nord-ovest, scegliendo l’andatura che mi consentiva maggiore velocità di fuga. Antonio mi ha chiesto via radio la posizione, e ci ha trovati facilmente. Salta a bordo e lega una cima a una galloccia.
«Ciao.»
Come sarebbe a dire «ciao»? Antonio e la ragazza si conoscono. Lei mi guarda, mi allunga la mano.
«Sono Sara Consolo…»
Per di più sospira, come dire che le formalità le fanno perdere tempo, non le interessano.
«Vi conoscete…?»
«Sì, Renà…»
Antonio abbassa gli occhi, come fingendo di cercare qualcosa intorno, sul ponte, poi si siede e guarda il mare.
«Bene!» dico io, col tono di chi scopre che gli si nascondeva qualcosa.
Antonio mi racconta del contatto radio avuto con la ragazza, della sua ritrosia a parlare. L’ha chiamata ogni volta che l’ha intercettata sul VHF. Voleva farsi raccontare della balena. Sentiva che la stava cercando da giorni. Finché lei si è fidata e gli ha risposto. Lo ha tempestato di domande, cambiando continuamente canale, ma senza dire il numero in chiaro, facendo degli indovinelli.
Quando ha saputo che Antonio amava i romanzi di mare, gli diceva: «Il numero dei marinai sulla cassa del morto, e una bottiglia di rum per conforto. Due volte quel numero». Oppure: «Le prime due cifre della pagina dove Achab fa il monologo della moneta. Edizione Mondadori». Così avevano comunicato stando il più possibile al riparo da voci indiscrete. Si erano anche incontrati, a nord di Ponza. Sara gli aveva raccontato della balena e di tutto il mistero che le stava intorno.
«La sera che sei andato da Esmeralda dovevamo incontrare Marcello per farci raccontare quello che sapeva. Ma lui non s’è presentato. L’avevano già ammazzato.»
Io mi siedo. Metto il pilota automatico, accendo una sigaretta. Mi sembra di essere precipitato in un romanzo di Bjorn Larsson, con i personaggi che giocano a fare gli avventurieri. Un gioco pericoloso.
«È rubata la barca?»
«Ma che cazzo dici? È mia!»
«La guardia costiera dice che è rubata.»
«E tu dai retta a quegli stronzi?»
«Che voleva quell’uomo?»
«Farmi secca, suppongo…»
«Perché?»
«Che te ne frega? Mi hai aiutata, grazie. Riportami sulla
mia barca e non ci vediamo più. Fine del problema. A
te non faranno alcun male. Non se la prendono con i turisti.»
Ha detto «turisti» col tono con cui io avrei detto «mezze seghe inutili e insignificanti».
«Chi dovrebbe fare del male, e perché?»
«Ma tu chi cazzo sei? Grazie per l’aiuto, ora portami alla
mia barca.»
«Dai, mo’ diamoci una calmata, nun fa’ ’a stupida… Renato è un amico, ti ha pure salvato la vita…»
«Io sono calmissima. E non permetterti di chiamarmi stupida un’altra volta. Ho da fare, e di corsa. Riportatemi indietro… per favore.»
La voce della ragazza, sul «per favore», si è addolcita all’improvviso, supplichevole. Rimaniamo entrambi spiazzati. Scendiamo sotto coperta, e mentre preparo qualcosa da mettere sotto i denti Antonio mi parla, in imbarazzo per avermi taciuto molte cose.
«È per via della nave nera…» mi dice Sara a voce bassa, venata da una specie di concessione.
«L’hai vista?» le chiedo mentre armeggio nel frigo.
«La inseguo da settimane. Incrocia nel Tirreno centrale
da almeno sei mesi. L’altra sera quando s’è messo maestrale, facevo abbastanza nodi da potermi avvicinare. Ho visto che puntava da queste parti e l’ho rincorsa. Poi s’è messa onda forte e l’ho persa.»
Antonio la guarda fisso. Capisco che anche lui è perplesso sulla ragazza.
«Perché ti stanno cercando?»
«È una lunga storia…»

Il mare è appena ingobbito, ma lungo e sospirante. Sara non ha voluto dire una parola e noi non l’abbiamo forzata. Aveva gli occhi rossi e piccoli di chi è stanco morto e non fa una vera dormita da giorni. Poi s’è addormentata. La mia felpa le stava grande, le faceva quasi da vestito, ma almeno era asciutta. Io e Antonio ce ne siamo andati in pozzetto a parlare. È venuta sera, intanto. Io mi
metto addosso tutto quello che ho a bordo, perché ho freddo.
«Che t’avevo detto?»
«Ma che m’avevi detto, Antò? Ma che!? Io non ci capisco niente, e tu pare che hai capito tutto… Grazie di avermi raccontato della ragazza, a proposito…»
«Renà, ma allora nun capisci! Questa storia è ’na cosa grossa. I’ tengo paura pe me, figurati pe te che sî ’o chiù grande amico mio! E po’ essa m’aveva ditto che se ne parlavo co qualcuno mettevo in gioco la sua vita…»
«Oooh…»
«Ma come!? Chell’è chiaro! Lei ha scoperto i loro traffici e loro la vogliono eliminare.»
«Ma loro chi? Ma che dici? Io non so di chi stai parlando. Non so di nessun traffico. Tu hai visto qualche film di troppo. Ora lascio questa ragazza alla sua barca e me ne torno in porto, va bene? Non vedo nessun traffico… E sono pure in vacanza…»
«Ué, ma allora sî proprio scemo! Chella guagliona sta in un mare di guai! La nave nera, Marcello, la baracca sulla spiaggia, l’uomo che la vuole accoltellare, l’acqua marrone…»
«Io non so in che guai si trovi questa qui. Ma so che non sono affari miei, Antò. Se ha provato a entrargli nella baracca, quello ha fatto bene a correrle dietro. Tu che faresti se trovassi qualcuno che sta scassinando la porta di casa tua? Poi, se la baracca è abusiva è un altro discorso… La guardia costiera dice che ha rubato una goletta. Allora? Che facciamo, stiamo con i ladri o con la legge? Io sono
sempre stato con la legge, e tu pure, mi risulta…»
Non dico niente dell’effrazione su Makaia. Se glielo dicessi sarebbe un’ulteriore conferma, e io non voglio confermare. Al contrario, voglio confutare, andarmene, pensare ad altro. Magari m’è solo salita in barca la finanza per un controllo, oppure è una mia impressione, la porta della cabina l’ho lasciata aperta io, i documenti si sono mossi in una rollata. Squilla il telefono, vedo sul visore che è la mia ex moglie. Attacco senza rispondere. Il telefono squilla altre due o tre volte, e io tutte le volte
schiaccio il pulsante rosso.
Antonio si è seduto e fuma. Anche io accendo una sigaretta. Mi arriva un SMS, immagino il contenuto, lo cancello senza nemmeno leggerlo. Antonio però ha ragione. Qualcosa non quadra. Qualcosa
sta prendendo una piega un po’ diversa dal solito. Mi pare di avvertire un sapore sconosciuto sotto il palato.
Ho anche un po’ paura, a essere sincero. Mentre ci allontanavamo da Palmarola ho guardato indietro e ho visto l’uomo nella barchetta. Aveva smesso di remare. Si passava una mano tra i capelli, dopo averla bagnata in mare, e ci guardava fisso. Mi è tornato alla mente il riflesso del coltello alla luce del sole, e mi si è gelato il sangue. Io non c’entro nulla con la violenza, con l’illecito, con l’azione. Non sono uno di quegli uomini che sanno entrare a piedi uniti nelle cose. Ho sempre amato i romanzi d’avventura proprio per questo, perché al prezzo di un libro tascabile mi danno quel brivido che per mia
natura non vivrei mai dal vero. Tutta la vita ho lavorato alla riduzione della complessità,
all’eliminazione delle responsabilità, dei patemi, degli scontri. Sono il prodotto della più autentica decadenza maschile occidentale, sono l’homo faber del disimpegno. Sto bene quando non ho alcun dovere, quando le cose non presentano alcuna sfida. Io l’impegno lo odio!
Sogno una vita in cui non devo fare nulla per forza, ma posso fare quello che voglio. Il problema però è questo: libero di fare che? Forse niente. Sogno di non fare niente…
Arriviamo sotto Palmarola. Ci avviciniamo alla costa. Non si vede nulla, neppure una luce. Controllo sul GPS e vedo che siamo dritti sul punto che ho segnato, dove c’è la barca all’àncora. Il mare è di nuovo calmo. Sara si è svegliata. Se ne sta sulla scaletta, guardando verso prua, con una sigaretta tra le dita.
Raccolgo il genoa e procediamo solo con la randa. Ora siamo proprio sottocosta, navighiamo parallelamente all’isola.
«L’hanno presa…»
«Ouii, nun ce sta!»
«Che figli di puttana…»
«Renà, se so fottut’a barca.»
Non c’è traccia dello schooner, in effetti. Nessuna luce nella baracca, pare deserta. Di questa storia capisco sempre meno. La ragazza sembra tranquilla. Come se non si aspettasse di trovarla. Finisce la sua sigaretta, rientra sottocoperta, la spegne sotto al rubinetto dell’acqua di mare e la getta nell’immondizia. Io risalgo verso nord, scapolo la grande roccia ed entro in baia. Antonio salta sul gommone,
lo libera e lo assicura a un gavitello poco lontano. Poi torna a bordo e diamo àncora. Al termine dei lavori fumo una sigaretta. Poi scendo. Antonio s’è appisolato su una delle dinette. La ragazza sta tracciando rotte sulla carta del Tirreno centrale. Le tendo una mano.
«Io sono Renato.»
Mi guarda con occhi selvatici, di sotto in su, colma di diffidenza. Poi il suo sguardo si scioglie un poco. Non si muove.
«Grazie…»

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8 pensieri su “Prime righe del romanzo…

  1. Intrigante questo inizio…mi piace anche la terminologia velistica. Beh i corsi di vela son serviti! Almeno quando leggo so di cosa si sta parlando!! Mi immagino già le scene. Aspetto di poter leggere la tua nuova creazione. Grazie per questa anticipazione. Buon vento, scrittore che naviga.

  2. Un giorno succede che il tempo cambia.
    La vela riconosce il vento e la barca riprende a navigare senza rotta nè destinazione. Il marinaio sente le onde e respira il profumo del mare.

  3. A volte in testa si accendono delle idee illuminanti, come lampadine o meglio, candele. Sono prospettive inusitate, nuovi modi di vedere e vivere le cose, talora di una banalità disarmante, tanto da farci esclamare “Ma perché non ci avevo pensato prima?!’”
    Sono situazioni non volute, dettate un po’ dal caso e un po’ dall’imperizia del turista perfetto, per le quali cinque minuti prima di viverle ci sentiamo degli “sfigati” e dopo, trascorso il fisiologico tempo necessario di “accomodamento” visivo, quando ad una certa ora vedi andare tutti in posti prenotati mille anni prima secondo la migliore tradizione di vacanza all inclusive delle tante vite preconfezionate, dei privilegiati, in quanto, ad esempio, osservatori delle stelle senza inquinamento luminoso, con l’intera via lattea in tutto il loro splendore. In quei momenti di riflessione forzata, ma piacevole, non puoi pensare se non in termini di crescita.
    Una sensazione inspiegabile, che permane; non è facile togliersi il sale dalla pelle. Un granello di salsedine rimarrà come barlume di rinnovata coscienza.
    Che quella candela possa illuminare per sempre le nostre indimenticabili letture nottturne in rade pacifiche e solitarie!
    Una vacanza altrenativa, come laboratorio sperimentale di nuovi possibili percorsi, all’insegna del mare e aggiungerei della corrente del fiume (và dove ti porta il primo traghetto in partenza), senza orari, apparentemente senza una meta prestabilita, per il gusto dell’imprevisto e dell’avventura, con un biglietto per il rientro in Italia mai utilizzato, poi riacquistato per un successivo rimpatrio non più procrastinabile, con problemi reali da affrontare (quando l’acqua finiva si risaliva dalla spiaggia, ma che sapore quei pomodorini tagliati a metà! senza condimento se non un sano appetito). E quanti incontri inaspettati se si va col cuore leggero, una bambina felice, dei giovani gestori di un ristorante che tra un pranzo e una cena si concedevano delle pause o meglio dei momenti di vita in armonia con quel luogo da sogno, semplicemente prendevano il sole e facevano un tuffo nelle acque cristalline; un viandante proveniente da qualche angolo sperduto della terra, che non sapeva neanche dove si trovasse la città dove abito e lavoro, se al nord o al sud; una conterranea con spiccato accento meridionale che ti fa sentire un pò a casa e che inevitabilmente si finisce per conoscere soprattutto se sulla spiaggia si è solo in due. Ci siamo ripromesse di rivederci. E la musica greca che ti rapisce e non ti fa più tornare, la dolce melodia delle onde. Una croce alta due metri in ferro piantata sullo scoglio a difesa della mia tranquillità.
    Quante persone diverse, ognuno col suo viaggio, ognuno con la sua storia!
    Quanto ho descritto è solo uno dei benefici effetti collaterali dei rendez-vous di Simone ai moli, viaggi dell’anima, alla scoperta di nuove e imprevedibili frontiere dell’essere.

    Un saluto a tutti i viaggiatori veri.
    Grazia

  4. L’azione pare non mancare in questo libro!
    Dovrò rispolverare le terminologie del mondo nautico visto che sei molto dettagliato nella terminologia.
    Un imbocca al lupo per il tuo nuovo successo.
    Buon vento
    Alberto
    Live simply take it easy

  5. sembra interessante, non ho ancora capito un tubo della storia e già tiene con il fiato sospeso….penso che lo comprerò, sperando che il tuo editore non sia esoso con il prezzo di copertina….se comprassi tutti i libri che vorrei, altro che downshifting…..

  6. Mi piace Simone! I miei “primi” 40 anni descritti alla perfezione nello spazio di due righe: “Tutta la vita ho lavorato alla riduzione della complessità, all’eliminazione delle responsabilità, dei patemi, degli scontri. Sono il prodotto della più autentica decadenza maschile occidentale, sono l’homo faber del disimpegno. Sto bene quando non ho alcun dovere, quando le cose non presentano alcuna sfida. Io l’impegno lo odio!” Ora che ho fatto il giro di boa, sto lavorando sodo per dare dignita’ ad un’esistenza (magari senza senso) ma che non mi lasci troppi rimpianti… Buona navigazione.

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