E se non mi fermassi più?

dalla finestra

Scrivo sui tetti, come i gatti…

Scrivere è come navigare. Salpi con una rotta tua, solo a bordo, ma sai che presto ogni cosa cambierà. Da sotto coperta, come fantasmi, sorgono già la prima notte iperborei clandestini. Chi sono? Come sei potuto salpare senza sapere che fossero a bordo? Ti guardano, invocano d’essere assunti nell’equipaggio. Prendono colore al sole del mattino, occhi chiusi, volto al vento, capelli in aria. Toccano le manovre, si adoperano, e presto cominciano a star meglio.

Quando sono apparsi tutti, iniziano a discutere. Ognuno vuole tenere la barra in pugno, qualcuno ha in mente un’altra velatura. Chi dice per di qua, chi indica laggiù. Devi intervenire, sempre, e duramente, e in questi casi vorresti subito atterrare, abbandonare la nave, non vederli più. Ma se vanno d’accordo e il tempo è stabile, sempre pensi che potresti proseguire. Quante volte, navigando nel mare vero, ho detto tra me e al mio equipaggio: “E se andassimo lunghi? Se corressimo ancora avanti, con questo vento amico, e non ci fermassimo mai più?”.

Questo penso, oggi, mentre scrivo, anzi da mesi. Volo con l’inchiostro sulle righe e vedo dipanarsi il filo aggrovigliato ed elzeviro della storia, che si contorce, si accavalla, ma scorre come uno scafo ben bilanciato sul Mar Bianco della pagina. Ogni giorno scrivo pagine, pagine, pagine, sono ormai quasi a un milione di caratteri, che valgono quattro volte il volume del mio ultimo romanzo. E nonostante questo la tentazione di proseguire, come in barca, è forte, quasi irresistibile, e vorrei andare lungo, sereno, con l’aliseo che porta senza raffiche, fin oltre l’orizzonte. Scrivere ancora, e ancora, all’infinito…

A bordo, del resto, l’equipaggio preme. Spinge perché si navighi ancora, perché nessuna fine tolga loro l’ultima parola. Vogliono continuare a bordare le vele del discorso, tendere le scotte della storia, arridare le sartie a giustificazione delle loro azioni, perché reggano al lettore inquisitore che verrà. Io da tempo ormai non parlo più, non do più ordini. So che sarebbero vani, perché l’equipaggio è composto da donne coraggiose, pirati esperti, spie senza scrupoli, furbi contrabbandieri e anime già morte. La galera procede in mani sicure e a questa gente non è facile imporre alcun volere. Talvolta ho perfino paura di aprire bocca: che non si liberino di me, non si ammutinino gettandomi fuori bordo alla minima distrazione…

Da comandante di questo romanzo, oggi sono mozzo della storia. Me ne sto a poppa, seduto al giardinetto, e guardo l’equipaggio che conduce, oppure fuori dalla murata, verso gli orizzonti che sfiliamo. A volte sono malinconico, ma sempre orgoglioso di come vedo che si muovono sul ponte. Mi auguro che la rotta che hanno scelto ci conduca in qualche porto sicuro, dove sia possibile sbarcare, oppure nel mare sempre più alto e aperto dove la barca, a furia di sfregare sull’acqua, si logori, si consumi, si sbricioli, e ci restituisca tutti al mare.

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10 pensieri su “E se non mi fermassi più?

  1. Mi incuriosisce sempre molto la facilità che hai di cambiare ambiente, location. Da questa finestra sui tetti, si vede che non sei a casa tua. Scrivi dai tetti. Ma i tetti di dove ? Dalle rotte di Mediterranea, dalla tua casa, dai tuoi viaggi….dai tanti luoghi, dagli arredi autoprodotti, riesci poi a “sganciarti” senza sentire alcun peso ?
    Una volta hai scritto che c’è chi fa fatica anche a cambiare piano dentro lo stesso condominio. ..hoimè… quant’è vero ! Io vorrei tanto assomigliarti in questo. Avere più leggerezza. Perchè è la leggerezza che permette il movimento. Curiosa, ammirata …e un pò invisiosa…. ti saluto.

    • è una coperta corta, Raffaella. Ti muovi facilmente, vivi il presente e il futuro, non hai una “sede”, sei apolide e nomade… dunque guadagni su molti fronti in visione, leggerezza, ubiquità emotiva perfino… ma non hai radici, non hai una storia, e a volte ti senti smembrato, disperso, incorporeo, e invidi chi torna al paese da sempre.

      E’ un po’ come chi cambia lavoro spesso, non avrà mai la grossa liquidazione a fine rapporto. Io sto tentando di navigare sul filo, tra un centro e l’assenza di centri. Sto sperimentando il nomadismo residente, la residenza apolide, l’esserci davvero, in un luogo, e il vagare.

      Ho la fortuna di avere la facoltà più utile per vivere così: la meraviglia. Io vedo baie da trentacinque anni, magari le stesse, e ancora mi meraviglio. Riesco ancora ad amare, a sperare, a sognare, pur essendo una persona concreta, che si sforza di selezionare le illusioni dai progetti. Preferirò comunque, sempre, essere ingannato che non fidarmi. Cerco di morire morto, essendo vissuto del tutto, fino in fondo. ciao!

  2. Chi ci obbliga a fermarci scrivevo qualche giorno fa.
    Lo Stato dell’Arte.
    Del materiale. Di chi lo deve usare.
    Elementi che non bisogna sottovalutare. Ci si deve fermare in certi casi.
    Un errore costa assai di più quanto più tardi lo scopri.
    Una perdita d’olio, un premistoppa usurato si riparano meglio in porto.
    E dopo si esce.
    Materiale nuovo tenendo conto che lavorare sull’usato costa il doppio e rende la metà.
    La Vita ci sabota, ci sopraffà e ci deforma.
    E’ durissima.

    • no, un romanzo unico. impossibile rifare uno sforzo così tra ricerca, studio, viaggi, immedesimazione. E poi personaggi così sono unici, partoriti dalla storia già romanzeschi, a cui dare solo voce… Ora ultimo sforzo, anche se la tentazione di andare lungo è forte…

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