Chiusure. Che aprono.

I Dioscuri. E Athena.

Portare a termine. Concludere. Condurre a compimento. Espressioni in cui qualcuno può leggere la parola “fine” come preminente, mentre invece sono un inizio. Non si può iniziare niente (o quasi) senza prima terminare altro. Ci dev’essere una “fisica psicologica” che lo impedisce. Occorre spazio per mettere nuove cose, e per fare spazio bisogno decidere che qualcosa è terminato. Quando finisco un libro, ho la scrivania stracarica di romanzi e di saggi, appunti, ritagli, schede, il posacenere è pieno di sigarette spente, devo dare una rassettata, pulire, togliere, riporre, per ritrovare spazio, perché quella scrivania, a breve, tornerà a riempirsi di cose, mattoni di un mondo in costruzione. Ecco perché serve sempre una data. Ecco perché serve (spesso) una festa, andare a letto un po’ storti, magari un po’ alticci e stanchi, perché serve la catarsi, qualcosa che segnali bene, forte e chiaro, che si è chiuso un cerchio, quello che avevi cominciato è stato portato a termine.

Mi colpisce una cosa: la paura di concludere che abbiamo in tanti. Concludere per i più vuol dire fine, cambiamento in peggio, interruzione, morte, perdita. Mentre è l’opposto. Come per Progetto Mediterranea, che ieri l’altro a Genova è arrivata dove si era prefissata sei anni e mezzo fa, nel maggio del 2013. Allora per molti era una speranza, un po’ folle, un po’ incosciente, di andare a vela a vedere tutto il Mediterraneo, studiarlo, conoscerlo, incontrarsi nelle stanze della propria casa, insieme, condividendo, costruendo. Ma io non salpo per porti dove non intendo davvero arrivare, e alla fine del periplo c’era Genova, stabilita da principio, e ci volevo giungere come da programma, dare volta alle cime sulle sue bitte. E così è stato.
Ora qualcuno dice: “beh, ma adesso? Mediterranea non si può, non si deve fermare!”. Va bene, andiamo avanti allora. Ma come? L’elemento essenziale era arrivare, appunto. Concludere. Solo così possiamo ripartire.

Per partire bisogna muoversi da qualche parte, e in quel posto bisogna esserci arrivati. Bisogna dunque aver prima “finito quello che si stava facendo”. Ecco perché qui concludere vuol dire cominciare, non ha niente della fine, al contrario, è un inizio. E allora mi chiedo: come fa la gente a iniziare le sue cose se non conclude mai niente? Non sarà che a furia di non concludere, non si comincia mai nulla? Mentre bisogna impegnarsi, in prima persona, sempre, avere un progetto, e i progetti hanno un tempo, e poi fare, fino alla fine, per poi trainare ancora, se stessi e gli altri, in qualcosa di nuovo, migliore del precedente.

Non preoccuparti mai di quello che finisce. È solo un bene che giunga a compimento. Inizierà qualcosa. Partirà, avrà senso, andrà avanti, giungerà a compimento a sua volta. E visto com’è andata fin qui, direi che ti puoi fidare. Però, invece che preoccuparti ora di quello che sta terminando, stavolta pensa a lavorare a quello che comincia. Stacci dentro sul serio. Fai in modo che il giorno dell’arrivo, tra tre anni, o magari tra sei, sia per te la fine di qualcosa che hai iniziato. Davvero.

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2 pensieri su “Chiusure. Che aprono.

  1. Com’è poetico questo pezzo. In realtà un filo di poesia percorre, secondo me, tutto quello che scrivi. Ma questo ha un sapore buonissimo e un pò amaro, come una tazza di specialissimo caffè, che bene si addice agli scrittori, ai marinai ed ai pionieri come noi. Grazie Simo. Buon vento per il nuovo inizio.

  2. Idealmente non si può iniziare niente, senza prima terminare altro, anche perché si genera stress.
    BISOGNA CONTINUAMENTE RICOMINCIARE DALLA FINE.

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