Al Lettore

(qui sotto, per voi, anticipazione della “Nota al Lettore” pubblicata in calce a “I Momenti Buoni”. Ci videoascoltiamo domani)

(domani, 2 febbraio, su Instagram)


Non so comporre lo stesso romanzo ogni volta.
Invidio chi ha un protagonista ricorrente per le sue storie, e anche chi ha trovato un proprio stile definitivo. Io non ci riesco.
Io conto il tempo che mi resta, ogni giorno, e mi chiedo: basterà? Riuscirò a sperimentare tutte le soluzioni per esprimere l’inesprimibile?
Le parole mi ossessionano. Le infinite possibilità di una frase. Per questo sono condannato a sperimentare, ogni volta.

Inoltrarmi in terre sconosciute, per i mari estremi della composizione. Devo farlo per me, per misurarmi, per capire cosa ho tra le mani, se oro, se aria. Se nulla.
Da anni penso di scrivere un romanzo di fantascienza, prima o dopo lo farò. Vorrei anche scrivere un romanzo d’amore, e un kolossal catastrofista. Non so se a un certo punto, finalmente, troverò il genere, il linguaggio.

Per me la scrittura è un sentiero, devo percorrerlo tutto. È uno strumento, non un fine. L’unico modo serio che conosco per comunicare. Per dirsi tutto.
Un romanzo come questo non lo avevo mai scritto. Volevo sperimentare il genere erotico, in partenza, perché il sesso è una delle grandi questioni, e nei romanzi finisce sempre col restare in disparte, come fosse un dettaglio. L’assenza del sesso da un numero enorme di storie letterarie somiglia a una rimozione culturale, forse dovrei dire sociale. Può, qualcosa di così enorme, l’istinto che ci conduce così spesso, e fortemente, restare fuori da un testo in cui si parla delle nostre vite? È giusto?

Ma mi sono accorto che non bastava. Il genere erotico ha regole troppo semplici e ripetitive.
Compie l’errore opposto, parla solo di qualcosa, tralasciando tutto il resto. E anche descriverlo, il sesso, è un campo minato. Si rischia troppo, oppure troppo poco, e la storia, nel suo insieme, sembra scritta col dito sulla sabbia, mentre io volevo costruire un castello. Intanto, le notizie mi davano colpi pesanti, la realtà mi batteva sulle tempie.

Sentivo che dovevo uscire dal mio mondo, almeno per un po’, lasciarmi sommergere dalla merda della vita invece che evitarla facendo l’enorme fatica del sorvolo. Volevo interrompere la fatica quotidiana per non essere tirato giù.
Allora ho ricominciato a leggere la cronaca, e montagne di resoconti giudiziari sulla criminalità, sulla condizione minorile, relazioni su droga, alcol, dipendenze, degrado, abusi. E senza accorgermene sono riemerse cose accadute a me, o a cui ho assistito.

Il mio lato oscuro s’è cibato di tutto questo fino a intossicarsi. Volevo anche smetterla con la poesia delle parole. Le parole non evocano soltanto, sono anche schegge di vetro. Hanno zampe ungulate, talvolta, e una pelle abrasiva. Grondano muco, masticano bava. Ho provato l’impellente attrazione di scrivere per una volta con un linguaggio meticcio, come si racconta ma anche come si parla, come ho letto nei verbali dei processi, con il tono di quei testimoni. Le voci di ragazzi spaventati, o di donne ferite, hanno un suono diverso. Volevo usare i termini in cui confluisce la realtà. Le parole della violenza e dello schifo. Ero pronto a scrivere male, se necessario. A fare errori.

Mi sono convinto che le parole non sbagliano mai. Ne è scaturita questa storia. E mi spiace se ho spiazzato qualcuno e l’ho costretto ad abbandonare qualcosa di amato. Non c’era alcun sadico obiettivo in questo. Solo, non potevo fare diversamente. Se sapessi che c’è qualcosa che non potrò mai raccontare, smetterei oggi stesso di scrivere. Credo sia la maggiore garanzia che posso offrire a un lettore.
Il punto è che una sola vita non basta. E nemmeno un romanzoNella foresta dei sentieri incrociati non posso far altro che prendere sempre in direzione dell’altrove. Il luogo che non ho ancora conosciuto, dove risiede un pezzo di me, di noi, con cui dobbiamo ancora fare i conti. Con cui, bello o brutto che sia, grato o ingrato, dobbiamo ricongiungerci, almeno se speriamo ancora in una riconciliazione con la vita.

Non è per posa, o per eccentricità, che mi dirigo sempre altrove. Non prendetevela con me.
Siamo noi, piuttosto, che siamo stati smembrati e sparsi dovunque. Io sto solo cercando di rimettere insieme i pezzi.

Simone Perotti.
Agosto 2020. Su un’isola del Mediterraneo

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2 pensieri su “Al Lettore

  1. Letto ieri. Sono ancora rintronata, come dopo una fatica grande. Libro diversissimo, lontanissimo, da quelli precedenti e da quelli in cui generalmente sto comoda. Simone, qualche tempo fa hai preconizzato ci sarebbero stati lettori che sarebbero caduti dentro questa storia, altri l’avrebbero respinta trovandola eccessiva. Io ancora non ho capito a quale gruppo appartengo. Ho avuto spesso l’impressione di un libro che ne contiene tanti, tutti intrecciati. Un po’ come stare a un crocicchio e essere colpita, accarezzata, accolta, menata a seconda di chi arriva da una delle vie ad una velocità assurda. Nella prima parte ho pensato spesso: “no basta, te prego, sfighe e violenze e perversioni gratuite senza fine no.” Nella seconda: “ma perché si ferma a rovistare ancora in questo schifo? Perché questo amplificare ciò che già in dosi minime e “normali” è vomitevole…basta!”. Da donna, in certi tratti, ha dato proprio fastidio, tanto – la percezione dei corpi nel libro è inevitabilmente tanto (troppo?) maschile. Quelli i punti in cui mi sono pure un po’ incazzata. Ma forse è solo una mia sensibilità. Alla fine però non ho nemmeno saputo staccarmi (lo faccio di rado, quando è noia, e nel tuo libro noia non è un concetto). Sono ancora rimestata, ma sento chiaramente che è esattamente come deve essere. Se uno sta a un crocicchio, appunto, arriva di tutto, una vespa che ti suona perché sei d’intralcio, un amico che aspetti, uno degli stronzi che non vorresti più vedere, un molestatore seriale, il bambino che s’è perso. Tutto. Succede. Ma resti lì, per uno scopo preciso, in attesa di qualcosa. Il centro è lo spazio, non tu e il tuo misero io che è solo un’autoconvinzione effimera. Ho dovuto leggerlo così. Il tuo libro è un luogo così, per me. Tranquillo e Pratico ancoraggi di una sonda spaziale per percorrere una dimenzione brulicante (grecamente, non all’iperoggetto di Morton, che è una pippa in confronto ai classici). Tu hai messo un’amplificatore e un luts a neon su questa dimensione – e quello è stato un peso per me, perché odio il casino e l’eccesso. Però non ci fossero stati, tutto si sarebbe perso. Come ad un crocicchio, appunto, ché appena te ne vai te lo dimentichi, credendo di essere tu il perno del mondo (seh…). Invece tu eri un elemento del crocicchio – variabili invertite. In quel crociccio, con quell’eccesso messo dal tuo libro, è come se l’ordinario schifo che si vede – amplificato – fosse stato coperto da un’eruzione vulcanica che, a solidificazione compiuta, lo rende visibile e inaggirabile, senza però consegnaro all’immoto. Ti ci vedi pure tu, alla fine, lì in mezzo, ad annaspare. E ne resti – appunto – rimestato. Vabbé, potrei continuare, ma non ha senso. Solo per dire che la lettura è stata una fatica, ma ne è valsa la pena. Uno di quei libri che non ti lasciano comoda, non ti distraggono (dio ce ne scampi), ma ti sfidano, come dovrebbero fare le storie. E alla fine ti costringono a prendere posizione – e prendere posizione, ancora, ha a che fare con lo spazio tridimensionale. E siamo al crocicchio, di nuovo. Noi ce lo immaginiamo sempre come una roba vuota, eterea, pulita, lo spazio tridimensionale. Invece è in gran parte pieno (Aristotele batte Platone 1 a 0 in questa), in gran parte di robe ripugnanti. Scarti. E allora – e chiudo questo sproloqui – ma ci tenevo a lasciare un feedback di lettura ché il minimo che un lettore può rendere all’autore – alla fine più che a Shakespeare o Haruf, alla fine del tuo libro, ho pensato a Zanzotto, al suo Galateo in Bosco, a quell’immenso straordinaria ode allo scarto, alla decomposizione, a quel “pozzo del mio corpo, corpo affondato, \ alle sue indimostrabili potenze collegato \ ai suoi pus alle sue verdi/vermi reazioni …” da cui, tutti, in fondo, di passaggio, crocicchi di vermi e angeli, facciamo cenno al prossimo e gli chiediamo pensando allo spazio e non al tempo, senza parole perché con le parole diciamo altro, “mi aspetti intanto (o no?)”
    Bon, sproloquio, lo so, ma pace, questa è la resa per Simone.
    Invece per chi ancora non l’ha fatto, dico solo: compratevi il libro e leggete.

    • Cara Stefania, accidenti, lo hai già letto. Io ci metto anni a scrivere e poi…
      Non mi abituerò mai a questo.

      Io lo avevo detto che era duro. E che era diverso. E rileggendolo anch’io (un autore non “riconosce” il libro stampato, perché per anni lo ha visto in documento di lavoro, e dunque legge davvero e “per la prima volta” il suo libro solo quando ne ha tra le mani il volume, e lo legge come un lettore, stupendosi, commuovendosi…) ne colgo l’estrema differenza, e la ruvida durezza.

      Ma era esattamente quel che avevo in mente. Il mio progetto di scrittura era dare un cazzotto in faccia a me a te a tutti. Un libro così serviva a me scriverlo, prima di tutto, perché dentro era montata la marea, e non la contenevo più, e serviva scriverlo anche in generale, perché ci siamo tutti da troppo tempo adagiati in ciò che dovrebbe farci reagire, consideriamo tutti troppo normale ciò che deve invece generare reazione, riprovazione, rivoluzione. Non possiamo tollerare questo mondo, e invece lo facciamo. Anzi, peggio, lo consideriamo normale, acquisito, ci voltiamo dall’altra parte.

      Volevo scrivere un romanzo in cui non fosse possibile girarsi dall’altra parte. E anche un romanzo pieno della realtà, quella (anche) del ruolo e della visione e della natura delle donne (lo dico solo perché tu hai citato quel punto). Donne con enormi meraviglie qua e là, disperse in una discarica di ruoli, di monnezza esistenziale, di paure, di violenze, di coercizioni umane (umane, non femminili. A me di femmine e maschi, come persona, non interessa niente. Io vedo persone, solo questo).

      Un libro maschile dici: certo, e fieramente. Un j’accuse continuo al mondo degli uomini, alla cultura della relazione dei maschi, ma anche lì con gemme come il Marinaio, il Vecchio, il Padre (come sul versante opposto la Signora, TeneraSilvia, la Prugna, le Madri…). Merda e diamanti mescolati in una “carne trita” di vita. La realtà.

      E nel Tranquillo e nel Pratico tanto pensiero maschile, ma anche il suo opposto, la sensibilità delle domande (che non sono femminili, sono il lato migliore dell’Uomo, femmina o maschio che sia), la meraviglia di inorridire (che è il contrario di considerare normale) la speranza che un posto migliore in questo cazzo di mondo ci sia, la voglia di andarci, anche se questo richiede un taglio netto con tutto e su tutto…

      Insomma, un romanzo “commedia umana”, un'”educazione sentimentale” per come avviene oggi, perfino quando tutto va al meglio. Un’educazione esistenziale.

      Le tue reazioni mi inorgogliscono, mi onorano, mi fanno venire la pelle d’oca, perché quel bivio, quel crocicchio, incasinato e incerto, è il posto più alto e migliore e più brillante e più fervido dove la letteratura (quando è alta, ambiziosa, forte, sincera e vera) può portare il lettore. Anzi, dove il lettore, grazie ad essa, può e deve recarsi da solo.

      Dunque grazie di cuore.

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