Bilanci esistenziali

Bilancio Esistenziale 2023 (BE23)

Giorno standard: sveglia presto; studio-scrittura-lavoro (mio e su Mediterranea) al mattino; lavoro fisico (carpenteria, falegnameria, agricoltura) durante il giorno, cucina-riposo la sera. E a letto presto (23.30 mediamente). Nota: lavoro fisico per me significa soprattutto meditazione: solitudine, silenzio, pensiero, postura mistica e spirituale. Monacato laico.
Poche relazioni, meno dell’anno scorso, con l’unica eccezione di Mediterranea (venuta qui e poi, in due periodi, io a bordo). Anno di cambiamento nei rapporti sull’isola: passaggio interessante, che chiamerei di autentizzazione e uscita “dalla bolla”.

Valutazione 2023: anno più che buono.

Dettaglio:
Produzione di lavoro/valore: molto alta, ai livelli del 2020. Diciamo 6 mesi effettivi, con 20 giorni/lavoro al mese, che anche se calcolati a 9€/h, cioè nella media, sono comunque tanti, quasi 9.000€, ma che in termini di prodotto realizzato (ciò che ho fatto, che valore ha aggiunto, quanto sarebbe costato pagare qualcuno per farlo) sono almeno 20.000, ma probabilmente di più.
Equilibrio: ancora mutevole, ma meno che in precedenza. Buona tenuta sui temi macro, discreta a livello intimo.
Armonia, forte, come raramente prima. Il numero di giorni definibili come perfetti è sensibilmente aumentato.
Relazioni. Anno partito con “Catania”, dunque acme forte iniziale, che si è spalmata poi bene nel corso dei mesi. Nel privato, rimane netta la sensazione di estraneità in alcuni ambiti relazionali, da approfondire e studiare (in parte ne conosco genesi e dinamica, ma qualcosa di determinante ancora mi sfugge). Sempre (troppo) alta, la mia prontezza a interrompere il dialogo. In sé è una cosa buona, sintomo di libertà, ma non si associa bene al mondo circostante. Da rivedere (soprattutto circa la sua natura. Verificare che non ci sia mai fuga dietro questo atteggiamento).
Natura/clima/temperatura. Rapporto impressionante: vita all’aperto oltre il 75%, giorni definibili come perfetti ben 6 (uno non l’ho annotato, dunque forse sono 7. La mia media annua da sempre è 2). temperatura per me ideale (ieri 10 dicembre ho messo per la prima volta i pantaloni lunghi e ho indossato per la prima volta una maglietta per lavorare fuori. Oggi piove, infatti). Cosmetici/detersivi/saponi/shapoo totalmente autoprodotti e naturali.
Studio. Discreto. In generale è stato un anno a basso gradiente intellettuale. Però buone alcune linee di studio e di riflessione. Materiale accumulato/annotato per il nuovo libro, più che soddisfacente. Analisi, decente.
Scrittura (produzione): anno di pausa. Lato meno positivo dell’anno, anche se non così deleterio. È l’anno in cui ho prodotto meno negli ultimi 15. Tema “entrate” non positivo. Nota positiva: scritto 8 testi per le canzoni del primo album del neonato gruppo musicale dei “Zona Franca” (di cui vi dirò). Splendido.
Energia. Buona, più fisica che psicologica.
Fisico: considerata la fatica fisica fatta nel lavoro (e l’età che avanza) piuttosto bene. Lavorato però con garbo (finalmente), dunque rispettando il tempo/recupero come mai prima.
Denaro. spese: bene, è stato l’anno più low-cost dell’ultimo quinquennio. Alcuni accorgimenti ancora possibili e auspicabili (decisioni da prendere). Entrate: prossime allo zero, ahimè.
Integrazione sociale: ai minimi storici. Non condivido quasi nulla di quello che vedo fare e dire alla maggioranza. Da approfondire: la lettura “sono tutti pazzi” è (forse) troppo semplicistica.
Cibo: strepitoso. Forse l’apice della mia minima (domestica) carriera di chef. Verdure km zero intorno al 90%. Utilizzo di erbe e piante selvatiche ormai altissimo.
Compassione: in crescita su ampia scala, in calo su scala individuale. Da rivedere.
Fumo: fumato comunque troppo.
Condizionamento dall’esterno: prossimo ormai allo zero.
Progetti: due. Uno in corso d’opera, uno ancora no.
Sport: tragedia Milan.

Viaggi/Vacanze: zero. Ma uno in programma per gennaio. Molto felice: sarà la mia prima piccola vacanza (dieci giorni) dopo l’Andalusia (2015).

In estrema sintesi, questo è il bilancio di quest’anno, fatto senza troppo riflettere, a pochi giorni dal rientro in Italia per le feste di Natale.

Un anno di autoproduzione importante: anche se con meno prodotto, siamo comunque stati autonomi dal punto di vista alimentare per un 40%, circa. L’anno scorso il 50%, ma l’impatto su salute e economia è stato comunque forte per noi). Impatto ambientale, tolti i 4 voli aerei, bassissimo: prodotta e consumata quasi esclusivamente energia dal fotovoltaico; bevuta solo acqua di fonte (bottiglie di plastica zero); produzione rifiuti bassissima (quasi zero packaging, riciclo totale); emissioni quasi zero (pochissimo gas per cucina, stufa a legna accesa una decina di volte a febbraio e ora tre volta soltanto fin qui. utilizzata solo legna tagliata qui, che dunque non è stata trasportata né fatta oggetto di commercio); chilometri percorsi in macchina, meno di 400/anno; motore Mediterranea circa 50% (diciamo 220 miglia non a vela sulle 450 navigate); acqua: ridotto consumo grazie a cisterna recupero e alimentazione da fonte.

Note: anno pieno, ma anche vuoto. Il vuoto non è semplice da maneggiare, ma credo di aver imparato qualcosa ancora. Battaglia contro l’ego, qualche vittoria in più delle sconfitte, il che è già tanto considerata la natura insidiosa del nemico. Buona accettazione delle mie mediocrità, anche se non è mai abbastanza. Ambizione, lievemente in calo purtroppo. Pazienza: in picchiata su alcune questioni (tema da analizzare). Paura della vita: stabile.

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La storia non piace ai bambini

A ogni fatto pompato dai media, osserviamo la stessa reazione:  immediata polarizzazione, radicalismo verbale, gioco a chi la spara più grossa, forte emotività, perdita di lucidità. Accade su tutto, che sia una pandemia, una guerra lontana, un fatto di cronaca. È il nuovo sintomo del morbo che scorre nelle vene della società.

Vi preoccupereste mai della perdita d’acqua in bagno mentre un serial killer sta sfondando la porta di casa vostra con una motosega? Nessuno lo farebbe. Eppure è ciò che vediamo oggi in Italia, dove presto non avremo più un Sistema Sanitario Nazionale pubblico ma nessuno fibrilla o si preoccupa. Già oggi chi ha un cancro deve ricorrere all’amico medico per un rapido esame istologico e per una ancor più rapida operazione chirurgica, per essere curato in tempo. Presto capiterà a ognuno di noi, ma nessuno ha i nervi a fior di pelle per questo.
Francesco Cognetti, Presidente della Confederazione degli oncologi, cardiologi e ematologi italiani, stimava due anni fa “ritardi e cancellazioni di oltre 100 mila interventi chirurgici per tumore, un incredibile disastro clinico-assistenziale”. Per l’inadeguatezza del già fragile sistema sanitario italiano, solo durante il primo anno della pandemia, abbiamo avuto 40 mila morti in più del solito per cause non-covid.
Questa sì che è una vera emergenza, dalle conseguenze inconcepibili, ma è una storia che non piace ai bambini che siamo diventati, ne vogliamo un’altra. Come non piace, non coinvolge, il tema della catastrofe climatica imminente (che palle!) o quello del rischio emergente di trasformare il Paese in uno stato presidenziale, e in cui già (e ancora) si attacca la magistratura.

Dopo decenni di scelte sbagliate nell’impostazione delle nostre vite, ci ritroviamo stanchi, oppressi, ansiosi, con un tessuto sociale e di relazione lacerato. Chi aveva urlato per un mondo migliore ha poi aderito mani e piedi al modello consumistico e mercantile, anzi, lo ha creato. Ed eccoci alle conseguenze di questo mondo storto: la grande delusione; una società malata di soldi, oggetti inutili, incapace di donare, che vive male, col fiato corto, pronta a incazzarsi per finta su finte emergenze (invece che davvero sulle vere) giusto per far fischiare un po’ la valvola della pentola a pressione. Una società triste, senza slancio, senza fiducia, che dubita del marito, che fa accordi prematrimoniali con la moglie, che odia il suo vicino, che non presta i suoi oggetti anche se vive in case-magazzino, che non sogna un mondo migliore, ma che si altera soltanto, come un folle, per i brufoli insorgenti del peggiore.

Siamo infantili. Accettiamo il peggio ogni giorno, vediamo sulla nostra pelle quanto ci fa male, constatiamo giornalmente quanto la rabbia ci tolga lucidità, e non ce ne vergogniamo. Accettiamo tutto, con tutto il trasporto del mondo, e ci basta dare un po’ di matto periodicamente, su un monitor, in una piazza, per andare avanti.
Occorrerebbe pensiero, di fronte alla complessità. Calma, tenuta psicologica, obiettività, capacità di vedere i numeri, voglia di analizzare, capacità di collocare le cose nel loro giusto peso.

Ma questo lo fanno società mature, non le adolescenti come la nostra. A noi basta gridare quando ci offrono l’occasione per farlo, sfogare la rabbia CHE VIENE DA ALTROVE e non ha nulla a che fare con quella specifica circostanza. E così trattiamo come emergenza ciò che emergenza non è. L’ordine di priorità viene sconvolto, la società adolescente si concentra tutta su qualcosa, invece che sul rischio più grande che dovrebbe affrontare.
Il potere ci sguazza, se ne compiace, perché il popolo a cui dovrebbe rendere conto si distrae per un nonnulla, guarda altrove.

Così accade che le piazze si riempiano, e metà del Paese frema di rabbia per la tragica morte di una ragazza uccisa dal suo fidanzato. Non è accaduto dieci femminicidi fa, non accadrà tra altri tre, ma adesso, perché la storia era mediatica, funzionava bene, è stata pompata quanto serve.
Non c’è alcuna emergenza, anzi, il tragico problema degli omicidi sulle donne cala regolarmente da anni, ed è facile che anche quest’anno, grazie al Cielo, si riduca ancora. Almeno nel nostro Paese, che è già, da sempre, uno di quelli dove questo fenomeno orribile è meno accentuato che nel resto mondo, dove muoiono invece ogni anno circa 46.000 donne per motivi analoghi. In Francia, Germania, Inghilterra e dovunque muoiono più donne che qui…

Ma non lo puoi dire, non lo puoi spiegare. Non puoi cercare razionalità in un bambino che piange. Se provi a spiegargli i numeri, o le ragioni, quello si incazza ancora di più. Non si vergogna della sua irrazionalità, piange e basta.
Solo che quello fa così con qualche diritto, perché è effettivamente un bambino.
Noi no.

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Qual è la tua onda?

Ho ascoltato questa canzone, “L’Uomo nello Specchio”, dall’ultimo album di Daniele Silvestri. Come spesso capita al talentuoso cantante romano, non va molto oltre la superficie, ma coglie sempre un tema interessante.(https://www.youtube.com/watch?v=oQguZst7-Ys…).

Qualche settimana fa ho anche avuto notizia dell’ultimo libro di Naomi Klein, che per coincidenza è sul tema del Doppio (“Cosa succederebbe se una mattina scoprissi l’esistenza di un doppio, una persona con la tua stessa identità ma con idee e comportamenti molto diversi dai tuoi?” NK).

Continuo poi a leggere articoli, libri (vedi ad esempio “Something deeply hidden…”, Sean Carrol, Dutton Book, 2019), o a ascoltare interventi a conferenze e seminari… sul tema di una realtà doppia, tripla, molteplice… in cui ancora e ancora si nega l’univocità, semmai si propone il suo opposto (1).
Insomma… Quando mi accorgo che ciò che vedo sempre più chiaramente, ciò che sperimento di continuo, non sono l’unico a percepirlo, mi rincuoro. Sento che “Il Quoziente Umano” è tutto fuorché un romanzo surreale e fantastico, anzi, è quasi iper realistico. La realtà non è indirizzata, definita, le cose non vanno solo in un modo, dunque non c’è destino… ciò che pare evidente e dimostrabile non è così. La realtà non è scolpita in nessuna pietra… anzi, è continuamente mutevole. E non muta solo ciò con cui ci mettiamo relazione (cioè la pietra) ma siamo noi a essere mutevoli, se solo lo percepiamo. E a ogni battere di ciglio.

Basta concepirlo, sentirne la concreta realtà.

(1) Quasi tutto ciò che leggo di fascinoso e interessante va oltre il folle argomento degli Universi Paralleli, in direzione della più realistica teoria “a Variabili nascoste” di De Broglie/Bohm, dove si trova qualche sintesi tra realtà fisica e fisica teorica. In soldoni: il gatto di Shroedinger è in un solo stato, vivo o morto, ma la sua onda Ψ ha entrambe le componenti, quella del gatto vivo e un’altra, la quale è vuota, priva del gatto tangibilmente morto, ma che fa interferenza col gatto reale vivo.
E allora mi chiedo: qual è la mia onda Ψ… che è reale, anche se priva di me fisicamente, e che interferenza crea con me, qui, fisicamente vivo e agente?).
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Un grano

Giorni di notizie difficili da digerire, che premono sul cuore. Notizie grandi, quelle che ricevono tutti, che basterebbero già a angosciare, e notizie personali, sofferenze, persone che amiamo… Un amico dal Libano mi scrive: “ho solo violenza intorno… portami via su un’isola”. Un’altra persona cara ci manda un referto… Un’altra ancora che…

Come si fa a resistere a questa preoccupazione… mi chiedo. Come si fa a non spostarla anche dentro, come si fa a non consentirle di dilagare nella mente, nell’anima, dove la speranza rischia di essere spazzata via… E come si farà quando altro ancora verrà.

Non perdete tempo.
Non indugiate. Non consentiamo al tedio della falsa quiete temporanea di sembrare un’oasi duratura, perché non lo è. Ciò che accade “quel” giorno, quando tutto precipiterà, quando la musica soffusa del mondo scomparirà sotto il frastuono delle macerie che crollano… è oggi che accade, in realtà. Oggi che il sole è ancora luminoso e caldo, oggi che pare un giorno di un’estate che non finisce mai. Oggi che c’è qualcosa di buono da fare, ancora e ancora. Oggi che possiamo consentirci il lusso di essere migliori. Il lusso. Ancora. Di essere. Migliori.

Anche se non sembra, anche se l’insensatezza rischia di avere il sopravvento… parole e azioni sono tutto quello che abbiamo. E hanno semmai ancora più peso, un potere immane. L’orrore della vita vorrebbe mostrarne l’inutilità, lo scarso impatto sul destino e sul senso. Be’, non rendiamo questo possibile. Opponiamoci, facciamo resistenza. Proviamoci.

Forse oggi (dobbiamo convincercene) quelle parole e quelle azioni, quei pensieri e quelle scelte, quei sentimenti e quelle convinzioni… sono tutto ciò che abbiamo in mano. Non riusciremo a trattenere la sabbia asciutta, stringendo i pugni. Ma qualcosa, fosse anche un solo grano, rimarrà.
Ed è tutto lì. Siamo noi quel pugno. Quel grano.

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Isso Bandiera del Mediterraneo. Proprio oggi, nell’ora più nera.

1941, l’anno di Pearl Harbor, della guerra all’URSS e dell’operazione “Tifone”, che arriva a 20 km da Mosca. L’anno in cui gli USA decidono di entrare in guerra, gli Inglesi dichiarano guerra a Finlandia, Ungheria, Romania, e la Grecia si arrende ai tedeschi. L’anno dei rastrellamenti degli ebrei e dell’avvio della loro eliminazione nei campi di concentramento. La guerra mondiale dilaga
Eppure
Tra gli oltre 800 internati e confinati sulla piccola isola tirrenica di Ventotene, un gruppo di comunisti, socialisti e anarchici discutono su un’idea inconcepibile: una unione federata dell’Europa che sta bruciando dovunque. Altiero Spinelli e Ernesto Rossi stendono il Manifesto di Ventotene, che getta le basi per la creazione dll’Europa Unita. A guardarli da lontano sembrano dei folli che non sanno come ammazzare il tempo, o degli utopisti inconsistenti che non riescono a vedere la distruzione, la morte, il dolore che, in quegli anni, era impensabile anchesolo immaginare si sarebbe redento in una unione di nazioni e popoli senza precedenti. Come potevano seriamente immaginare che la Francia filonazista di Vichy, la Germania di Hitler, l’Inghilterra, l’Italia di Mussolini, l’Austria, l’Ungheria, i paesi scandinavi occupati, la Grecia piegata dall’invasione nazifascista, cioè il teatro di una immane strage, potesse diventare un “Paese comune”?

Ma questo è accaduto. Già nel ’49 nasce il Consiglio d’Europa. Nel 1957, a Roma, si firmano i trattati che fanno nascere la CEE e l’Euratom. Nel ’68 viene varata l’Unione Doganale, nell’85 Shengen. Sono passati una manciata di anni, ma l’idea ha attecchito, ha battuto l’odio e la memoria dei massacri. L’Europa ha preso una strada nuova, con tutti i guasti di una giovane storia, che deve ancora crescere, diventare forse tutt’altro per poter essere autentica e efficace, dimenticando “l’Unione Economica”, diventando “Unione culturale e sociale”… ma esiste.

2023. Isso bandiera del Mediterraneo in queste ore terribili. Mi ispirano Altiero Spinelli e Ernetto Rossi, ideatori e promotori della lama di luce nel buio. Perché è di questo che abbiamo bisogno ora, ed è questo che dobbiamo fare ora: cercare la luce nel buio. Lle idee di unione pacifica tra simili, capaci di esaltare le diversità e farne ricchezza, diventano più forti proprio ora, proprio sotto le bombe, come nel terribile 1941.

Il tempo di un Mediterraneo unito è oggi, e va detto ora più che mai, con un coro alto e forte proprio mentre (in questo istante, mentre scrivo) razzi raggiungono la base Unifil in Libano, facendo temere un allargamento definitivo del conflitto.

Lavoriamo bene, ognuno alle sue cose. È quello che dobbiamo fare in queste ore. Chi scrive scelga ancor meglio le parole; chi produce produca con maggior cura; chi studia studi di più, chi ascolta presti più attenzione, chi cura gli ammalati si prenda cura con maggiore compassione; chi progetta scriva progetti perfetti, e si curi delle loro finalità. Servono oggi e serviranno ancor più domani persone estremamente preparate, serie, impegnate, capaci, che non subiscono derive umorali o inutilmente partigiane, per costruire un mondo che deve nascere proprio dal superamento di queste divisioni.

Non cediamo ora alla disperazione. E non abbiamo mai paura. Dovremo dire presto di no a qualunque guerra, a qualunque schieramento, dunque servirà coraggio, perché saremo noi, ognuno di noi, proprio in quanto cittadini del Mediterraneo, a dover fare la differenza. Nel nome di un mondo mediterraneo allargato e unito, quello a 30 Paesi (dunque anche l’Ucraina e la Russia, giova ricordarlo, come anche la Giordania e il Portogallo).

Isso la bandiera pieno di preoccupazione, ma ancor più di speranza e determinazione.

Clicca Qui, per avere notizie sulla Bandiera del Mediterraneo
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In giro

A volte basta mettere in giro la voce.

“Mi servirebbero delle mattonelle antiche”, ad esempio… C’è sempre qualcuno che ha qualcosa di cui vuole disfarsi, oppure che ha il problema di come smaltire materiale risultante da una ristrutturazione. E non c’è social network che tenga: il modo migliore è dirlo a voce, di persona, a chi magari, forse, potrebbe sapere, o almeno a sua volta dire… In questo caso, il nostro amico A., che è architetto.

E così ieri io e F, armati di coraggio e energia, col carrellino di J. (che ce lo ha prestato con tutta la macchina, perché noi ancora il gancio non lo abbiamo montato. A vivere come viviamo noi, gancio e carrello sono essenziali…) siamo andati a casa di O., che non è qui ma ci ha detto con entusiasmo “andate e prendetele tutte” (sembrava un’omelia nella chiesa devota al culto del Riciclo). Due chiacchiere con Guendaline e Robert, due ospiti scozzesi di O., e poi vai di braccia, gambe e schiena per prendere le piastrelle (sono “cementine” antiche, 20×20, spesse 2,5 cm, peseranno ognuna due chili e mezzo). Mille viaggi per raggiungere il carrello, carico ordinato su paglia per ammortizzare, due carichi e due viaggi fino qui (4 km), poi scarico e trasporto con la carriola fino a dove mi servirà il materiale. Alla fine (dalle 11.00 si erano fatte le 16.00…) eravamo abbastanza stravolti. Non ci siamo più alzati dal divano fino a sera…

Sono talmente dure che tu le puoi piccozzare dietro con tutta la forza che hai, per pulirle dalla malta residua, e loro non si graffiano neanche. Doveva averle posate uno che non lesinava col cemento… Oggi ne ho pulite 56 in un’ora e mezza. Poi ho mollato perché la schiena da ieri urlava ancora. Saranno 350 in tutto, per un peso stimato complessivo (malta residua inclusa) di più di nove quintali.

Sul mercato il prezzo di partenza è di 3 euro l’una, almeno qui. Se ne compri veramente tante (sempre che le trovi, non sono proprio diffusissime) arrivi a 2,5 €/cad. Dunque ieri abbiamo prodotto teoricamente intorno ai 1000 euro a forza di braccia, gambe e addominali. E abbiamo sgombrato materiale nella casa di O., che non sapeva cosa farsene e avrebbe dovuto pagare qualcuno per togliersele di torno.

Secondo me sono bellissime. Anche al Fienile dell’Anima ne abbiamo un po’, ma poche. In Italia sono sempre più rare (e care…). Oggi guardavo la catasta e mi sentivo ricco. Pulirle non sarà una passeggiata, come non lo è stato caricarle e trasportarle. Poi posarle sarà un altro lavoro…

Certo è che comprare qualcosa, anche di bello, anche di valore, è e deve essere l’ultima ratio. Prima bisogna cercare, nell’immondizia (qualche giorno fa ho trovato il controtelaio di una porta, che guarda caso mi serve. Legno nuovo di pacca. E due finestrelle antiche di un verde spento, meravigliose), o in giro, o chiedendo. Ora ad esempio mi serve un stufa a legna, anche piccolina. Ho messo in giro la voce. Vedrai che salterà fuori qualcosa (Παρεμπιπτόντως… αγαπητοί φίλοι του νησιού, αν έχετε μια μικρή ξυλόσομπα που δεν χρησιμοποιείτε, επικοινωνήστε μαζί μου, ευχαριστώ!).

Ci vuole sempre un valido motivo perché si produca un nuovo oggetto in questo pianeta strapieno di roba.

Un motivo indifferibile e inevitabile, possibilmente.
Altrimenti bisogna prendere quello che c’è e riusarlo, pulirlo, rassettarlo, restaurarlo, cambiargli d’uso, e così facendo rievocare lui, la sua storia, chi l’ha prodotto, chi l’ha usato, il suo tempo andato, vivendo insieme una sua prossima, possibile futura prospettiva.

C’è un enorme valore in questo, e non consiste solo nel non produrre rifiuti (che già sarebbe tantissimo) o nel ridurre emissioni perché non si fabbricherà qualcos’altro, o nel salvare denaro per smaltire o per acquisire. Il valore sta nel dare significato a ogni cosa, anche la più insignificante, perché quasi tutto può rivivere, far sorridere ancora, far immaginare ancora, quasi tutto è costato lavoro minerario o abbattimento di alberi, o idrocarburi per trasportarlo, e acqua, e fatica, tanta fatica di uomini laboriosi. E tutto questo non può finire nel gesto semplice, sciatto, banale di buttare via le cose e rimpiazzarle con altro che non era necessario. Così, al di là di ogni valutazione, è solo brutto.

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Utili, magari…

Ormai credo sia ufficiale: sono diventato insofferente alle partenze. Le ho sempre amate, e ora invece le soffro. Da tre o quattro anni, credo. Per qui, da qui, da altrove, per altrove, non importa come e quando, con che direzione. Mi prende una frenesia lieve, ma che non molla. Vorrei che fosse domani, io che sono il sacerdote degli istanti sacri…

Il che mi fa pensare.

Che accade?
Anche perché poi, una volta in movimento, il groviglio si dipana, il nuovo stato mi sembra subito interessante, mi adeguo facilmente all’altrove, che pare sempre ricco di opportunità, e mi sembra sempre più “facile” della mia provenienza. Non mi mancano eventuali abitudini, o comodità. Mi viene anzi da dire: “usti, ma così è proprio semplice… Una pacchia!”.

Salvo poi dire la stessa cosa dell’opposto, quando ricambia di palcoscenico.

Credo che abbia (anche questo) a che fare con “Il quoziente umano” che in me si modifica senza sosta. Quando cominci a separare, a contare, non si finisce più. Cambiano continuamente i fattori, ciò che divideva ora è diviso, ciò che si sottraeva ora si moltiplica. Le identità vengono fuori sempre più chiaramente, nettamente, tanto che non riesci più a farle tacere. Se un tempo mugugnavano, adesso si agitano, tirano sberle.

Ogni tanto urlano.

Portare alla luce cose profonde ha quella famosa controindicazione: “quando guardi a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te” (F. Nietzsche).

Vedremo chi trova più cose.
Utili, magari…

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L’unico modo

Lasciate stare per un istante che il calcio è un business ormai degenerato, che procuratori e manager la fanno da padrone e inquinano ogni cosa. D’altro canto è vero quasi per tutto, in questa epoca.
Ma mettete da parte tutto questo, per un momento soltanto. Certe storie impongono questa sospensione, per poter essere comprese.

Pensate che c’è un ragazzino, ogni giorno, che infila i suoi pantaloncini e i suoi scarpini in una borsa che, quando se la carica sulla spalla, sembra più grande di lui. Le sue speranze, la sua voglia di giocare, di emulare i grandi campioni, c’è, è autentica. Lo guida.
Se poi il bambino è un immigrato slavo in Svezia trent’anni fa… se vive in una borgata multietnica e violenta… se i soldi per il cibo mancano… Ecco che la faccenda si complica molto. Ma diventa epica.
Quel bambino ce la fa. Cresce, diventa alto due metri, e nei decenni seguenti diventerà uno dei più grandi campioni del suo sport. Riesce a venire fuori dal ghetto, ma il ghetto non verrà mai fuori da quel ragazzo. Giocherà sempre al calcio con la tensione morale di chi non sta semplicemente praticando uno sport.
Tornerà a Rosengard, il ghetto di Malmoe, e comprerà il campetto da calcio dove giocava da bambino. Lo renderà bello, per tutti.
Ieri quell’uomo ha abbandonato il calcio dopo una carriera sportiva fenomenale. Ha vinto tantissimo, ma senza cambiare mai. È stato sempre il primo ad arrivare agli allenamenti, l’ultimo ad andare a casa la sera. Così sono i professionisti che amo. Detesto i talentuosi ribelli, il genio-e-sregolatezza l’ho sempre disprezzato. A me piacciono quelli che ogni giorno, alla stessa ora, per lo stesso tempo, si applicano alla stessa cosa. I monaci, insomma. Cioè quelli che per quanto ego abbiano, pensano che ciò che fanno è più grande di loro. E vale di più.
C’è però un problema. Grande.
Come tutti quelli senza sufficienti strumenti per vedersi molteplici, quest’uomo ha puntato tutto su una sola vita.
E quella vita è finita ieri sera, allo stadio Meazza di Milano. A 41 anni.
E ora iniziano i guai per lui. Il ghetto non è mai uscito dal suo cuore, nonostante le coppe, gli scudetti, le giocate memorabili. Continuerà a ruggire, ogni giorno, ma non avrà più un avversario con cui sfogarsi. Sarà un triste risveglio, quello di questa mattina. Infatti, ieri sera, piangeva.
A me, che osservo le vite degli altri per capire la mia, rimane di lui l’agonismo assoluto, quello che viene da dentro, la durezza dello scontro, l’onestà dell’approccio, la motivazione religiosa nel fare e nell’esserci. E rimarrà la capacità di aiutare i compagni non tanto e non solo tecnicamente, ma con l’esempio. Quando un uomo di oltre quarant’anni che ha già vinto tutto si allena di più di un ragazzo di venti che non ha ancora vinto niente… quando lo fa con maggiore concentrazione, maggiore spinta, con impareggiabile assiduità e tenacia, anche dopo un infortunio che avrebbe stroncato la carriera a chiunque… allora quell’uomo, nel suo genere, nel suo mondo, e forse non soltanto nel suo, è un maestro. E come tutti i maestri, è duro ma generoso.
Comunque sia…
Che “a qualcuno piaccia il calcio” oppure no… che a prescindere dalle proprie passioni si intuisca vita dove ce n’è, senza curarsi troppo di selezionare o schematizzare il mondo in base alle proprie propensioni… Zlatan Ibrahimovic è stato, in una vita soltanto, l’emblema di tutto quello che un uomo non deve fare mai, ma anche dell’unico modo in cui farlo.

 

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Molteplicità e scelte. “Il Quoziente Umano” in diretta online a LIFE

Eccola, appena conclusa. Per chi se la fosse persa.
Grazie a Alfio Ottino e a LIFE.
Sono anche contento che siamo finiti a parlare anche della festa di oggi, il 2 Giugno.

Abbiamo lottato, dentro di noi, per fondare la Repubblica dei nostri desideri?

Buona visione.

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“Il Quoziente Umano” al Caffè di UnoMattina

 

Stamani, un’oretta fa, al Caffè di UnoMattina, con il bravissimo Pino Rabioli, che ti accoglie, ti fa parlare… de “Il Quoziente Umano” (Mondadori).

Clicca Qui per vedere l’intervista.

Buona visione!

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